Quella notte, particolarmente densa e
scura, non era uguale a tutte le altre. Le nuvole che nascondevano la città di
Eglon dagli sguardi indiscreti e a tratti maliziosi della luna erano fitte come
una vallata di neve al buio. Ci si sarebbe potuto sciare piuttosto
piacevolmente, se soltanto il cielo e la terra si fossero capovolti,
scambiandosi di posto. Ma le nubi rimanevano sempre lassù, spostandosi
pigramente da una parte all’altra come una mandria intenta a brucare, mentre
quaggiù restavano immobili gli edifici e i palazzi, le strade e le vie, le auto
spente e i lampioni accesi.
Ciò che rendeva diversa quella
specifica notte rispetto a tutte le altre era il profondo silenzio che
ammantava la città, intimo e intenso come un segreto sussurrato in un orecchio.
Nelle zone prossime alle rive del fiume Arkansas, l’unico rumore che infrangeva
quella barriera di silenzio era il lento mormorio dell’acqua che scorreva senza
fretta, trascinando con sé minuti, foglie secche, vite e ricordi.
Per impedire che qualcuno si potesse
arrampicare lungo le sponde del fiume, risalendo con un’imbarcazione il corso
d’acqua e penetrando in città, erano state innalzate numerose torrette di
controllo e la riva era stata bloccata da un reticolato di filo spinato alto
almeno due metri. Ciononostante, lo sciacquio lento del fiume passava lo
stesso, camminando adagio sulle strade dei quartieri circostanti e procedendo
tranquillo oltre le soglie delle abitazioni più vicine.
Ma uno dei vicoli era dominato da un
rumore isolato, che da solo spezzava il ritmo uniforme e impalpabile dello
sciabordio del fiume Arkansas.
Era un rapido scalpiccio, un
tamburellare di passi che si rincorrevano veloci sull’asfalto freddo. E il
respiro corto di due persone, rimaste quasi senza fiato.
Una ragazza di una ventina d’anni
sbucò fuori dall’angolo formato da due case vicine, affaticata e con il viso
arrossato. Indossava jeans stretti e un maglioncino leggero e correva rapida
lungo il marciapiede che costeggiava il vicolo, gettandosi un’occhiata ansiosa
alle spalle di quando in quando.
Dietro di lei apparve uno dei
rivoluzionari, con una maschera completamente nera sul viso che lasciava
trapelare soltanto gli occhi e la bocca attraverso sottili fori bordati da
cuciture grigie. Inseguiva la ragazza che cercava di sfuggirgli, guardandole il
sedere e la coda di capelli castani che si muovevano a destra e a sinistra
seguendo lo stesso ritmo.
Era un vicolo cieco, e quando la
ragazza realizzò di non poter proseguire oltre il suo viso si drappeggiò di
un’espressione d’orrore. Era in trappola. Rallentò e le salirono le lacrime
agli occhi. Il ribelle le fu dietro in meno di un secondo, la afferrò con
entrambe le mani e le si premette contro, immobilizzandola.
«No, ti prego!» strillò la giovane
tentando di divincolarsi, singhiozzando e piangendo. L’uomo la spinse in malo
modo contro una porta a lato della strada e le infilò fulmineamente una mano
sotto il maglioncino, prendendole un seno e stringendolo con forza, senza
curarsi del male che le fece. Lei ansimò sconsolata, il petto scosso dai
singulti e il volto inondato di lacrime.
Il rivoluzionario le premette la
maschera sul collo e riuscì a sfiorarle la pelle con la lingua, mentre con la
mano rimasta libera armeggiava con il bottone dei jeans della ragazza. Riuscì
ad averla vinta e le tirò giù i jeans e le mutandine con un unico strattone,
obbligandola a piegarsi in avanti e accarezzandole le natiche lisce e sode,
tremanti.
Si abbassò i pantaloni
frettolosamente, allargando le gambe alla ragazza con una mano mentre con l’altra
continuava a schiacciarle brutalmente un seno, e di colpo la giovane sentì
allentarsi la pressione esercitata dalle mani dell’aggressore e percepì il
corpo dell’uomo crollare a terra alle sue spalle, finendo disteso sull’asfalto
con la testa sfondata su di una pozzanghera di sangue in espansione.
Si voltò e tutto ciò che vide fu una
maschera blu con una ragnatela rossa sulla sinistra e una croce avvolta dalle
fiamme sulla destra, sovrastata da un elmetto da soldato color verde militare.
Poi mise a fuoco, e si rese conto che
quell’uomo impugnava una pistola munita di silenziatore con la quale aveva
appena sparato in testa al ribelle che aveva cercato di stuprarla.
LE
ANIME DI EGLON
PRIMA
STAGIONE
EPISODIO
18
IL
PRIGIONIERO
Bruce Rodgers, la notte del bombardamento
perpetrato ai danni della città di Eglon dall’Esercito degli Stati Uniti
d’America, si trovava sul balcone di casa a fumare, nei pressi della zona industriale.
La stecca di sigarette Camel senza
filtro che conservava nella cassaforte del salotto era una delle ultime rimaste
a Eglon, l’unica della sua scorta sopravvissuta fino a quella sera. I tabaccai
avevano esaurito tutte le riserve, e i distributori erano stati pazientemente
svuotati. Adesso, il solo modo per procurarsi una sigaretta a Eglon era
chiedere ai fumatori se ne avessero ancora qualcuna. E lui aveva deciso che non
ne avrebbe data via nemmeno una, e che quelle che gli rimanevano se le sarebbe
godute con parsimonia, finché non fosse rimasto a secco.
Chissà, magari grazie a quell’esperienza
avrebbe persino smesso di fumare, quando avesse consumato tutta la stecca
chiusa nella sua cassaforte.
Aveva molte preoccupazioni per la
testa, e la Camel ammiccante che
pendeva dalle sue labbra in quel momento gli era davvero servita a riordinare
un pochino tutto quel caos. Non aveva potuto farne a meno. Si era detto che
avrebbe aspettato qualche giorno prima di aprire la stecca, e invece…
Be’,
in mia difesa posso dire che debole è il corpo, ma forte è la volontà…
Che gran cazzata. Se ne rese conto
appena formulò questo pensiero. In fin dei conti, non era affatto così. Proprio
perché la sua volontà era troppo debole aveva ceduto. Il corpo, al contrario,
era più forte, poteva sopportare l’assenza di cibo per giorni senza crollare.
Bella stronzata i modi di dire, si redarguì Bruce Rodgers fumando via residui
di tabacco e nicotina dalle labbra secche.
Il suo distributore di benzina era
stato l’ultimo della città a sventolare bandiera bianca, ed era per questo
motivo che quella sigaretta gli era risultata assolutamente indispensabile.
Quella sera aveva dovuto chiudere i battenti e appendere un cartello con su
scritto FUORI SERVIZIO – CARBURANTE ESAURITO.
Aveva scarabocchiato quelle quattro parole con un indelebile nero e aveva appiccicato
il foglio di carta di fianco alle pompe della benzina, con un sospiro.
Anche gli altri distributori della
città avevano chiuso, tutti quanti. I primi avevano ceduto la sera precedente.
L’ultimo aveva mollato la presa quella mattina, lasciandolo solo. E quando si
era ritrovato a dover fare i conti con tutti i clienti di Eglon in un solo
pomeriggio, aveva aumentato un po’ i prezzi finché alla fine non si era
ritrovato con le riserve prosciugate.
Per tutta la settimana c’era stata
un’interminabile processione di gente, non solo in auto, ma persino a piedi con
enormi taniche da riempire. Avevano fatto scorta, quelli più lungimiranti. Nel
giro di un paio di giorni si erano portati a casa un centinaio di litri a furia
di taniche da cinque. Poi c’erano gli stronzi come Chuck Werdenbruck, che erano
venuti al distributore i primissimi giorni con le cisterne del latte e le
avevano riempite di carburante, portando il carico a casa per rivenderlo a un
prezzo gonfiato non appena le scorte dei distributori ufficiali si fossero
consumate. Bella trovata, bisognava ammetterlo. Ma da veri pezzi di merda,
giudicò severamente Bruce.
Schiacciò il mozzicone di Camel sul bordo del corrimano prima che
gli si bruciassero i polpastrelli e ammirò l’orizzonte cupo. Prima di scrivere quel
cartello, quello stramaledetto FUORI SERVIZIO –
CARBURANTE ESAURITO, Bruce aveva pensato che avrebbe potuto riacquistare
la benzina a Chuck Werdenbruck e agli altri pezzi di merda suoi simili, ma poi
ci aveva riflettuto su e aveva deciso che il suo orgoglio gli impediva di
farlo. Non si sarebbe abbassato ad andare a chiedere la carità a quei rifiuti
della società, a mercanteggiare con quelle teste di cazzo sul prezzo di
duecento litri di benzina per poi doverli rivendere al distributore a quattro
dollari per litro pur di ricavarci qualcosa. Era meglio chiudere la baracca e
lasciare che i burattini prendessero un po’ di polvere.
Tanto, ormai, stava andando tutto
quanto in malora.
Per un momento aveva anche subito il
fascino della tentazione di svuotare il serbatoio del proprio furgoncino dentro
una delle pompe del distributore, ma pochi istanti prima di sfilare il tappo al
serbatoio si era bloccato e si era rimangiato i propri propositi. Era meglio
tenere un po’ di benzina da parte per spostarsi. Non si poteva mai sapere, in
fondo, che cosa sarebbe capitato. E se ci fosse stato da fuggire in fretta
dalle strade di Eglon, beh, era preferibile tenersi pronti.
Che schifo di casino. Ora, tutta la
gente che avrebbe avuto bisogno di fare rifornimento sarebbe andata a riempire
le tasche a quel porco di Chuck Werdenbruck, gonfiandogli il portafoglio di verdoni
invece di gonfiargli il muso di botte, come si sarebbe di gran lunga meritato.
Ma lui non poteva farci niente.
Scorse dei puntini luminosi in
lontananza che sembravano muoversi. Concentrò l’attenzione su quei pallini
luccicanti. Sembravano delle stelle cadenti… Li ignorò e tornò a guardare i
profili silenziosi delle fabbriche, tratteggiando nel buio sagome indistinte di
complessi industriali dai tetti piatti e squadrati. Più avanti, lo sapeva,
c’era lo spiazzo dal quale pochi giorni prima era stato cancellato il terminal
aeroportuale di Eglon, e più in là ancora si trovavano le rive del fiume
Arkansas, sorvegliate a dovere da torrette e rotoli arrugginiti di filo
spinato. Un bell’affare davvero, valutò Bruce Rodgers pensando che forse, in
fin dei conti, un’altra sigaretta non lo avrebbe mica mandato sul lastrico, né
gli avrebbe ostruito i polmoni in maniera irreparabile.
Una fila di furgoncini blindati
sfrecciò sulla strada sotto il balcone di casa sua. Ne contò una mezza dozzina,
diretti senza ombra di dubbio verso le fabbriche, quando una serie terrificante
di potenti esplosioni afferrò di soppiatto il silenzio, giungendogli alle
spalle con passo felpato, gli prese la testa tra le mani e gli ruppe senza
esitazione l’osso del collo, lasciando che si accasciasse inerme sul vecchio
asfalto di Eglon.
Bruce Rodgers sobbalzò e fece cadere a
terra l’accendino e il pacchetto di sigarette che teneva in mano, girandosi di
scatto verso la fonte di quei botti assordanti.
Un Black Hawk sorvolò la sua
abitazione, propagando nell’aria un rumore infernale. Il suo ronzio passò oltre
e sfumò, mentre altre esplosioni si susseguivano attorno al quartiere.
L’elicottero che aveva appena superato il terrazzo di Bruce venne colpito da un
missile improvviso sulla fiancata, e lo scoppio gli fece perdere quota.
La notte si illuminò di fuoco, mentre
i velivoli militari proseguivano oltre senza fermarsi, e dall’unico Black Hawk
colpito Bruce vide precipitare un uomo, un uomo che volò in direzione delle
fabbriche con le braccia spalancate e, un attimo prima di schiantarsi, aprì il
paracadute e si librò leggero al di sopra dei tetti della zona industriale,
atterrando tranquillamente su uno degli edifici.
Bruce puntò lo sguardo in quella
direzione, scordandosi delle esplosioni, delle urla e delle fiamme che si
innalzavano dalla parte opposta, verso Main Street. Si concentrò sul tetto di
quella fabbrica non molto lontana su cui il paracadute si arenò, e distinse chiaramente
la figura del pilota rialzarsi in piedi e muovere qualche passo.
Non sapeva dove fosse precipitato il
Black Hawk colpito, né si preoccupò di scoprirlo. Osservava rapito quell’uomo
che se ne stava fermo in cima alla fabbrica, immobile, come se stesse
aspettando qualcosa. Ma cosa? Bruce non riusciva a capire. Perché non scappava,
quel tipo? Che cosa stava lì a fare? Lo avrebbero catturato e lo avrebbero
ammazzato di sicuro.
Una botola sul tetto della fabbrica si
spalancò, vomitando fuori una mezza dozzina di tizi vestiti di nero con le
maschere indistinguibili nelle tenebre notturne. I nuovi arrivati circondarono
il pilota, che nel frattempo si era sganciato dal paracadute, e lo
immobilizzarono. Uno gli infilò un cappuccio sulla testa, una specie di sacco
nero, e le braccia gli furono rapidamente legate dietro la schiena. Li vide
scomparire tutti quanti giù nella botola, velocemente, e dopo pochi minuti i
furgoncini blindati che erano passati sotto il suo terrazzo poco fa
riattraversarono la strada nel senso contrario, sgommando alla prima curva e
dileguandosi nelle strazianti grida della città bombardata.
Qualcuno rimosse il tappo che bloccava
lo scarico della grande vasca da bagno nella quale si trovava immersa Melanie
Winget, e tutto lo yogurt nero fu risucchiato con un sommesso gorgoglio e
defluì lontano, lasciando il corpo della donna esposto all’aria e alle
intemperie.
Melanie aprì gli occhi piano, senza
sforzarli troppo, e la luce la accecò. Per un attimo pensò che forse era meglio
stare in quell’immensa bolla di yogurt nero: l’oscurità e il tepore che
regnavano nello yogurt erano perfetti per lasciare che la mente vagasse
indisturbata nel sonno. Ma, tutto sommato, non poteva certo dormire in eterno,
giusto?
Aprì gli occhi del tutto e focalizzò
l’attenzione sul soffitto bianco che la sovrastava. Le bastò un istante di
disorientamento per rendersi conto che non era precipitata in un vasetto di
yogurt bianco, e quasi immediatamente realizzò di trovarsi in una stanza ampia
e luminosa, arieggiata di recente, che profumava vagamente di… di cosa?
(yogurt)
No, non yogurt! Doveva togliersi dalla
testa quello yogurt, iniziava veramente a darle sui nervi. No, la stanza
profumava di ammorbidente. Ma forse erano le coperte e il cuscino a profumare
da ammorbidente, e la stanza sapeva più che altro da rose. Da rose, sì, sapeva
da rose!
Girò la testa e lo sguardo le cadde sopra
il ripiano del comodino accanto al letto. C’era un altissimo vaso di vetro, sul
comodino, riempito d’acqua per metà. All’interno del recipiente dei lunghi
gambi verdi parevano galleggiare nel vuoto, sebbene in realtà fossero fermi.
Risalì quei gambi verdi con gli occhi, sfiorando spine e foglie fino ad
arrivare ai petali, chiusi in un abbraccio che componeva i boccioli di tre
splendide rose rosse.
Sorrise involontariamente, lasciandosi
scivolare nel sogno. Chi le aveva portato quelle rose? Chi era stato tanto
premuroso da farle trovare quei tre fiori meravigliosi sul comodino, appena
risvegliata sul letto d’ospedale? Suo fratello? Nick, il suo ex fidanzato?
Stuart, il barman muscoloso che le faceva la corte quando andava a bersi il suo
goccetto con le amiche appena staccavano dall’ufficio prima di cena?
Un attimo. Frena. Retromarcia. Ospedale?
No, non era in ospedale. Ma aveva avuto un incidente, giusto? Sì, un terribile
incidente. E Jackie Chan c’entrava qualcosa… Eh già, c’entrava eccome, perché
se non avesse tenuto acceso quel dannatissimo palmare l’incidente non ci
sarebbe stato, il pilota non avrebbe avuto difficoltà ad atterrare
all’aeroporto di Eglon e niente si sarebbe schiantato contro l’ala sinistra
dell’aereo, facendoli precipitare… O si sbagliava?
No, aveva voglia di yogurt, e questo
significava che non riusciva ancora a formulare una linea di pensiero che
potesse definirsi coerente. Ma forse
era per via di quello yogurt nero defluito dallo scarico della vasca da bagno,
lei si era svegliata su quel letto con le rose sul comodino e…
No, fermi tutti. Stava deragliando
ancora.
Deragliando?
Ma che cosa c’entrava il treno, adesso? Non era in treno e non era in auto, si
trovava su un aereo in volo verso Eglon e stava pensando a quello stupido di
Jackie Chan che li avrebbe fatti quasi sicuramente precipitare prima di
raggiungere la pista d’atterraggio.
Riordiniamo
i pensieri. Non stava deragliando. Stava fuorviando, era questa la parola giusta. Okay, fin qui tutto bene.
E dopo?
Dopo era tutto un miscuglio di
robaccia densa e disgustosa, che odorava di fritto e di muffa. Però doveva liberarsene,
altrimenti non ne sarebbe più uscita. E uscirne era la cosa più importante da fare,
ora come ora.
D’accordo,
ricapitoliamo. Bene, così andava un po’ meglio. Già si sentiva tranquilla. L’aereo, il palmare di Jackie Chan, l’ala
che esplodeva, la caduta perpendicolare, il terminal di Eglon… Si erano
schiantati contro l’aeroporto! Quindi, se non l’avevano trasferita da qualche
altra parte, in quel momento doveva trovarsi a Eglon, giusto? Sì, filava. Aveva
un senso. E allora quelle rose chi gliele poteva aver portate? O erano il dono
di qualche simpatica infermiera, oppure dovevano essere state spedite da suo
fratello. Suo fratello non sarebbe mai venuto di persona fino a Eglon, non si sarebbe
mai preso la briga di perdersi una giornata di lavoro per far visita alla
sorellina in ospedale. Oh no, non era da Jim. E nemmeno da Nick, se era per
questo. Nemmeno Nick si sarebbe preso una giornata libera per venire a vedere
se stava bene. In fondo, il loro rapporto si era chiuso da ormai quattro mesi,
in maniera alquanto spiacevole per entrambi, e le acque non parevano essersi
ancora del tutto acquietate. Non dopo quello che era successo. D’altronde…
Ma no, stava fuorviando di nuovo. Deragliando. Le piaceva questa parola. Deragliare. Non era un esatto sinonimo,
ma perlomeno rendeva l’idea. Non era così incoerente quanto poteva sembrare.
Scostò di lato le coperte che le
avvolgevano il corpo. Indossava una specie di camicia da notte a fiori,
registrò con la coda dell’occhio. Un abbigliamento che non si poteva definire
propriamente ospedaliero. E, in
effetti, la stanza nella quale si trovava era una comune camera da letto di una
villetta qualunque.
Tentò di muoversi, ma le sue gambe non
risposero ai comandi. Le facevano un male d’inferno, ma per adesso preferiva non
stilare un bilancio affrettato delle proprie condizioni. Sicuramente, dopo
l’incidente che aveva avuto, non doveva sprizzare salute da tutti i pori.
Sogguardò la portafinestra che trovava
posto sulla parete alla sua destra, notò le tende bianche e andò oltre, per
quanto la sua posizione le consentisse di proseguire. Al di là del vetro c’era
un giardino triste sdraiato sotto un cielo grigio che prometteva pioggia, ma
che allo stesso tempo dava l’impressione di non voler mantenere l’impegno. Più
avanti, un tratto d’asfalto e la facciata di un’altra villetta separata dalla
strada da una strisciolina d’erba giallognola.
Squadrò rapidamente la stanzetta
quadrata nella quale aveva appena riaperto gli occhi dopo un’imprecisabile
dormita durata probabilmente mezza eternità. Niente calendari, niente orologi.
Niente mobili o soprammobili, eccetto il comodino con il vaso di vetro e le tre
rose rosse. Era un ambiente spoglio, ampio e aerato, senza troppe pretese.
Semplice.
La porta, incassata nella parete di
sinistra, si aprì cigolando debolmente e un uomo con una maschera sul viso fece
capolino nella stanza. Dapprincipio, Melanie pensò di stare ancora sognando.
Poi si chiese se fosse uno scherzo. Infine, quando l’uomo iniziò a parlare, si
domandò se fosse impazzita di colpo.
«Buongiorno, signorina Winget. Come si
sente questa mattina?» le domandò affabilmente l’uomo mascherato. Indossava un
camice bianco da dottore, ma quegli occhi nascosti dietro la plastica le
facevano venire i brividi. Non si sarebbe mai affidata spontaneamente alle cure
di un medico con simili occhi. Ma, in fin dei conti, se era stato lui a
salvarla voleva dire che era bravo.
Annuì perplessa, limitando i movimenti
del capo a causa del dolore che avvertiva in sottofondo a ogni altra
percezione, e rimase a bocca aperta a fissare quella maschera da teschio con
profonde occhiaie nere. Pareva una maschera da Halloween, di quelle che si
mettevano i bambini per uscire in gruppo a fare dolcetto o scherzetto.
«Bene, sono felice di sentirlo. Le sue
condizioni sono state a dir poco pessime, nelle ultime quarantotto ore. Non che
prima fosse ridotta granché meglio, certo, ma da quando è entrata in coma non
era mai stata così… spenta, ecco,
come negli ultimi due giorni. Il fatto che si sia svegliata mi rincuora molto.
Si vede che abbiamo fatto entrambi bene il nostro lavoro. Io e lei, s’intende»
spiegò il dottore mascherato. Probabilmente stava sorridendo, valutò Melanie,
ma lei non lo poteva vedere. Aveva una voce lievemente arrochita, doveva essere
un fumatore e quasi sicuramente aveva passato la soglia dei cinquanta. Anche se
non ci avrebbe scommesso senza prendere le dovute precauzioni.
«Dunque, sono sicuro che sarà piena di
domande, signorina Winget. Mi hanno messo a sua completa disposizione anche per
questo. Da dove vuole cominciare?»
Melanie si bloccò, come interdetta.
Domande? Sì, era vero, ne aveva una marea in testa. Ma prima doveva essere del
tutto certa che quell’uomo non avesse un numero limitato di risposte. Se gli
avesse fatto quattro domande, avrebbe ribattuto spiegandole che le sue tre
risposte erano già state bruciate e sarebbe scomparso in una nuvola blu
all’interno di una lampada ammaccata?
«Dove mi trovo?» volle sapere come
prima cosa Melanie, e di nuovo le parve che il volto occultato dietro la
maschera le sorridesse.
«A Eglon, signorina Winget» rispose in
tono pacato.
«All’ospedale?»
«No, non siamo nell’ospedale della
città. Ci troviamo in una struttura poco distante, però. Un luogo più sicuro.»
«Sicuro?»
«Sì, esatto. Proprio così. Vede, ci sono
stati un po’ di disordini in città, di questi tempi. È iniziata una grossa
Rivoluzione, e le parti coinvolte sono molte. Preferiamo saperla in un luogo
protetto, almeno finché non si rimetterà in sesto.»
«Ma… una rivoluzione? Di che cosa si tratta, esattamente?»
«Preferisco parlargliene con più
calma, quando si sentirà davvero meglio. Sempre che per lei non sia un problema»
replicò con fare vago il dottore, stringendosi nelle spalle.
«No» approvò Melanie titubante.
Avrebbe voluto capire adesso di che
cosa si trattasse, ma non voleva mettere fretta al suo interlocutore. Se voleva
saperne di più, era meglio pazientare, rifletté, e così passò a un’altra
domanda: «All’aereo nel quale mi trovavo… Cos’è successo esattamente? Ci siamo
salvati in molti?»
«Vede, signorina Winget, l’aereo nel
quale si trovava prima dell’incidente è stato colpito da un oggetto non
identificato, probabilmente un missile. E lei, per quanto ne so, sembra essere
l’unica sopravvissuta.»
A queste parole, Melanie trasalì. I
suoi occhi sprofondarono in una sottile pellicola di lacrime.
Gerald McGale, nascosto dietro la sua
maschera da ribelle, osservava irrequieto la stanza scura nella quale si
trovavano, picchiettando con le dita sul ripiano del tavolo.
«Non vuoi proprio capire, eh?» domandò
in tono inflessibile il rivoluzionario che gli stava accanto, con la maschera
blu e l’elmetto da soldato in testa.
L’uomo che stava seduto davanti a
loro, ammanettato a una seggiola di metallo imbullonata al pavimento,
sogghignò. Aveva il labbro spaccato e una cicatrice sanguigna sulla guancia, la
fronte sudata e i capelli castani arruffati. Stava visibilmente male, ma
cercava di mostrarsi forte e resistente. Dopo le torture che aveva subito,
considerò Gerald, se aveva ancora voglia di fare l’eroe doveva essere davvero
un osso duro. D’altro canto, era un pilota dell’Esercito degli Stati Uniti.
«Che cosa dovrei capire?» ribatté
tranquillamente il militare, lasciandosi scappare una smorfia che represse
immediatamente dietro l’espressione strafottente.
«Ti abbiamo imprigionato, pestato,
torturato, e ancora non ci vuoi dire chi ha ordinato l’attacco. Voglio il nome
del mandante, okay? Voglio nome e cognome del bastardo che ha confezionato per
Eglon quelle belle caramelle alla menta che tu e i tuoi amici avete sganciato
sulla città la scorsa notte. E lo voglio adesso»
scandì Maschera Blu senza perdere il controllo.
«D’accordo. Vuoi nome e cognome?
Natale. Signor Babbo Natale. Sei
contento di sapere chi ti ha mandato le caramelle, ragazzino?» ridacchiò il soldato
sputando per terra un grumo di sangue.
Maschera Blu si alzò dalla sedia senza
scomporsi. Gerald lo guardò avvicinarsi al prigioniero, sollevare il braccio e
sferrargli un ceffone in pieno viso. La seggiola imbullonata al pavimento cigolò,
e il soldato piegò il collo dall’altra parte per assorbire parte del colpo. Il
taglio che aveva sulla guancia si riaprì e il sangue ricominciò a colare.
«Sono stanco di perdere tempo con te»
sibilò Maschera Blu, ergendosi minaccioso sul prigioniero. «Stanotte ho ammazzato
uno dei miei uomini, a sangue freddo, lasciandogli soltanto il tempo di
rendersi conto di chi gli stava puntando in faccia la pistola. L’ho ucciso
perché stava per violentare una ragazza. Una ragazza di Eglon, mi segui? Qui
non intendo tollerare chi fa del male a civili innocenti e collaborativi.
Togliamo di mezzo solo chi si oppone alla nostra linea d’azione, tutti gli altri
sono elementi preziosi. E voi avete fatto una strage la scorsa notte,
sganciando bombe da quei maledettissimi Black Hawk. Ora voglio sapere chi ha
autorizzato l’attacco, di modo da punire severamente l’autore della
carneficina. E se tu non collaborerai, ti prometto che non farai la stessa fine
indolore del ribelle che ho freddato un paio d’ore fa: ti farò soffrire, figlio
d’un cane, e ti torturerò finché non ci sarà più sangue nelle tue vene e non
rimarrà più pelle da scuoiare. E registrerò le tue urla di dolore e te le farò
ascoltare ogni giorno e ogni notte, ventiquattro ore su ventiquattro, e non
dormirai, non mangerai abbastanza, e ti farò bere acqua e veleno per farti
vomitare anche l’anima. Voglio quel nome, intesi?»
Il prigioniero inghiottì a vuoto,
svelando per la prima volta la propria inquietudine. Sogguardò Gerald con fare
supplice, ma la sua richiesta d’aiuto rimbalzò sul ribelle come un pallone
contro il muro. «Se parlo, che ne sarà di me?»
«Non ti prometto che non morirai,
pezzente. Ma se toccherà a me decidere come farti morire, posso assicurarti che
sarà una cosa veloce, a patto che quel nome salti fuori» mormorò Maschera Blu.
Il prigioniero annuì soddisfatto,
fissò il soffitto con un’occhiata tremendamente spaventata e farfugliò,
sconnessamente: «F-fanculo…»
Poi morì.
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