Chiuse gli occhi e per un istante immaginò l’immensa folla che lo attendeva al di là del sipario, oltre quel palcoscenico dal quale avrebbe parlato al più grande numero di spettatori che si fosse mai radunato nella storia per sentir parlare uno scrittore. Sospirò lievemente, facendosi coraggio. In fondo non doveva fare altro che soppesare al meglio le parole da adoperare – il suo mestiere dopotutto, il suo pane quotidiano – e il resto sarebbe venuto da sé. Sapeva che per conquistarli doveva scendere dalla loro parte. Una volta fatto questo, le parole avrebbero cominciato a scorrere più libere e veloci, ne era certo.
Trasse un profondo respiro e riaprì gli occhi. Il tendone scarlatto del sipario gli ricadeva di fronte, quasi sulle spalle da quanto gli era vicino. Varcata quella linea di confine si sarebbe ritrovato in terra straniera. Ma, allo stesso tempo, sarebbe anche ritornato a casa. Due sensazioni opposte che si abbracciavano. Facendole proprie avrebbe avuto la sicurezza di poter aprire una breccia nei cuori di quelle persone che lo attendevano di fuori e, immediatamente dopo, di poterli espugnare. Perché era questo il suo intento in fin dei conti, giusto? Catturarli con le parole e indurli a spalancare gli occhi per puntarli su quelle cose che troppo a lungo avevano continuato a sopravvivere nell’ombra.
«È il tuo turno» lo avvisò con voce sovraeccitata un assistente, l’immancabile tabella con il programma della serata sottobraccio e un auricolare all’orecchio collegato con gli addetti alle luci e la regia. Ogni suo movimento sarebbe stato registrato, ogni sua parola impressa su nastro e in futuro ripetuta per chissà quante migliaia di volte. Avere piena consapevolezza di tutto ciò faceva un certo effetto. Ma sapeva che adesso non era il momento di lasciarsi andare all’agitazione. Ora era tempo di permettere alle parole che gli mulinavano nella testa di sgorgare attraverso le sue labbra. Soltanto così nulla di quello che aveva fatto fino ad allora sarebbe parso vano.