Terry McCallister richiuse il garage
senza fare troppo rumore e si infilò le chiavi di casa nella tasca dei jeans,
accanto al pacchetto sgualcito di vecchie Marlboro
che aveva riesumato la sera precedente da un cassetto della scrivania
rimasto inesplorato forse per mesi.
Era tempo di ricominciare, aveva
stabilito quella notte mentre ci rifletteva su senza troppo impegno. Quale
momento migliore di questo per riprendere con le sigarette? Dopo una pausa
forzata di quindici anni, non c’era niente di meglio che lasciarsi riempire la
gola e i polmoni di fumo per riprendere a vivere nella maniera più adeguata.
Queste furono le conclusioni alle quali giunse Terry mentre saliva a bordo
della sua motocicletta e la avviava. L’Imperatrice,
così come la chiamava lui, rispose alla dolce carezza della sua mano sulla
chiave d’avvio con un ruggito potente e voglioso, che come un gemito sessuale
lo scosse da capo a piedi e gli fece venire i brividi.
Oh
sì, sei pronta a divorare l’asfalto, pensò Terry, sentendosi incredibilmente
eccitato. Udire il rombo accattivante del motore della sua motocicletta era
come rinascere per una seconda volta e uscire di nuovo dal grembo della madre
per vedere la luce a lungo proibita. Il sangue nelle sue vene stava ribollendo,
questo era poco ma sicuro.
Partì con un lieve scatto in avanti,
uscendo dal vialetto di casa e immettendosi nella carreggiata senza prima
controllare che la corsia fosse libera. Gli andò bene, perché nonostante
fossero le dieci del mattino non stava passando nessuno di lì. Rallentò per
fare la curva e si sistemò al centro della strada, quindi diede gas e filò via
come un razzo.
Il casco gli vibrava attorno alla
testa, e tutto il suo corpo era teso a contrastare il vento impetuoso che
tentava invano di disarcionarlo. Svoltò a sinistra e accelerò, superando
un’auto che procedeva lentamente nella sua stessa direzione ed evitando un paio
di pedoni che attraversavano la strada.
Aveva intenzione di fumarsi una bella
sigaretta, una volta finito quel rapido giro della città in sella alla sua
Imperatrice. La sua prima sigaretta dopo una pausa forzata durata quindici
lunghi anni. Ora che poteva permetterselo, la motocicletta e le sigarette
sarebbero state le sue uniche compagne di vita. In fondo, adesso tutti erano
liberi di fare tutto a Eglon, giusto? Entro le restrizioni poste dai
rivoluzionari, certo, ma pur sempre al di fuori delle costrizioni precedenti
che adesso erano immancabilmente decadute…
Sorrise e accelerò ancora, inserendosi
in Main Street e abbassandosi per assumere una posizione più aerodinamica.
Nessun vento poteva farlo vacillare, nessuno stop poteva mettersi tra lui e lo
spazio infinito che si sarebbe srotolato sottoforma di asfalto a contatto con
le gomme dell’Imperatrice. Era libero, finalmente libero di volare per conto
proprio.
Era la mattina del dodici settembre, e
Terry McCallister era finalmente, ufficialmente, inderogabilmente libero. Quanto gli piaceva crogiolarsi
in questi pensieri mentre correva sulla sua moto, accidenti! Era come avere uno
speciale orgasmo mentale!
Il suo sorriso si storse e assunse le
sembianze di una smorfia d’orrore. Non fece in tempo a registrare ogni
dettaglio di ciò che aveva visto, e ben presto l’istantanea scattata dal suo
cervello sfumò in un’inquadratura sfocata. Strinse le dita attorno ai freni, e
le ruote dell’Imperatrice si bloccarono e gli pneumatici stridettero
sull’asfalto secco, lasciandoci impressa una scia di gomma nerastra che odorava
di bruciato.
L’Imperatrice si fermò in mezzo alla
strada semivuota. Terry McCallister alzò la visiera del casco e si volse con
aria sconcertata, facendo cigolare i tendini del collo nel tentativo di
costringerli a una rotazione irregolare.
Oltre le sue spalle, appeso per una
corda la cui estremità era legata attorno alla testa di un lampione aggettante
verso il centro della carreggiata, il cadavere di un uomo con gli occhi
strabuzzati e la pelle gonfia e violacea penzolava a un paio di metri
dall’asfalto, morto impiccato.
LE
ANIME DI EGLON
PRIMA
STAGIONE
EPISODIO
14
LA
CACCIA È APERTA
«Direi che è un bel problema…»
bofonchiò il vicesceriffo Patrick Wieler scostando leggermente la tenda e
scrutando l’esterno con fare inquieto.
«Sono assolutamente d’accordo» approvò
Brian Jones con un grave cenno del capo, imitando il poliziotto e ritraendosi
immediatamente per lasciare spazio sufficiente a Jeremy Barton affinché vedesse
con i propri occhi.
«Non possiamo farci niente, per il
momento» replicò il vicesceriffo Wieler andando ad accomodarsi su una delle
sedie disposte attorno al tavolo della cucina di Phil, il poliziotto che li
aveva ospitati la notte dell’attacco. La mattina prima, quando loro tre erano
usciti, personalmente aveva ammonito i colleghi a prestare la massima
attenzione. La sera, poi, erano rientrati dopo il loro giro di ispezione presso
le barricate settentrionali della città e non avevano trovato nessuno. La casa
di Phil era ineluttabilmente vuota, e non era comparsa anima viva per tutta la
notte. A turno Patrick, Jeremy e Brian avevano dormicchiato un paio d’ore sul
divano, lasciando sempre uno dei tre sveglio a fare la guardia. Non era
successo nulla, ma questo silenzio non appariva comunque un granché rassicurante.
«Forse li hanno beccati» azzardò finalmente
Jeremy, dando voce alla preoccupazione che era di tutti, ma che nessuno aveva
il coraggio di formulare a parole.
«Può darsi,» concesse Brian sedendosi
dall’altra parte del tavolo, «ma è anche possibile che se ne siano andati di
propria spontanea volontà. Magari hanno fiutato qualche pericolo e hanno preferito
levare le tende…»
«Avrebbero lasciato un biglietto o un
qualche genere di indizio» ribatté Patrick, interrompendolo con voce stanca.
«Forse non ne hanno avuto il tempo»
insisté Brian, sebbene apparisse lui stesso poco convinto delle proprie tesi,
malferme e inconsistenti.
«Ad ogni modo, resta il fatto che
abbiamo perso le tracce dei poliziotti che erano con noi e dell’intera famiglia
di uno di loro» riprese Jeremy, cupo. Si riferiva naturalmente alla famiglia di
Phil, che abitava in quella casa vuota nella quale si trovavano loro adesso.
Non era rimasto nulla a indicare dove potessero essersi cacciati, e ad essere
sincero Jeremy cominciava a temere piuttosto seriamente il peggio.
«Sentite, l’Esercito è qui ormai, e
penso sia soltanto questione di tempo prima che i soldati irrompano in città e
sistemino la questione. Dobbiamo solamente aspettare…» saltò su all’improvviso
il vicesceriffo Wieler, dimostrando di essere più che consapevole di quello che
stava dicendo.
«Non credo proprio che sia così
semplice. Avete sentito e visto quei
mortai, ieri pomeriggio, quando hanno fatto fuoco contro le prime linee dell’Esercito.
Era un segnale. Un messaggio. Diceva di stare alla larga da Eglon e di non
immischiarsi. No, i soldati non irromperanno in città. Non abbastanza presto,
in ogni caso. Ce la dobbiamo sbrigare da soli» lo contraddisse Brian Jones con estrema
calma, parlando senza un filo di agitazione nella voce e facendo emergere il
suo accento aristocratico e, ora che Jeremy ci prestava attenzione, vagamente
inglese.
«Ma l’Esercito…» principiò a
difendersi Patrick Wieler, scosso.
«L’Esercito è qui soltanto per una
mera questione di facciata, vicesceriffo. Dovresti rendertene conto più di
chiunque altro. L’opinione pubblica sarà dilaniata dalle proteste, la notizia
avrà già messo in subbuglio tutto quanto il globo. Non possiamo nemmeno
immaginare che cosa stia accadendo fuori di qui. L’America ha bisogno di
conservare le apparenze, gli Stati Uniti devono
far vedere che la rivoluzione è contenuta e che la città presa d’assalto è
ora tenuta sotto stretto assedio dalle forze armate. In realtà, così facendo
facilitano il gioco ai terroristi» spiegò Brian Jones assumendo un sottile tono
di sufficienza che si affrettò a reprimere, riacquistando il proprio galante accento
aristocratico
(e
inglese)
che sapeva inevitabilmente di affidabilità, nonostante
l’immancabile retrogusto di presunzione.
«Dovremmo riuscire a comunicare con
loro…» avanzò Jeremy dopo qualche istante di silenzio.
Brian si volse a guardarlo e gli
rivolse un sorriso stentato. «Detta così sembra facile. Ma di certo sarebbe
utile avere la possibilità di comunicare con l’Esercito…» rifletté.
«Potremmo aiutarli a coordinare le
operazioni. Se non hanno modo di vedere dentro la città, potremmo essere noi i
loro occhi…» convalidò il vicesceriffo Wieler, pensieroso.
«Prima però dobbiamo capire che fine
hanno fatto Phil, la sua famiglia e tutti gli altri poliziotti» ricordò loro
Jeremy, riemergendo inaspettato come la voce della coscienza che ritorna a
rammentare quale sia la cosa più giusta da fare.
«Già…» concordò Brian Jones, estraendo
la pistola dalla fondina nascosta dietro la giacca e controllando rapidamente
che fosse carica.
«…non ti sto dicendo che la devi
cacciare fuori, sto semplicemente cercando di farti capire che non la voglio
qui. Non mi sento a mio agio, ecco tutto…» mormorò Betty, facendo palesemente
il possibile per tenere un tono di voce basso ma allo stesso tempo dando
l’impressione di non preoccuparsi minimamente dell’eventualità che la diretta
interessata potesse sentirla.
«Tesoro, te lo ripeto: non ha nessun
posto dove andare, e finché non troviamo mio padre o suo cugino lei rimarrà
qui» ribadì stancamente Daniel Green, strofinandosi gli occhi con mano leggera.
Quella notte aveva dormito quasi otto ore, eppure si sentiva ancora stanco
quanto la sera prima. Gli ritornò in mente la faccia spaventata con la quale
Betty l’aveva accolto nel tardo pomeriggio, quando era rientrato a casa, e
l’espressione incredula, sbalordita e sotto sotto risentita che aveva prodotto appena
Rebecca aveva varcato la soglia dietro di lui.
Le avevano spiegato tutta quanta la
storia, rammentò Daniel. Betty si era dimostrata comprensiva e non aveva detto
niente. Aveva preparato il divano a Rebecca e aveva lasciato dormire entrambi,
rimanendo sveglia in camera con lui a guardare fuori dalla finestra.
Addormentandosi aveva pensato che la
sua ragazza, dopotutto, l’aveva presa bene… Evidentemente si sbagliava.
«Non mi va di avere un’estranea in
casa, Daniel. Non sappiamo niente su di lei. Magari è con quelli là…» ipotizzò
Betty, riferendosi ovviamente ai ribelli che avevano attaccato e conquistato la
città gettando la popolazione di Eglon nella situazione di caos più estremo che
avesse mai vissuto.
«Ne dubito, amore. Ad ogni modo, lei
per ora resta. Decideremo in seguito che cosa fare» concluse in tono categorico
Daniel, oltrepassando la porta della stanza e andando verso la cucina per
prepararsi una colazione veloce. Aveva in proposito di uscire di nuovo a
cercare suo padre. Aveva bisogno di qualche risposta, e dentro casa non
l’avrebbe trovata di certo.
E poi, chissà se mamma già sapeva
quello che era successo a Eglon nelle ultime ore…
Udì la porta sbattere e tutt’a un
tratto scoprì di essere sveglio.
Si guardò attorno e riuscì a
distinguere i bordi soffusi dello schienale di un divano in similpelle. Più in
là, una parete intonacata di bianco con un paio di quadri appesi. L’aspetto
dell’ambiente, visto da quella prospettiva, era generalmente sobrio. Si stava
bene. Niente che distraesse, niente che richiamasse troppo l’attenzione. Tutto
perfettamente accettabile, ecco.
Sonny si rese conto di essere
osservato solamente quando l’uomo che stava alla porta si fu schiarito
sonoramente la gola. Si girò di scatto sulla schiena, colto alla sprovvista, e
assorbì tutto d’un fiato l’immagine del tizio che lo fissava dall’ingresso del
salotto a braccia conserte. Un lieve venticello che odorava di sigaretta lo
raggiunse e lo sfiorò, lasciandolo indenne e passando oltre.
«Ti sei svegliato, vecchio?» gli
domandò una voce sprezzante e velatamente indifferente che Sonny Dangerwood
riconobbe essere quella che il giorno addietro lo aveva salvato, offrendogli un
riparo pochi istanti prima di essere scovato e catturato dagli uomini che
avevano preso Ben Dolovan. Annuì, visibilmente confuso.
«Ti senti bene?» s’informò, lasciando
intendere dal tono di voce che in realtà gli interessava poco o niente.
«Penso di sì» balbettò Sonny,
esprimendo con queste parole più una speranza che una vera e propria
supposizione.
«L’hai scampata per poco, lo sai?»
buttò lì l’uomo sulla porta, senza alterare la posa statuaria a braccia
incrociate che aveva assunto quando aveva messo piede nella stanza.
Sonny annuì di nuovo. «Quanto ho
dormito?» volle sapere, voltandosi del tutto e mettendosi a sedere sul divano.
«Fai conto che hai perso i sensi ieri
pomeriggio e adesso è di nuovo sera» rispose lo sconosciuto senza prendersi la
briga di aggiungere altro.
Calò un silenzio imbarazzante. Sonny
osservò l’ambiente nel quale si trovava per cercare qualche diversivo, ma lo
sguardo gli cadde immancabilmente di nuovo sul tizio che stava alla porta. Lo
stava ancora fissando, immobile a braccia conserte. Indossava un giubbotto di
pelle o di cuoio – troppa poca luce per dirlo con certezza – e pesanti stivali
da motociclista su un paio di jeans slavati.
«L’uomo che era con me? Ben Dolovan?»
si ricordò all’improvviso Sonny, sperando che il padrone di casa lo avesse
visto il pomeriggio precedente e sapesse di chi stava parlando.
«Vuoi dire il poliziotto?» bofonchiò
l’uomo, con fare distaccato.
«Sì, il poliziotto» rammentò Sonny,
richiamando alla memoria tutti i fatti che all’interno della sua mente
giacevano catalogati in mezzo a quelli degli ultimi giorni.
«Andato» spiegò laconicamente il suo
interlocutore, minimizzando la cosa con una disinvolta alzata di spalle.
«Che significa andato?»
«Significa che i Sorveglianti hanno
fatto il loro lavoro, vecchio. Hanno sorvegliato, hanno seguito, hanno scovato
e hanno eliminato. Uno a zero, palla al centro. Il tuo amico poliziotto è
andato a farsi friggere in un posto che a detta di molti dovrebbe essere più
alto e più luminoso di questo, con un’aria decisamente più pulita» illustrò
l’uomo con una certa freddezza, lasciando Sonny allibito.
«Lo hanno ammazzato?»
«No, ma che idea ti sei fatto? No, non
lo hanno ammazzato, vecchio. Lo hanno portato a fare una passeggiata là dove
nasce l’arcobaleno, in un prato di fiorellini con tanti conigli parlanti di
peluche tutti colorati» lo rimbeccò il padrone di casa, impassibile.
Sonny inghiottì a vuoto. Ben Dolovan,
il poliziotto che gli aveva salvato la vita una manciata di ore prima, era…
morto. Possibile? Succedevano davvero cose del genere, nel mondo reale?
«Chi sono i Sorveglianti?» chiese
Sonny Dangerwood con un filo di voce impastata.
L’uomo che stava alla porta finalmente
sciolse le braccia e gli si avvicinò di un passo, squadrandolo con incredulità.
«Ma in che razza di città ti sei svegliato, tu, la mattina dell’ultimo undici
settembre?»
Cathy si profuse in un sonoro
sbadiglio, senza badare di nascondersi la bocca con una mano, e riportò gli
occhi sulle pagine del romanzo che stava leggendo. Reggeva il libro nella
destra, sollevandolo il più vicino possibile al viso per far sì che le pagine
raccogliessero tutta la luce proveniente dalla piccola finestra alle sue
spalle, e teneva il segno con un dito. L’intestazione della facciata di
sinistra recitava in caratteri corsivi: CAPITOLO VII. Cathy trovava avvincente
quella storia, anche se l’aveva iniziata da poco, e aveva deciso che avrebbe
seguito tutta quanta la serie, i cui sette volumi erano disposti in bella
mostra sullo scaffale addossato alla parete di fronte.
Voltò pagina e spostò il dito per
continuare a tenere il segno. La luce di fuori andava trasformandosi in una
pozza rossastra via via più soffusa. Tra poco avrebbero acceso le lampadine del
salone, ma non era ancora giunto il momento di farlo. La luce, lì dentro,
funzionava con un generatore e Cathy aveva capito che i padroni di casa
preferivano conservare più carburante possibile in vista di tempi che prevedevano
sarebbero diventati senza ombra di dubbio più difficili.
Erano stati carini con lei.
Specialmente l’uomo con la maschera nera e blu, che le aveva rivelato di
chiamarsi Gerald. Non si erano mai fatti vedere in volto, naturalmente,
(a
nessuno di noi è permesso farlo)
ma erano comunque divenuti in un certo senso suoi… amici. Perché l’avevano salvata e perché
adesso la stavano proteggendo dai disordini che c’erano là fuori.
Aveva passato la giornata precedente
chiusa in quell’appartamento interrato, senza vedere nessuno eccetto Gerald.
L’uomo le aveva spiegato che cosa stava succedendo esattamente a Eglon e
l’aveva rassicurata sul fatto che non sarebbe morto nessuno che non lo
meritasse almeno in parte. Lei aveva accettato e digerito la cosa, un po’
perché non aveva scelta e un po’ perché quel Gerald le ispirava fiducia.
Dopotutto, era stato lui a portarla via dall’aeroporto cittadino prima che i
suoi compagni ribelli demolissero il terminal per lasciare spazio al materiale
da costruzione destinato alle barricate. Gli doveva molto, dunque. E sentiva
quasi di conoscerlo. Come se fosse un amico d’infanzia o qualcosa del genere,
anche se allo stesso tempo era più che sicura che fosse la prima volta che
Gerald metteva piede, garbatamente e con una certa eleganza, nella sua vita.
Una sensazione strana, contraddittoria, eppure funzionava grossomodo così.
Aveva trovato il libro che stava
leggendo proprio quella mattina, dopo essersi svegliata. Aveva chiesto a Gerald
se poteva dargli un’occhiata, e lui le aveva risposto che facesse pure come se
fosse stata in casa propria. Lo aveva ringraziato e si era immersa nella
lettura, sentendosi assorbita immediatamente dalla narrazione.
Gerald aveva da fare, quel pomeriggio.
Le aveva detto di aspettarlo pure per cena, ma che non era sicuro di farcela ad
arrivare in tempo. Non le aveva svelato nient’altro. La sua mancanza si era fatta
sentire, perché era da quando si erano incontrati nel terminal aeroportuale che
lui era divenuto il costante punto di riferimento di Cathy. Gli altri uomini
mascherati che transitavano di quando in quando da una stanza all’altra non li
conosceva, né tantomeno loro le avevano mai rivolto la parola. Quasi che… non
ci fosse, ecco. La ignoravano senza farsi problemi, ma Gerald no. Gerald era
carino con lei. La trattava sempre con cordialità e dolcezza, e Cathy sapeva
che sarebbe potuto sembrare assurdo, ma le pareva di iniziare a sentirsi legata
a Gerald. E adesso era un po’ preoccupata per lui, perché non sapeva dove fosse
e che cosa stesse facendo. Con quello che stava capitando là fuori, gli sarebbe
potuta succedere qualunque cosa.
Voltò pagina ancora una volta e spostò
il dito per non perdere il segno. La luce continuava a diminuire d’intensità, e
presto Cathy non sarebbe più riuscita a mettere a fuoco abbastanza bene le parole
sulla carta. Si sarebbe dovuta interrompere finché non avessero acceso qualche
lampadina, per non rischiare di sforzare troppo gli occhi e farsi venire il mal
di testa.
Trovarsi in una casa sconosciuta, con
uomini dai volti coperti che giravano armati fino ai denti dalla mattina alla
sera come se niente fosse, non la intimoriva per niente. Si sentiva al sicuro,
lì dentro. Certo, se non ci fosse stato Gerald a rasserenarla probabilmente un
po’ di apprensione l’avrebbe provata eccome, ma siccome Gerald c’era e sarebbe ritornato al massimo
entro qualche ora si sentiva tutto sommato piuttosto tranquilla.
A conti fatti, stava decisamente
meglio lei, in quell’appartamento interrato, di tutti gli abitanti di Eglon che
si trovavano là fuori.
La luce si fece ancora più fiacca,
così Cathy raccolse dal tavolino davanti a sé il segnalibro che vi aveva posato
un paio d’ore prima e lo piazzò sulla pagina alla quale era arrivata, chiudendo
il romanzo e alzandosi per riporlo sullo scaffale.
«Cathy… Come stai?» la colse di
sorpresa una voce alle sue spalle. La giovane donna sobbalzò e si girò quasi di
scatto, scorgendo dinnanzi a sé la maschera anonima e imperscrutabile di
Gerald.
«Ah, sei tu» mormorò con un sospiro di
sollievo. «Mi hai spaventata. Ciao. Tutto bene, grazie. Sei tornato presto…»
«Ho finito prima del previsto» spiegò
Gerald indicandole il divano e prendendo posto accanto a lei.
«È andata bene?» s’informò Cathy,
accorgendosi solo superficialmente dell’assurdità della situazione: stava
parlando a un perfetto sconosciuto come a un marito appena rincasato dopo il
lavoro, e la cosa appariva alquanto buffa. Anche se, a dire il vero, in quel
momento la trovò del tutto normale.
«Sì, suppongo di sì» restò sul vago
l’uomo, sogguardando lo scaffale dei libri. «A che capitolo sei arrivata?»
volle sapere, in tono di viva curiosità.
«Al settimo» rispose Cathy, sorridendo
apertamente. «Mi sta davvero prendendo.»
«Posso crederti. È uno dei miei libri
preferiti» confessò Gerald, e il viso della ragazza si illuminò.
«Dici sul serio?»
«Ma certo. Tutti i libri che vedi in
quello scaffale li ho portati qui io. Per avere qualcosa da leggere nelle
prossime settimane, quando il grosso dei lavori sarà stato completato e non ci
rimarrà che attendere» chiarì Gerald, e dal tono della sua voce si intuì che
stava sorridendo.
«Caspita… Sei un divoratore di
romanzi…» commentò Cathy passando in rassegna il mobile con lo sguardo. «E un
lettore onnivoro, oserei aggiungere.»
«Sì, leggo un po’ di tutto» confermò
Gerald con un’alzata di spalle. «Se ne hai voglia, possiamo leggere qualcosa
insieme.»
«Ne sarei davvero felice» approvò
Cathy, e i loro occhi si saldarono in un contatto improvviso che nessuno dei
due ebbe il coraggio di interrompere.
«Buon appetito…» mormorò Robert,
affondando la forchetta negli spaghetti al pomodoro che Sarah aveva appena
servito in tavola.
«Buon appetito» gli fecero eco Stan,
Sarah, Michael e Christine. Questi ultimi rimasero fermi per qualche istante,
fissandosi con fare un po’ impacciato. Non cenavano allo stesso tavolo da un
tempo incalcolabile, e la situazione non pareva solamente strana, quanto
piuttosto assurda.
Stan cercò di abbozzare un mezzo
sorriso all’indirizzo del piccolo Michael, che senza indugio abbassò gli occhi
sul proprio piatto e cominciò a mangiare come se fino a quel momento avesse atteso
il permesso del papà. Christine scoccò un’occhiata alla madre e si chinò a sua
volta sugli spaghetti fumanti, distogliendo lo sguardo con lesta fulmineità.
Sarah iniziò a mangiare, così Stan,
per non dare l’impressione di essersi perso nei pensieri, raccolse
un’abbondante forchettata di pasta e se la infilò in bocca senza rifletterci.
Scottava. Gli occhi presero a lacrimargli, ma fece finta di nulla e mandò giù. Anestetizzò
la lingua con un bel sorso di acqua fresca, e posando il bicchiere gli venne da
chiedersi quanto a lungo, ancora, sarebbe durata quell’apparente normalità. Il
cibo in città avrebbe cominciato presto a scarseggiare, e l’Esercito non
sarebbe rimasto fermo alle porte di Eglon senza muovere un solo muscolo. I
ribelli lo sapevano, come pure i cittadini. Ma forse nessuno sapeva con
esattezza che cosa sarebbe accaduto in seguito, quando gli scontri fossero
ripresi. Anzi, quasi sicuramente era così.
Quale sarebbe stata la prossima mossa?
A chi toccava spostare la propria pedina per primo?
Un calpestio veloce dietro la porta
d’ingresso. Stan lo percepì e sollevò la testa, lasciando la forchetta a
mezz’aria, a metà strada tra il piatto e la bocca. Gli altri non si accorsero
di nulla. Forse se l’era immaginato.
Ma ecco che un altro rumore di passi
proveniente dalla finestra lo raggiunse.
Sollevò una mano e si portò l’indice
alle labbra per fare segno agli altri di stare in silenzio. I presenti si
paralizzarono, come in una vecchia fotografia sfocata, e i passi ripresero
lungo il vialetto d’accesso dell’abitazione, scomparendo al di là del giardino.
«Che cosa…?» principiò Sarah, ma Stan
era già in piedi e si stava dirigendo di gran carriera verso la porta
d’entrata. Robert alzò le spalle, sporgendo la testa per vedere che cosa
facesse l’ex marito della sua fidanzata.
Stan ritornò in cucina subito dopo,
reggendo in mano un foglio di carta che sembrava un volantino. Lo stava
leggendo, e la sua espressione era cupa e vagamente ansiosa.
«Cos’è?» volle sapere Robert.
Stan finì di leggere e tirò su la
testa, passando in rassegna i volti scuri della sua famiglia e soffermandosi
poi su quello attento dell’uomo.
«Un avviso. O, meglio, una
segnalazione» esordì Stan in tono roco. Riabbassò gli occhi sul volantino che
reggeva tra le mani e lesse a voce alta: «Si
allerta la popolazione di Eglon a prestare la massima attenzione a tutti i
poliziotti ancora in libertà. La polizia è nemica della Rivoluzione, perciò
nostra e vostra nemica. Invitiamo tutti voi a denunciare qualunque poliziotto
conosciate o incontriate. Chiunque verrà pescato a dare protezione a un
poliziotto sarà incarcerato. Invitiamo inoltre tutti i poliziotti a disarmarsi
e a consegnarsi di propria spontanea volontà, promettendo che non verrà fatto
alcun male né a loro né alle loro famiglie. Per quanto riguarda invece tutti
quei poliziotti che ancora vagano liberamente per le strade di Eglon con
l’intenzione di fermare la Rivoluzione, il messaggio è il seguente: la caccia è
aperta.»
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