giovedì 25 agosto 2011

Un folle pozzo di sogni

Scrivere è un po’ come navigare sulle acque placide di un tranquillo lago di montagna con una canna da pesca tra le mani: bisogna pazientare finché le idee non vengono all’amo e poi ci si deve sbrigare ad acchiapparle, altrimenti fuggono via e fanno ritorno nelle buie profondità delle onde. La letteratura, in tutto questo, svolge un ruolo di primo piano: essa consiste nel “fissare” le idee appena catturate sulla carta, e appena lo si fa quelle idee stesse si trasformano in “letteratura”, una tra le più antiche e nobili arti partorite dal cuore, dalla mente e dall’animo umani.
A che cosa serve la letteratura? Qual è la sua vera utilità? Fin dalla nascita di questa forma d’arte l’uomo si è sempre posto tali interrogativi, spesso scrivendo i propri pensieri e chiedendosi quale fosse la linea di demarcazione tra “riflessioni personali” e “letteratura”; la verità è che le une si mescolano con l’altra e ogni scritto, di qualsivoglia natura, è da considerare letteratura e arte.
Eugenio Montale definisce la parola quale «formula che mondi possa aprirti» mentre Proust, nel suo testo “Sur la lecture”, sottolinea l’importanza della lettura ed elogia il piacere sconfinato che essa è in grado di produrre: «Forse non ci sono giorni della nostra adolescenza vissuti con altrettanta pienezza di quelli che abbiamo creduto di trascorrere senza averli vissuti, quelli passati in compagnia del libro prediletto.» Soltanto la fantasia evocata dai libri permette alle persone di abitare un’infinità di luoghi diversi, di muoversi nel tempo e di vivere una miriade di esistenze totalmente differenti senza doversi muovere di un solo passo.
Le esperienze che un libro è capace di far vivere sono inestimabili, a volte vere quanto la realtà.
Stephen King nei suoi romanzi parla della letteratura come di un’ancora di salvezza che impedisce alla nostra creatività di esaurirsi nella ripetitiva monotonia di tutti i giorni, una comoda via di fuga dalla prigione della realtà che ci consente di evadere in un «folle pozzo di sogni».
Ad ogni modo alcuni asseriscono che ai nostri giorni la letteratura e la poesia non servono più a nulla. Questa concezione non è propriamente recente: sono in molti a sostenerlo, anche nel passato, primo fra tutti il noto scrittore Oscar Wilde, che nella sua “Introduzione” al romanzo “Il ritratto di Dorian Gray”, pubblicato nel lontano 1891 e accompagnato da una delle più ampie scie di critiche nella storia della letteratura, sentenziò: «Tutta l’arte è perfettamente inutile.» Con ciò intendeva dire che essa non produce nulla e non aiuta nessuno, non può tendere la mano a chi è in difficoltà e acquista significato soltanto in se stessa, nella propria bellezza.
A quest’idea si oppongono intellettuali del calibro di Todorov, il quale pone come «oggetto della letteratura la stessa condizione umana» e designa il lettore quale «conoscitore dell’essere umano», invitando poi a coltivare la scrittura con passione e dedizione: «[…] bisogna includere le opere nel grande dialogo tra gli uomini, iniziato nella notte dei tempi e a cui ciascuno di noi […] prende ancora parte.»
Quest’ultimo punto di vista mette in evidenza l’utilità morale ed educativa della letteratura, a lungo trascurata e definita “arte marginale”. C’è da dire, inoltre, che assai spesso essa è più utile e importante per lo scrittore che non per il lettore: scrivere infatti aiuta a riordinare i pensieri, a conoscere se stessi in profondità, a scendere a patti con i turbamenti della propria anima; chi scrive sa benissimo di non poterne fare a meno: in qualunque luogo, in qualsiasi momento, in qualsivoglia condizione, è sempre l’ora giusta per soddisfare il bisogno di scrivere. Stephen King la chiama «attrazione» dello «spazio bianco sulla carta». Quando la si percepisce, tentare di sottrarsi ad essa è una delle peggiori forme di autolesionismo.
«[…] e lasciatemi divertire!» esclama il futurista Aldo Palazzeschi al termine di una delle sue poesie, dimostrando che a lui non interessa se «[…] gli uomini non domandano più nulla dai poeti […]»: lui si diverte a scrivere, e questo gli basta.
Durante il discorso tenuto in occasione del conseguimento del Premio Nobel per la Letteratura nel 1975, Montale tratteggiò una situazione davvero poco rassicurante, per non dire pessimistica, tuttavia quanto mai veritiera: «Sotto lo sfondo così cupo della civiltà del benessere anche le arti riescono a confondersi, a smarrire la loro identità. Le comunicazioni di massa […] hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessioni.»
Purtroppo, ci troviamo in un’epoca in cui la letteratura sta lentamente ma inesorabilmente perdendo terreno: la maggioranza delle persone preferisce la muta passività della televisione alla faticosa attività immaginativa che la letteratura richiede, anche a causa dei ritmi di vita sempre più frenetici e densi che la società impone.
C’è ancora speranza, ad ogni modo. Una tenue scintilla, un fievole barlume tremolante che, se alimentato, potrebbe forse far nascere un nuovo incendio. Lo testimoniano i numeri di spettatori che ancora si accalcano nelle librerie e nelle manifestazioni letterarie per assistere alle presentazioni di opere importanti e, in alcuni casi, anche minori. Una prova del fatto che «esiste molta gente disposta a pagare», ancora oggi, «per vedere e ascoltare uno scrittore.»
Un buon libro, perciò, non è utile soltanto per passare il tempo e distrarsi dalle difficoltà che l’esistenza riserva a ciascuno di noi: esso serve soprattutto all’uomo come strumento di elevazione spirituale e rappresenta un insostituibile rifugio, tanto per lo scrittore quanto per il lettore.

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