Se
lo sentiva che qualcuno lo stava osservando. Se lo sentiva eccome. Ma ogni
volta che provava a voltarsi
(ti ho beccato figlio di puttana)
di
scatto per sorprendere l’uomo che lo spiava, si trovava davanti soltanto una
finestra. Una finestra chiusa
(non soffro di claustrofobia non più da
quando avevo quattordici anni)
ma
soprattutto vuota, dalla quale
l’unica cosa che si poteva intravedere era un pigro giardino placidamente
disteso sotto il granuloso sole di un novembre qualunque. Il pigro giardino di
casa sua. La finestra chiusa e vuota di casa sua. Sulla parete del soggiorno di
casa sua.
(come se questa casa non mi appartenesse
più)
Si
sentiva come se la casa non fosse in realtà veramente tanto sua. In fin dei conti, quando l’aveva
comperata si era fatto accompagnare da quella donna, quell’agente immobiliare
dall’aria professionale con il sorriso smagliante
(avrà registrato ogni angolo dell’abitazione
con una telecamera nascosta tra i capelli)
e i
lunghi capelli ramati raccolti in un’altrettanto professionale coda di cavallo.
(la planimetria della mia casa si trova al
catasto, e quelli del Comune la possono consultare)
Ed
era come se in un certo senso quella graziosa agente immobiliare con la fede al
dito
(anulare sinistro è sempre sull’anulare sinistro)
avesse
trattato la casa allo stesso modo in cui avrebbe presentato agli amici le
stanze della propria abitazione. Lo sapeva che gli agenti immobiliari facevano
così per riuscire a vendere. Ma gli era sorto il sospetto, in quel momento, che
la simpatica e attraente agente immobiliare della visita alla casa prima
dell’acquisto fosse un po’ restia a lasciargliela. Magari era lei che lo
spiava, che lo osservava quando sentiva degli occhi puntati su di sé. La bella
agente immobiliare rivoleva indietro la sua casa
(eh no è mia)
che
lui aveva pagato duecentotrentacinquemila e settecento euro. L’aveva pagata lui!
(la planimetria ce l’ha anche il geometra
che l’ha progettata)
Con
la planimetria chiunque poteva sapere dove si trovassero esattamente le finestre.
E dalle finestre potevano entrare, anche se chiudeva i balconi con il lucchetto
e sigillava ogni apertura. Per di più, durante il giorno lo potevano
intravedere attraverso i vetri,
(e un cecchino anche con una mira piuttosto
scarsa potrebbe colpirmi dagli edifici circostanti)
per
questo non dava mai le spalle alle finestre. Il che era difficile, in
particolar modo nel pianterreno, dove tre pareti su quattro avevano dalle due
alle tre finestre. Non gli rimaneva che sigillare i balconi di una delle tre
pareti (su quella senza finestre si affacciavano le scale per andare di sopra,
e qualcuno poteva essersi introdotto in casa dai piani superiori e poteva
scendere per coglierlo alla sprovvista) e dare la schiena alle finestre
sigillate. Qualche volta, dalla parte interna dei balconi aggiungeva delle
lastre di acciaio che aveva trovato giù alla discarica, di modo che se gli
avessero sparato anche senza vederlo sarebbe stato protetto.
Il suo psicanalista gli aveva detto che soffriva di una
forma piuttosto acuta di paranoia. Lui gli aveva riso in faccia. Non era
paranoia, e quello stupido dello psicanalista non riusciva a capirlo. Erano gli occhi. Gli occhi che lo osservavano
ogni giorno, dalla mattina alla sera, che seguivano i suoi movimenti nella
casa, che lo divoravano… Erano
semplicemente gli occhi.
C’erano occhi dappertutto, in casa sua. Affioravano dalle
scale, dalle pareti, dal soffitto, persino dalla mobilia. Certe volte si
aprivano terrificanti palpebre sul pavimento e lui doveva fare attenzione per
non calpestarle.
Erano gli occhi
(dell’agente
immobiliare del tizio al catasto del geometra figli di…)
di una moltitudine spaventosa di persone che lo tenevano
sotto controllo, che lo spiavano. E quando tutti quegli occhi si aprivano su di
lui si sentiva consumare come se lo rosicchiassero…
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