Il comandante Smith ammirava la
visione cupa e densa di orrore della città di Eglon, sdraiata languidamente
sotto un cielo rannuvolato in mezzo alla splendida e feroce campagna
dell’Arkansas. Il silenzio era tremendamente sterile. Eppure così pieno… Le luci degli edifici si riflettevano
sulle acque placide del fiume che scorreva accanto al centro abitato. La notte,
in quell’insieme, dava quasi un’impressione di tregua. Ma Smith sapeva che la
città stava soffrendo, ed era consapevole della propria terribile impotenza.
Sospirò, le mani affondate nelle
tasche e l’espressione assorta. Stava in piedi, da solo, sulla sommità di una
collinetta ai margini dell’accampamento militare. Da lì si scorgevano bene le
barricate erette attorno a Eglon e, di quando in quando, si poteva persino
intuire qualche figura al di là delle finestre illuminate più vicine.
Sapere che quello che stava succedendo
là dentro era fuori dal suo controllo lo faceva stare incredibilmente male. Non
era facile digerire tutto questo. Non per un uomo che aveva votato la vita alla
pace e alla giustizia, come lui. Eppure c’era qualcosa di marcio anche al di
fuori di quelle barriere apparentemente sottili e inconsistenti. Sì, qualcosa
che non gli piaceva. Non era sicuro di comprendere pienamente di che cosa si
trattasse, ma ad ogni modo si sentiva certo di queste sue percezioni.
Qualcosa non quadrava. Questo, ormai,
era lampante. Li stavano incastrando senza nemmeno lasciare loro il tempo di
rendersene conto. Non era passata neppure una settimana e la battaglia era già
in un certo senso perduta. Era come se giocassero d’anticipo su ogni loro
mossa, come se… come se conoscessero i
loro propositi e si affrettassero a ostacolarli prima che fossero messi in
atto.
Gli attacchi della scorsa notte
avevano danneggiato alcuni edifici e raso al suolo diverse abitazioni. Il
comandante Smith non osava nemmeno chiedersi quanti civili potessero essere
morti. La domanda che gli martellava la testa restava una sola: chi era stato
ad attaccare?
Da dove venivano quegli elicotteri,
chi li aveva mandati a bombardare Eglon e perché accidenti lo aveva fatto?
Questi interrogativi scaturivano immediatamente dal primo e seguitavano a tormentarlo,
quasi che fosse stato loro affidato il compito di torturarlo per strappargli
importanti informazioni che in realtà non possedeva affatto. E intanto
dall’alto non arrivavano ordini perché il Dipartimento della Difesa era in alto
mare e non sapeva che pesci pigliare. Il Presidente era teso, la situazione
mediatica rischiava di esplodere da un momento all’altro. L’opinione pubblica
mondiale si chiedeva come mai l’Esercito degli Stati Uniti avesse aperto il
fuoco sulla città di Eglon, condannando a morte Dio solo sapeva quante decine
di innocenti. L’assalto non era stato approvato, e questo significava che
qualcuno aveva disobbedito agli ordini. Stando così le cose, lui era l’imputato
numero uno. E se la verità non fosse venuta a galla se la sarebbero presa solo
ed esclusivamente con lui per quello che era successo la scorsa notte.
«Comandante!» lo richiamò alla realtà
uno dei suoi sottoposti. Il comandante Smith si voltò di scatto, colto di
sorpresa, e gli scoccò un’occhiata interrogativa.
«Comandante, deve venire
immediatamente!» esclamò il militare con fare concitato, tradendo una certa
agitazione.
«Che cosa c’è?» domandò, avvertendo il
battito cardiaco farsi più accelerato.
«Il vicecomandante Gray è tornato.»
LE
ANIME DI EGLON
PRIMA
STAGIONE
EPISODIO
17
IL
GIORNO DOPO
Le prime luci del giorno dopo
l’attacco si sparsero sulle strade di una Eglon scossa dalla disperazione. I
bombardamenti della notte appena superata avevano dilaniato palazzi, mutilato
vie e devastato abitazioni. Le barricate attorno alla città erano rimaste
totalmente intatte. I ribelli si stavano dando da fare per aiutare le ambulanze
a soccorrere i feriti, lanciando a folle velocità i loro furgoni blindati da un
angolo all’altro del centro abitato. La gente gridava richieste di aiuto, le
armi tacevano. Il silenzio di una nuova alba grigia pesava su tutta Eglon.
Il dottor Larry Mason si concesse un
breve istante di respiro per guardare fuori dalla finestra del suo ufficio,
accanto alla sala operatoria lorda di sangue che per tutta la notte aveva visto
morire uomini e donne innocenti feriti dalle bombe.
Un attacco inaspettato, perpetrato
nottetempo ai danni di una città che aveva già sofferto fin troppo. Correva voce
che fosse stato l’Esercito a metterlo in atto, ma ancora non si sapeva niente
di assolutamente preciso. Chi lo avesse approvato restava un mistero. Le
notizie non viaggiavano a Eglon, perché i mezzi di informazione erano oscurati.
Si andava avanti più che altro a voci e dicerie, per cui non vi era mai nulla
di sicuro.
Nessun rivoluzionario era stato
ferito, e di questo il dottor Mason fu immensamente grato alla sorte. La croce
dipinta sulla facciata dell’ospedale ammiccava al suo indirizzo ogni qualvolta
usciva o entrava dall’ingresso principale. Adoperava la porta sul retro per non
doverla vedere, e ogni volta che non poteva fare a meno di passare davanti a quella
croce si sentiva male. La minaccia dei ribelli gravava sulle sue spalle come la
lama di una ghigliottina tenuta su da un pezzetto di corda sempre più sottile e
sfilacciato.
Le vittime di quella notte ammontavano
attualmente a quattro, ma i feriti gravi erano ancora due. Tutti gli altri
pazienti si sarebbero salvati, ma era assai probabile che vi fossero altre
persone intrappolate sotto le macerie delle abitazioni distrutte.
I rivoluzionari avevano abbattuto un
Black Hawk prima che lo stormo di elicotteri oltrepassasse la città e
scomparisse oltre le nuvole dell’orizzonte scuro della notte. Uno solo, su
quella dozzina che aveva sorvolato Eglon sganciando bombe come fossero
caramelle. Il pilota si era sganciato prima che il missile lanciato dalla cima
della Eglon Tower lo colpisse; aveva aperto il paracadute in prossimità delle
barricate a est ed era atterrato sul tetto di una delle fabbriche chiuse della
periferia, dove un manipolo di Sorveglianti lo aveva attorniato, arrestato e
fatto svanire all’interno di un anonimo furgoncino blindato.
Larry Mason sapeva tutto questo perché
glielo avevano raccontato alcuni suoi pazienti che avevano visto tutto mentre
aspettavano che le ambulanze arrivassero. C’erano volute delle ore prima che
tutti i morti e i feriti immediatamente recuperabili fossero caricati nelle
ambulanze e trasportati fino all’ospedale cittadino. I dispersi erano pochi, e
pochi di loro si sarebbero salvati. Ma i sopravissuti arrivati in ospedale
avevano raccontato storie da far accapponare la pelle.
Come l’Esercito e il Governo degli
Stati Uniti d’America avessero potuto approvare un simile massacro di civili
indifesi rimaneva un vero e proprio dilemma. Tutti, quel giorno, si ponevano questo
interrogativo a Eglon. E l’opinione pubblica globale avrebbe avuto senza ombra
di dubbio molto da ridire, nelle ore a venire.
L’unico dettaglio che al dottor Mason
suonava strano era il fatto che quegli elicotteri fossero riusciti non solo ad
avvicinarsi alla città, ma addirittura a sorvolarla
rimanendo quasi del tutto illesi. Non era normale, perché i tre Black Hawk
che all’arrivo dell’Esercito avevano tentato di ispezionare la zona erano stati
abbattuti dai ribelli prima ancora di riuscire a posare l’occhio su Main
Street. Come mai questa volta erano stati capaci di superare la sorveglianza
dei rivoluzionari? Che avessero escogitato una maniera per evitare i loro
controlli? Oppure c’era qualcos’altro, sotto, che Larry Mason non riusciva a
cogliere?
«Gerald! Oddio, come sono contenta di
rivederti!» esclamò Cathy gettandosi al collo dell’uomo con la maschera che
aveva appena oltrepassato la soglia della stanza. Il ribelle rimase un attimo interdetto,
quindi rispose all’abbraccio e strinse la ragazza. «Avevo paura che fossi stato
coinvolto nelle esplosioni!» spiegò la giovane donna, facendo emergere l’ansia
che la abbrancava.
«Va tutto bene» la rassicurò l’uomo,
sciogliendosi dall’abbraccio e allontanandosi di quel poco che gli consentì di
guardarla negli occhi. «Ma non mi devi chiamare per nome. Te l’ho già detto.
Nessuno dovrebbe sapere il mio nome. Nemmeno tu, Cathy.»
«Mi dispiace…» barbugliò la ragazza,
sinceramente mortificata. «Ero così preoccupata per te che non ci ho neppure
pensato…»
«Non importa. Ma te lo dico per il tuo
bene, Cathy: non pronunciare mai più il mio nome. Perché se qualcun altro ti
sentirà, non mi potrai vedere mai più.»
Cathy annuì e si strinse nuovamente a
lui, affondando il viso sul suo petto.
«Anch’io sono felice di rivederti,
Cathy» mormorò Gerald sottovoce.
«Che cos’è successo? Perché tutte
quelle esplosioni? Qui nessuno ha voluto dirmi niente!»
«La città è stata bombardata. Una squadriglia
di elicotteri dell’Esercito ha sorvolato Eglon intorno alle undici e ha
sganciato una dozzina di cariche, colpendo palazzi, case e strade. Ci sono
state decine di feriti. Qualche vittima. Nelle ultime ore abbiamo avuto un
sacco di lavoro da fare per sgombrare le strade dalle macerie e salvare le
persone intrappolate sotto i crolli. Adesso la situazione si è pressoché
stabilizzata, così alla maggior parte di noi è stato consentito di tornare a
casa a riposare…» narrò l’uomo accomodandosi assieme a Cathy sul divanetto addossato
a una delle pareti.
«Dici che è stato l’Esercito?»
farfugliò sconcertata Cathy.
«Erano Black Hawk americani, ne sono sicuro.
Li ho visti con i miei occhi» confermò Gerald.
«E perché l’attacco è stato approvato?
Voglio dire: nessuno ha mosso un dito per tutta la settimana… Chi ha dato il
via libera ad aprire il fuoco contro i civili?»
«Ancora non lo sappiamo. Ma abbiamo catturato
uno dei piloti, dopo aver abbattuto il suo elicottero. In questo momento lo
stanno interrogando.»
«Credi che il Governo si sia stancato
di aspettare? E se avessero intenzione di radere al suolo la città?» volle
sapere Cathy, impaurita.
«Faremo qualsiasi cosa per impedire
che ci riescano» sentenziò Gerald con una certa sicurezza.
Qualcuno bussò alla porta.
«Sto arrivando!» rispose Gerald. «Sta’
qui e non ti preoccupare. Tornerò il prima possibile» sussurrò rivolto a Cathy,
alzandosi dal divano e avviandosi.
«Ti aspetto…» bisbigliò Cathy, e la
figura di Gerald sparì oltre la soglia un istante prima che la porta si
richiudesse alle sue spalle.
«Quand’è che tutto tornerà come
prima?» sussurrò Betty sconvolta.
«Non lo so, amore. Non lo so» asserì
Daniel stringendola più forte a sé.
«Ho paura…»
«Non ti preoccupare, tesoro. Andrà
tutto bene, vedrai.»
Rebecca stava seduta accanto a loro,
con lo sguardo fisso sulla parete di fronte e le dita intrecciate sulle gambe.
La sala d’aspetto era gremita di gente. Bianca e anonima come ogni sala
d’aspetto di un qualsiasi ospedale, solo che non c’erano tavolini sui quali
appoggiare le borsette né tantomeno riviste da sfogliare nell’ozio dell’attesa.
C’erano persone che piangevano e persone che stavano in silenzio a esaminare il
vuoto: niente vie di mezzo, eccetto l’inquieto senso di tensione che distingueva
gli occhi di Daniel e Betty. Ma, d’altro canto, loro due erano gli unici, lì
dentro, a non avere un parente o un amico in sala operatoria. Tutti gli altri
erano dunque giustificati nelle loro opposte prese di posizione nei confronti
delle tragedie che si stavano consumando segretamente dentro ciascuno dei loro
animi.
Un’infermiera uscì dalla porta
scorrevole che separava la sala d’attesa da quella operatoria. Aveva i guanti
color cremisi, gocciolanti. Fu circondata da uno stuolo di persone agitate che
liquidò con un’occhiata desolante, passando oltre e dileguandosi dietro
l’angolo di un corridoio.
Rebecca non si mosse. Continuò a
fissare la parete e a giocherellare con le proprie dita, apparentemente spenta.
«No che non andrà bene» balbettò Betty
con voce tremolante. «Non andrà bene per niente. Finché staremo in questa
città, saremo sempre in pericolo. Lo sai? Dobbiamo andarcene da Eglon, Daniel.
Prendere la macchina e andare via, prima che una bomba capiti in cima alla
nostra casa!»
«Non possiamo andarcene, Betty, e lo
sai benissimo» la rimproverò Daniel con fare lievemente seccato.
«Però…» esordì Betty, ma fu interrotta
dall’improvvisa apparizione di un medico all’interno della sala d’aspetto.
Anche lui aveva camice e guanti imbrattati di sangue, e i suoi occhi sembravano
immensamente stanchi. Scarichi, più
che altro. Come batterie la cui energia fosse stata succhiata fino all’ultima
goccia da un telecomando.
«La signorina Rebecca Mitchell?»
chiamò il dottore con fare spossato.
«Sì, sono io!» si alzò in piedi di
scatto la ragazza, facendo trasalire parte dei presenti. Gli occhi le
luccicavano e Daniel, guardandola, non poté che sentire dentro di sé un certo
istinto di protezione nei suoi riguardi. Per un attimo si dimenticò di Betty
che gli tamburellava sulla spalla per farlo alzare in piedi. Poi si voltò e
fece segno alla sua ragazza che era meglio lasciare Rebecca da sola.
«Venga con me, signorina. Suo cugino
si è svegliato.»
David distolse lo sguardo e lo riportò
sulla strada. Aveva gli occhi lucidi e le guance solcate dai segni di lacrime
che avevano seguitato a scorrere per intere ore.
Gabriella stava in piedi dietro di
lui, ferma e in silenzio, senza sapere con esattezza cosa fare o cosa dire. Era
semplicemente scioccata. Devastata, per quello che era successo a David. E in
cuor proprio si malediva per averlo convinto ad andare in chiesa con lei la
sera prima, ma allo stesso tempo era contenta di averlo fatto perché sapeva che
così facendo lo aveva salvato.
Neighbour Street era affollata di
gente che si spostava da una parte all’altra in cerca di qualcosa da fare. Era
come se il bombardamento della scorsa notte avesse risvegliato l’intera città
sonnolenta dal torpore nel quale era precipitata nel corso degli ultimi giorni.
Adesso quasi tutti i cittadini si trovavano fuori casa, affaccendati di qua o
di là, pronti a dare una mano a chi era stato colpito. Ma forse, più che per
aiutare, erano usciti soprattutto per soddisfare la propria curiosità. Molti
passavano e guardavano in silenzio, poi si allontanavano furtivamente senza
rivolgere la parola a nessuno. Il tutto sotto gli occhi attenti dei ribelli,
ormai ritornati ad essere statuari e impassibili come di consueto.
David si avvicinò al cumulo di macerie
carbonizzate che aveva davanti a sé, si chinò e afferrò un pugno di polvere
incenerita, lasciandola poi ricadere sul terreno quasi con noncuranza. Era
tutto quello che rimaneva della sua casa. Della sua famiglia ormai distrutta. E
le lacrime che ricominciarono a traboccare dai suoi occhi spenti non furono
abbastanza per colmare il vuoto che gli si impresse nell’anima dilaniata dalla
morte inattesa dei suoi genitori.
Una delle bombe aveva colpito casa
sua. E i corpi di mamma e papà erano stati tirati fuori dalle rovine
dell’abitazione quattro ore dopo l’attacco, ormai cadaveri. David non aveva
fortunatamente assistito alla scena. Ma quando era arrivato a casa,
accompagnato da Gabriella, aveva trovato quella distruzione terribile e quel
vuoto che ora lo assillava. E nient’altro.
Uno dei rivoluzionari era venuto a
parlargli, gli aveva chiesto se fosse lui David Goldbert e gli aveva riferito
che i suoi genitori erano stati trasportati in ospedale a bordo di un’ambulanza,
ma che ormai non c’era più niente da fare. Avevano scortato lui e Rebecca fino
in ospedale per vederli. Poi, quando David li aveva salutati, li avevano
riportati lì e se n’erano andati.
Adesso non c’era più niente da fare.
L’animo e la mente di David erano sconquassati da emozioni forti e
contrastanti. Se fosse stato con loro, sarebbe morto anche lui. Ma in questo
modo se n’erano andati senza che lui potesse salutarli, e forse, in fondo,
avrebbe preferito fare la loro stessa fine…
Si girò e vide l’espressione compunta
di Gabriella, e guardandola negli occhi si rese conto di essere felice, dentro
di sé, per non essere morto. Ora gli rimaneva soltanto lei.
«Sei David Goldbert?» mormorò una voce
dietro di lui, attutita dalle pareti di una maschera bianca e rossa che gli
pareva famigliare. Era il ribelle che aveva impedito a Gary Hullman di
ammazzare suo padre, intuì David con quella porzione del suo cervello che
ancora era in grado di ragionare in maniera coerente e sensata. E si stava
rivolgendo proprio a lui.
«Sì…» farfugliò, come interdetto.
«Puoi venire con me, David? Ti devo
parlare» disse l’uomo dal volto imperscrutabile.
«A proposito di cosa?» volle sapere il
ragazzo, cercando di non far sembrare le proprie parole venate da un tono di
sfida ma accorgendosi di non esserne del tutto capace.
«Del tuo supermercato, e del futuro della città di Eglon.»
Stan Payton guardò fuori dalla
finestra e subito si sentì costretto a distogliere lo sguardo. La casa di
fronte alla loro era stata sventrata da una delle bombe sganciate la scorsa
notte. Qualche metro di differenza e anche loro, in quello stesso momento,
avrebbero potuto essere cadaveri carbonizzati sepolti sotto lo scheletro
incenerito di una villetta distrutta.
I furgoncini blindati sparpagliati
lungo la strada avevano vomitato fuori dozzine di uomini mascherati che
correvano indaffarati da una parte all’altra. Cercavano di salvare le persone
intrappolate sotto le macerie, e questo fatto stupì enormemente Stan. Perché
adesso si impegnavano per salvare i feriti, se la notte del primo attacco
avevano essi stessi ammazzato decine di persone? Forse cercavano di comprarsi
la simpatia degli abitanti di Eglon, dimostrandosi disposti a dare loro una
mano. In questo modo si sarebbero potuti garantire la loro piena collaborazione.
Ma anche con le minacce avevano finora ottenuto lo stesso effetto… Per quale
motivo avevano scelto proprio ora di cambiare tattica?
I punti della città colpiti
dall’assalto notturno dei Black Hawk dell’Esercito erano numerosi. L’aveva
sentito dire da alcune persone fuori, quando era andato a fare un giro per Main
Street a vedere che cosa fosse capitato. La città era in fibrillazione. Molti
avevano imprecato contro l’Esercito Americano, chiedendosi chi accidenti avesse
approvato un attacco diretto contro i civili di Eglon. Era un avvenimento
inconcepibile, e la gente si faceva domande. Troppe domande.
I ribelli erano passati lungo le
strade a tranquillizzare la popolazione, in mattinata. Avevano assicurato che
si sarebbero prodigati per portare ai civili ogni genere di aiuto possibile,
mostrandosi gentili e presenti. Una mossa abile, non c’era che dire. Se
avvicinare la popolazione alla propria causa era nelle loro intenzioni,
probabilmente ci stavano a poco a poco riuscendo.
Da quando avevano iniziato a circolare
i manifesti contro la polizia non era ancora stato catturato alcun poliziotto.
Il che era strano, perché Stan sapeva che ce ne dovevano essere parecchi in
giro. La situazione stava inesorabilmente degenerando. Forse i poliziotti
sopravvissuti si stavano radunando da qualche parte. Magari cercavano di
mettere in piedi un gruppo di resistenza, una controreazione alla Rivoluzione…
Se davvero era così, allora doveva scoprirlo il prima possibile.
Sarah era in cucina a preparare da
mangiare. Robert era uscito a vedere se poteva dare una mano in qualche modo alle
persone colpite dalle bombe. Christine e Michael erano di sopra a giocare, ognuno
nella propria camera. Stan guardava fuori dalla finestra e aspettava che
succedesse qualcosa. Qualsiasi cosa.
Non si poteva andare avanti così, era
poco ma sicuro. Gli attacchi della notte passata lo stavano a testimoniare: l’Esercito
aveva deciso di intraprendere una strada pericolosa per entrambi gli schieramenti,
e finché non avesse avuto degli obbiettivi ai quali puntare avrebbe continuato
con ogni probabilità a colpire i civili, sperando di avere la fortuna di
indebolire i ribelli. La situazione doveva essere stroncata al più presto,
prima che le cose andassero ancora peggio. L’unica soluzione era comunicare con
l’Esercito e informarlo dei punti caldi da colpire. Ma come potevano riuscire a
contattare l’esterno, se tutti i mezzi di comunicazione erano stati soppressi?
«Stan… Tutto a posto?» gli chiese
Sarah facendo capolino dalla porta della cucina. Stan quasi sobbalzò per la
sorpresa. Si girò e assorbì in un solo respiro l’immagine della sua ex moglie
dall’espressione preoccupata che veniva verso di lui con le mani appoggiate ai
fianchi. Le rivolse un fievole tentativo di sorriso e annuì.
«Certo, certo. Tutto okay» rispose
tranquillamente, riprendendo fiato.
«Ti vedo pensieroso…»
«E in effetti lo sono» confermò Stan,
ritornando a guardare fuori dalla finestra mentre con la coda dell’occhio
vedeva Sarah avvicinarsi e fermarsi di fronte al vetro accanto a lui.
«Ti capisco» confidò Sarah,
sospirando. «Lo sono anch’io. Penso che i nostri figli non dovrebbero essere
esposti a tutto questo. Siamo in pericolo ogni giorno, Stan. Le nostre vite sono in pericolo, e non trovo
giusto che dei bambini come Michael e Christine debbano essere sottoposti a
simili rischi.» Si prese un istante per raccogliere le idee, squadrando Main
Street con uno sguardo che probabilmente non coglieva che qualche metro di
asfalto qua e là, concentrata com’era sui propri pensieri. «Una qualsiasi di
quelle bombe avrebbe potuto colpire questa casa e uccidere i nostri bambini.
Non è naturale che debbano vivere così. Non è naturale che noi siamo costretti a vivere così. Eglon è diventata un luogo
troppo pericoloso per le nostre esistenze. Eppure siamo intrappolati in questa
realtà, e non vedo alcuna via d’uscita…»
Stan annuì gravemente, restando in
silenzio e aspettando che Sarah riprendesse.
«Siamo precipitati in una guerra alla
quale non apparteniamo. E ci siamo stati trascinati contro la nostra stessa
volontà. Ma il fatto che il nostro Paese ci abbia voltato le spalle, attaccando
i civili per fermare la Rivoluzione… Non lo so, è sconcertante. E incomprensibile, per di più.»
«Già. Lo penso anch’io» approvò Stan
con un filo di voce, riflettendo sulle parole della sua ex moglie. Aveva
ragione, su tutta la linea. E la parte peggiore era che anche i loro bambini,
innocenti e indifesi, si trovavano nella loro stessa identica situazione senza
via d’uscita.
«Michael e Christine sono felici che
tu sia qui, Stan…» farfugliò Sarah, cambiando discorso come se finalmente se la
sentisse di dire ciò che le premeva di esprimere fin dall’inizio.
«Già, me ne sono accorto. Michael un
po’ più di Christine, ma forse è solo perché Christine è più grande e non è ancora
del tutto sicura di potersi fidare della mia presenza qui. Cerca di tenersi
indietro il più possibile, al contrario di Michael. Ma quando Michael viene da
me per qualsiasi motivo, lei c’è sempre e vuole sempre esserci» disse
semplicemente Stan. «Non so come si comportassero normalmente assieme a te e a
Robert, ma mi sembrano più sollevati del solito. Come se avermi qui li rendesse
più tranquilli…»
«Vederti seduto a tavola con loro e
con me, averti qui la mattina quando si svegliano, poterti parlare o anche solo
scorgere da una stanza all’altra… Per loro è importante. Non me ne ero mai resa
conto prima, forse perché ero troppo impegnata a rimettere insieme i pezzi
della mia vita. Non ho mai chiesto loro che cosa facessero nei weekend, quando
passavano il tempo da te. Non mi sono mai preoccupata di chiederti se
mangiassero a sufficienza, se dormissero senza fare storie o se avessero
nostalgia di casa. Probabilmente, vista da questa prospettiva, per alcuni versi
sono stata molto più assente di te nelle loro vite, ultimamente. E di questo mi
dispiace molto.»
Stan la fissò senza parlare,
incoraggiandola con lo sguardo a proseguire.
«Ma devi capire che per loro è strano
averti qui, in questa casa, di nuovo dopo tutto questo tempo. Non ci sono
abituati, ecco tutto. E anche per me è una cosa insolita. Mi sento… Non lo so
come mi sento, ecco. Però, allo stesso tempo, sono felice che tu sia qui con
noi. In un certo senso, la tua famiglia ha sempre bisogno di te…» sussurrò,
volgendo lo sguardo su di lui finché i loro occhi non si incrociarono.
«Sai, dopo il divorzio è stata dura
rimettere in ordine la nostra famiglia. Tu te ne sei andato a Little Rock,
troppo lontano per potermi aiutare ogni giorno, e Michael e Christine si sono
chiusi in un loro spazio speciale, dandosi manforte in ogni situazione e
organizzandosi in una specie di coalizione della quale non potevo far parte.
Erano soltanto loro, e io li vedevo crescere assieme, loro due soli, separati
da me. Non è stato facile riprendermi, Stan. Ci sono voluti dei mesi…»
«L’ho passata anch’io. Non sei l’unica
ad aver vissuto questo dramma, Sarah» le ricordò Stan con una certa dolcezza.
La donna gli sorrise debolmente, ritornando a guardare fuori.
«Ne sono consapevole. Nel contempo,
però, credo anche che non avremmo potuto continuare a vivere come stavamo
vivendo prima della separazione. Dividerci è stato inevitabile. Doloroso, lo
so. Non soltanto per noi due, ma anche per Michael e Christine. Ma inevitabile»
considerò Sarah, quasi parlando tra sé e sé.
«Ed ora, eccoci qua…» farfugliò Stan.
«A parlarne dopo averla superata entrambi, ognuno a modo suo. Siamo stati
forti, vero?»
«Sì. Lo siamo stati» annuì Sarah con
un mezzo sorriso. I suoi occhi erano diventati scintillanti, come se una stella
spenta da un miliardo di anni si fosse di colpo riaccesa nelle tenebre infinite
dello spazio siderale.
La porta si spalancò e si richiuse
dietro la silhouette piegata in due di Robert, il cui respiro affannato fece da
preludio a tutto ciò che sarebbe accaduto in seguito.
«Robert!» lo salutò Stan, andandogli
incontro con fare incerto. «Tutto okay?»
«No… assolutamente… no!» esclamò
Robert, infilando tra una parola e l’altra pause enormi per riprendere fiato.
«I rivoluzionari… stanno… passando… di casa in casa… Hanno iniziato… i controlli…
per le armi!»
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