Venerdì 9 settembre
Qualcuno bussò alla porta.
Era tardo pomeriggio, e il lavoro da
fare era sempre troppo. Amministrare una città non era semplice, ma
amministrare una città in Arkansas, con almeno quaranta fattorie intorno che
rientravano nella giurisdizione territoriale, era ancora più difficile.
Eglon contava per l’esattezza quarantaquattro
fattorie, nei dintorni, che dal punto di vista burocratico facevano capo al
Comune della città. E non c’è bisogno di dire che spesso davano parecchi grattacapi
al sindaco John Donaldston, perché i contadini venivano da lui per ogni
nonnulla, quando c’erano da richiedere permessi, quando erano in corso diatribe
sulla proprietà di una pianta, quando un animale si infilava per l’ennesima
volta nei campi del vicino e quest’ultimo non voleva più restituirlo. La gente
non si sapeva arrangiare da sola. Specialmente la gente di campagna, a detta
del sindaco Donaldston. E per lui si trattava soltanto di un altro carico di
problemi extra da risolvere.
«Avanti» accolse John Donaldston da
dietro la scrivania del suo ufficio, e la porta si aprì per permettere alla snella
e graziosa figura di Nancy Vaugher di entrare.
«Sindaco Donaldston, mi spiace
disturbarla quando so che ha molto lavoro da fare, ma ho bisogno che dia
un’occhiata ad alcuni documenti…» esordì l’addetta all’anagrafe con fare
titubante. Sembrava un po’ scossa, giudicò John. Probabilmente era solo stanca.
«Di che si tratta?»
«Alcune persone arrivate in città la
settimana scorsa. Ho qui le loro carte d’identità e mi sono fatta lasciare
anche i passaporti, per precauzione. Mi ha detto lei di controllare
accuratamente la gente che si trasferisce nella nostra città, e di accertarmi
che sia innocua» spiegò la donna, e John Donaldston annuì.
Sì, ricordava il discorsetto che le
aveva fatto un paio di mesi prima. Ultimamente le cose non andavano troppo
bene. C’erano stati dei tizi che lo scorso inverno avevano ottenuto la residenza
a Eglon e si erano messi a spacciare cocaina nel bel mezzo del parco pubblico.
Prenderli non era stato facile, e cacciarli dalla città si era rivelato un
compito fin troppo dispendioso per i suoi gusti. Meglio prevenire che curare, diceva sempre suo nonno. L’aveva
trasformato da banale motto in serio stile di vita.
«D’accordo. Qual è il problema?»
s’informò il sindaco, sbuffando lievemente.
«Ci sono dei dati che non
corrispondono» sussurrò Nancy posandogli sulla scrivania un pacchetto di fogli
stampati tenuti insieme con due graffette di plastica gialla. «Niente di cui
preoccuparsi, molto probabilmente,» si affrettò a soggiungere, «ma la prudenza
non è mai troppa.»
«Grazie, Nancy. Darò un’occhiata a
queste carte domattina come prima cosa quando rientrerò in ufficio» promise il
sindaco Donaldston, e l’addetta all’anagrafe oltrepassò la porta e sparì.
Nancy Vaugher era tutta un fremito. Si
guardò attorno con circospezione ed entrò nel proprio angusto ufficio,
chiudendosi la porta alle spalle con mano tremante e lasciandosi sfuggire un
singhiozzo e l’accenno di una lacrima oltre le lenti degli occhiali.
«Brava, Nancy, ben fatto» approvò
l’uomo che se ne stava tranquillamente seduto dietro la scrivania del suo
piccolo ufficio, con lo schienale inclinato, le gambe accavallate sul ripiano
del tavolo e una pistola provvista di silenziatore puntata in direzione
dell’addetta all’anagrafe.
LE
ANIME DI EGLON
PRIMA
STAGIONE
EPISODIO
8
LA
CITTÀ BARRICATA
«Avanti, portate qui quel pannello e
posizionatelo su questo solco, è importante che combaci perfettamente con
quello accanto e che le due scanalature si incastrino!» vociò uno degli addetti
ai lavori disposti lungo il perimetro della città di Eglon. Stavano costruendo
barricate su tutti i lati scoperti, appoggiandole e incuneandole l’una nell’altra
fino agli angoli degli edifici più a margine, le cui facciate di cemento armato
venivano sfruttate quali barriere preesistenti.
A poco a poco si stava tracciando un
confine che escludeva le fattorie e i campi e racchiudeva soltanto il nucleo
cittadino di Eglon.
Oltre quarantamila persone chiuse in
un cerchio fatto di pannelli di legno e pareti di edifici. La cosa funzionava,
e si stava svolgendo parecchio in fretta. Per le dieci sarebbe stato tutto
pronto, subito dopo il completamento della consegna delle armi e pochi istanti
prima che il governo mettesse in piedi una spedizione punitiva, una volta
capito da dove provenisse esattamente quel treno in fiamme che verso le sette e
trenta doveva aver sicuramente raggiunto la stazione di Pine Bluff.
I ribelli erano in fermento. Il loro
progetto aveva avuto un ottimo avvio, ma adesso veniva la parte più difficile:
non sarebbe stato semplice mantenere oscurate le comunicazioni e isolata la
città, specie dopo l’arrivo degli interventi esterni. Potevano contare sulla
presenza dei cittadini innocenti di Eglon per essere sicuri che l’esercito non
sferrasse attacchi pesanti, ma in ogni caso dovevano fare attenzione a non
essere schiacciati da entrambi i lati. I cittadini di Eglon dovevano essere
tenuti a bada ad ogni costo, e all’oscuro di ciò che nel frattempo avveniva
fuori.
Presto sarebbe incominciata la guerra.
E nessuno avrebbe potuto rifiutarsi di prendervi parte.
Robert era parecchio sconvolto, ma
Stan era riuscito, nonostante l’orrore al quale aveva assistito, a mantenere
una parvenza di autocontrollo.
Era stato tremendo fare da spettatore a
quella carneficina. I ribelli avevano circondato la squadriglia della polizia
di Eglon da entrambi i lati, occludendo ogni via di fuga e stringendo gli
avversari in una morsa spietata. Attanagliati su tutt’e due i fronti, i
poliziotti non avevano potuto fare altro che soccombere. Invano avevano
lottato. E invano erano stati dissanguati sull’asfalto all’incrocio tra Main
Street e Neighbour Street, come un branco di bestie da macello.
Adesso erano quasi le nove, e Stan e
Robert si trovavano soli in cucina. Sarah era andata a letto prima che loro
tornassero, e aveva lasciato un sintetico biglietto sul tavolino del salotto
con su scritto: Vado a dormire con i
bambini. Fate poco chiasso.
Come se scrivendo qualcosa di normale
potesse di colpo trasformare quella drammatica situazione in qualcos’altro di
altrettanto normale. Tipico di sua moglie
(ex
moglie, dannazione, quante volte me lo
devo ripetere?)
Sarah, rifletté Stan. Cercava di minimizzare per far
vedere che aveva tutto sotto controllo. Detestava non poter padroneggiare ciò
che le accadeva. Così fingeva che non ci fosse nulla fuori posto, e certe volte
finiva addirittura per persuadere chi le stava attorno a credere la stessa
cosa.
Ma
stavolta no. Stavolta nessuno
potrebbe convincermi che è tutto a posto. Nemmeno tu, Sarah.
Già. Erano precipitati in una realtà
troppo aliena perché si potesse fingere di non accorgersene. Aveva visto morire
venti poliziotti davanti ai propri occhi, compreso un vicesceriffo, ed era testimone
di un totale vuoto improvviso delle comunicazioni, che nel mondo che conosceva
era da considerarsi pressoché impossibile.
Ecco un punto sul quale concentrarsi,
scoprì Stan: lo smantellamento di tutti i mezzi di comunicazione. Come avevano
fatto a far tacere tutto quanto, a isolare un’intera città nel giro di qualche
minuto? Era roba da film di fantascienza. Non era contemplabile nel mondo
reale, e questo dettaglio gli dava particolarmente fastidio. Sopprimere le
linee telefoniche era un conto: bastava seguire i tracciati dei cavi telefonici
che le varie compagnie tiravano verso l’esterno della città e tagliarli uno per
uno. La cosa era fattibile, anche se estremamente complicata da organizzare. Lo
stesso si poteva fare con le fibre ottiche. Ma i cellulari, le radio e le tv
satellitari erano tutt’altro paio di maniche.
Si sistemò meglio sulla sedia della
cucina e si rese conto che Robert lo stava fissando. Gli rivolse uno sguardo
interrogativo, e l’altro parve tutt’a un tratto rianimarsi.
«Vuoi del caffè?» gli domandò, da vero
e cortese padrone di casa.
Stan decise che non se la sarebbe
presa. In fondo era lui il padrone di casa, adesso,
(naturalmente
subito dopo Sarah, gerarchicamente parlando)
e doveva prenderne atto.
«Ma sì, perché no?» accettò con una
vaga scrollata di spalle.
Robert si alzò e andò ad accendere la
macchinetta per il caffè. Macchinetta che Stan non aveva notato prima, e che
ora registrò. Era nuova. A quanto pareva, Robert e Sarah non si trattavano poi
tanto male, dopotutto.
«Illuminami, Robert. Sto cercando di
capire come possano aver fatto a generare questo buio completo nelle
comunicazioni» tentò Stan, pur sapendo che probabilmente non avrebbe cavato
nulla di nuovo da quell’omino tutto tremante che si portava a letto la sua ex
moglie.
«Bel dilemma, non è vero? Ma io forse
un’idea ce l’ho …»
«Dici sul serio?» domandò Stan
dubbioso, come per stare al gioco.
«Ma certo. Esistono degli apparecchi
di disturbo chiamati jammer in grado
di bloccare ogni segnale cellulare per diversi metri di raggio. Qualche anno fa,
a San Francisco, un certo Andrew ha bloccato il cellulare di una ragazza in un
parco che stava inviando un sms. È uscito l’articolo sul New York Times. Il suo dispositivo raggiungeva un raggio di
venticinque metri, ma perfino su eBay
se ne possono trovare di più potenti. Il loro utilizzo è stato dichiarato
illegale da parte della Commissione Federale per la Comunicazione statunitense,
ma li vendono ancora e so che parecchia gente li compra, anche se non li si potrebbe
adoperare…» spiegò Robert mentre posizionava due tazze sotto l’erogatore della
macchinetta per il caffè e pazientemente controllava che si riempissero.
«D’accordo, mettiamo che le persone
con le quali abbiamo a che fare se ne siano procurati di più potenti. Jammer
che coprono un raggio di cento metri, facciamo. Come potrebbero oscurare tutte
le comunicazioni cellulari della città?» volle sapere Stan, convinto di aver
trovato il punto debole nella teoria di Robert.
«Semplice: basterebbe posizionarne
parecchi in alcuni punti strategici. Prendi una cartina in scala della città di
Eglon, traccia con un compasso circonferenze di raggio pari a cento metri e
posizionane i centri in diversi palazzi, di modo da riuscire a coprire con le
circonferenze intersecate tutta la superficie del centro abitato. E il gioco è
fatto» lo stupì Robert.
Stan ci pensò su un attimo, e l’idea
gli parve plausibile. Anzi, era dannatamente logica! Forse Robert aveva
ragione. Forse si stavano servendo di questi cosiddetti jammer per bloccare le comunicazioni in città.
«Oltretutto,» riprese Robert portando
in tavola le due tazze di caffè, «esistono jammer in grado di ostacolare anche
radiofrequenze, GPS, WiFi e quant’altro.
Tutti progettati per usi militari, naturalmente, ma, visto che questi “ribelli”
sono entrati in città con dei carri armati, direi che non si tratta di
apparecchiature fuori dalla loro portata…»
Stan era rimasto di stucco. Non aveva
idea che potessero esserci aggeggi simili, in circolazione. Francamente non se
ne era mai nemmeno preoccupato. Ma soprattutto non aveva idea che Robert potesse
realmente tornargli utile, e questo
stava a dimostrare quanto i suoi classici pregiudizi da ex marito geloso
(su
avanti, ammettiamolo pure)
fossero del tutto infondati.
Così adesso aveva capito come fossero
stati capaci di creare quell’impensabile blocco delle comunicazioni. E la
questione focale si spostava su di un altro quesito: esisteva un modo per
sfondare il blocco e collegarsi con l’esterno, almeno temporaneamente? E, se
sì, qual era la soluzione migliore e quali informazioni era assolutamente
indispensabile comunicare a chi sarebbe venuto in soccorso alla città?
Lo schermo gigante piazzato sulla cima
della Eglon Tower era ancora completamente nero quando scattarono le nove del
mattino dell’undici settembre, ma ci pensò il campanile della chiesa cittadina
a rimpiazzarlo nell’avvisare la popolazione che la consegna delle armi a Main
Street era ufficialmente chiusa.
C’erano ancora poche persone in fila
presso i furgoni blindati sparsi per la strada principale della città. Gli
uomini preposti alla raccolta delle armi prelevarono i loro fucili e le loro
pistole immediatamente, li buttarono nei cassoni assieme a tutto il resto e
chiusero i portelloni, facendo segno agli autisti dei veicoli di partire verso
la loro sconosciuta destinazione.
Il convoglio di furgoni blindati si
mise in marcia e i carri armati che avevano occupato la zona si accodarono. La
gente che di nuovo affollava Main Street rimase sola a osservarli partire,
consapevole del fatto che la loro presenza non si sarebbe dissolta del tutto,
ma si sarebbe semplicemente celata nell’ombra.
Uno dei carri armati si fermò ai piedi
della Eglon Tower, attorno alla quale si erano radunati pochi curiosi. Ne scese
l’uomo con la maschera blu e l’elmetto da soldato che durante la notte aveva
lanciato il suo messaggio a Main Street attraverso un megafono. Si fece aprire
la porta d’ingresso e penetrò nell’edificio senza tante cerimonie.
Il bordo del tetto della Eglon Tower
era stato tappezzato di grosse casse acustiche nel corso dell’ultima mezz’ora.
Fu da lì che alle nove e trenta si sprigionò una voce senza accento che la
maggior parte della città aveva imparato a riconoscere, nonché a temere.
«Eglon, ascoltami» esordì la voce in
tono perentorio, e il suono avvolse l’aria e le abitazioni e si insinuò in ogni
anfratto. «Il nuovo undici settembre è cominciato. Il nostro messaggio è stato
lanciato. È ora di rendere questa rivoluzione molto di più che una banale
occupazione. Siamo pronti a dare inizio alla guerra!»
Un desolato mormorio interrogativo
percorse le strade di Eglon, saltando di bocca in bocca da un punto all’altro
della città, scuotendo gli animi di una popolazione che dopo una terribile
notte di sangue non era ancora pronta a sopportare il peso di altre morti.
«Un treno in fiamme proveniente da
Little Rock ha raggiunto Pine Bluff alle sette e trentaquattro di questa
mattina. Alle otto e dodici minuti il governatore è stato informato
dell’accaduto e ha contattato il Segretario della Difesa. La telefonata è
terminata alle otto e diciassette, ora in cui il Dipartimento della Difesa ha chiamato
l’ufficio del Presidente degli Stati Uniti. Il Segretario della Difesa e il
Presidente hanno chiacchierato tranquillamente per i venti minuti successivi,
poi il Presidente ha indetto una riunione straordinaria del Consiglio per la
Sicurezza Nazionale. Nel frattempo, è stato mandato in ricognizione un reparto
dell’esercito per controllare che cosa stia succedendo a Eglon.
«Stiamo provvedendo a rinforzare i confini
della città, e l’operazione è quasi ultimata. Abbiamo costruito una barricata
attorno al centro abitato che resisterà ai primi assalti, e nei punti
strategici abbiamo provveduto a posizionare mortai, lanciagranate e, in caso
possano tornare utili, alcuni dei nostri carri armati.
«Ricordate le immagini che avete visto
in televisione delle guerriglie in Iraq e Afghanistan? Ecco, più o meno una
cosa così. Solo che qui fuori sarà peggio.»
«David, perché non torniamo a casa?
Vuoi?» domandò sua madre leggermente scossa.
«Non se ne parla, mamma. Non terremo
chiuso il supermercato. La gente avrà bisogno di comprare la roba da mangiare»
insistette David andando ad aprire le porte scorrevoli dell’ingresso.
Avevano già maturato un’ora di
ritardo, ma non importava. Ciò che più contava era che chi si fosse recato in
supermercato per acquistare del cibo per la propria famiglia avrebbe trovato
qualcuno con il sorriso sulle labbra ad accoglierlo, e non una porta sbarrata.
«Ma c’è quel tipo, là fuori, e mi sembra tutto fuorché un cliente!»
sussurrò ostinatamente sua madre. Si riferiva chiaramente all’uomo con la
bandana sul volto e la mitragliatrice imbracciata che piantonava l’ingresso del
negozio, osservando da lì la strada e la gente confusa che passava.
«Non mi interessa. Può prendersi da
mangiare anche lui qui dentro, se ha soldi per pagare» ribatté tranquillamente
David.
«Ha molto di più dei soldi: ha una mitragliatrice, David, e non credo
esiterebbe a puntartela contro se tu gli dicessi che da qui non si esce senza
pagare!» protestò la donna sempre più intimorita.
«Ci provi pure. In ogni caso, io
apro.»
«E se c’è la ressa? Se la gente viene
dentro e pretende di prendere tutto quello che vuole senza pagare per poter
fare il pieno di viveri in caso le cose si mettano male? Tu che cosa fai,
David?»
Il ragazzo guardò negli occhi sua
madre, e nello sguardo della donna scorse una profonda paura che la rendeva
irrequieta. Ma era convinto che tutto sarebbe filato liscio. Non era tutto
perduto, a Eglon, e anche se si stava preparando una guerra era loro preciso
dovere tenere aperto quel dannatissimo supermercato per dar da mangiare ai
concittadini!
Amen,
concluse tra sé e sé David.
«Non ti preoccupare, mamma. Me ne posso
occupare io. Torna pure a casa se non te la senti. Ma io apro, e sono disposto
a lavorare da solo, se necessario.»
Sua madre lo osservò per qualche
istante in silenzio, e capì dalla sua espressione ferma che non sarebbe
riuscita a smuoverlo in alcun modo dai propositi che si era fissato.
«D’accordo. Restiamo» cedette infine
la donna, e indossò il grembiule partendo di gran carriera per raggiungere il
banco della salumeria.
David sorrise. Era importante, per
lui, tenere aperto il negozio. E anche per papà, che era di là in magazzino a
gestire l’inventario. Era domenica, giorno di chiusura, ma sia David che suo
padre si erano comunque intestarditi di voler aprire in ogni caso. La gente
aveva bisogno di una sicurezza in più, aveva detto il signor Goldbert quella
mattina. Tutti loro avevano bisogno di
poter contare sulle abitudini e sui fondamentali pilastri della vita
quotidiana, se volevano superare indenni quella brutta storia. La notte era
stata scandita da spari, esplosioni, morte e sangue. Adesso basta. Si rientrava
nella normalità, almeno per quanto fosse possibile farlo dopo una notte del
genere, e si cercava di ripristinare l’ordine nonostante la presenza dei carri
armati, dei soldati e della lugubre barricata che veniva lentamente eretta
attorno alla città.
Gli venne da pensare a Gabriella, la ragazza
che gli piaceva. Le andava dietro dalle elementari, da quando aveva
incominciato a poco a poco a capire che il sorriso di una bella ragazza era
mille volte meglio di qualsiasi videogame. Era arrivato a questa conclusione un
po’ prima dei suoi coetanei, d’accordo, ma questo perché David era sempre stato
un tipo parecchio precoce e riflessivo. Anche leggermente sopra la media, è
vero, ma non esattamente un genio. Semplicemente più maturo degli altri, ecco.
E la gente che gli stava attorno se ne accorgeva, e forse era per questo che
non aveva tanti amici: era eccessivamente maturo per andare a genio ai suoi
coetanei, e troppo giovane per essere frequentato volentieri dagli adulti. Un
ibrido di ragazzo d’oro che tuttavia non riusciva a individuare il proprio
aggancio con le persone, così se ne stava tranquillamente per i fatti propri ed
evitava di mettersi troppo in mostra o, come diceva papà, di dare nell’occhio più del dovuto.
Stavano succedendo cose strane, a
Eglon. Rivoluzione, l’avevano chiamata, eppure David sentiva, dentro di sé, che dietro c’era qualcosa di più. Non si
trattava di una semplice sommossa, di una insolita pubblicità per attirare
l’attenzione su di un tema particolare: qui si stava organizzando qualcosa di
molto più dannatamente grande, e Dio solo sapeva, per adesso, di che accidenti
potesse trattarsi. E forse sarebbe rimasto l’unico a saperlo ancora per un bel
po’.
Raggiunse il punto della corsia
riservato alla pasta, sfoderò il taglierino e aprì uno scatolone rimasto per
terra. Cominciò a tirare fuori i pacchetti a uno a uno e a metterli al proprio
posto.
Nessun camion avrebbe potuto
raggiungere Eglon nei prossimi giorni, a quanto pareva. Le scorte erano
parecchie, perché l’ultimo carico era arrivato venerdì e ora il magazzino era
pieno, ma per quanto sarebbero durate? C’erano altri tre negozi di alimentari
in città, e uno apparteneva a una grossa catena, perciò era ben fornito. Ma per
quanto tempo sarebbe andata avanti così?
Quello poteva essere il primo di una
lunga serie di giorni. I ribelli avevano ragione: l’esercito non li avrebbe
potuti attaccare in alcun modo senza rischiare di provocare danni tra la
popolazione. E l’ONU non avrebbe
approvato alcun genere di attacco, perché finché c’erano di mezzo i civili non
si poteva andare troppo per il sottile. Non era come a Tripoli, in Libia,
dannazione. Questa era Eglon, Arkansas, negli Stati Uniti d’America, e la
sensibilizzazione delle masse sarebbe stata troppo forte. Bombardare la città
per ostacolare i rivoluzionari avrebbe provocato un sommovimento implacabile
nell’opinione pubblica, che avrebbe condannato duramente una presa di posizione
violenta da parte del governo statunitense. No, non si sarebbero azzardati a
rischiare tanto. I rivoluzionari avevano ragione anche su questo punto.
La situazione era quanto mai delicata,
e David ne era francamente preoccupato. Avevano parlato già durante la notte di
isolare la città, ma la costruzione di una barricata lungo tutto il perimetro
del centro abitato era ben diversa da un pugno di parole gettate al vento.
Ad ogni modo stavano edificando la
barriera, come una fortezza intenta a rafforzare le difese in vista di una
tremenda battaglia. David non sapeva se quello che avevano detto fosse vero.
Non aveva idea di quali fossero i loro progetti, né di che cosa la popolazione
di Eglon sarebbe stata costretta a sopportare nel più totale e sconfortante dei
silenzi. Su una cosa era certo, però: quello era solo l’inizio, e presto
avrebbero dovuto mandare giù un altro amaro assaggio della sconsiderata follia
nella quale erano stati forzatamente trascinati.
Cathy Holmes osservava taciturna la
landa di devastazione che si srotolava verso ogni dove sotto i suoi tremuli
occhi annacquati. Sulla polvere che le imbrattava le guance si erano generate
due righe più scure, i solchi che le lacrime le avevano lasciato colando
silenziosamente dagli angoli degli occhi, e parevano quasi due profonde rughe
scavate da un dolore improvviso e indescrivibile.
C’erano carcasse di aerei sparse un
po’ dovunque. Resti di lamiera carbonizzati, con grossi squarci e pezzi che
pendevano. Qualche frammento di plastica era volato fino a lì, all’ingresso
della pista d’atterraggio del terminal, e più in là c’era un intero sedile
mezzo spelacchiato che doveva essere stato catapultato in aria da una delle
esplosioni.
Qualche fuoco scoppiettava ancora qua
e là, dandole l’impressione di essere finita in uno di quei lugubri film di
disastri aerei o, peggio ancora, nella fantomatica isola fantasma della serie televisiva
Lost. Solo che non c’era mare, non
c’era spiaggia, non c’erano palme né feriti da soccorrere. Qualche corpo
compariva ogni tanto nella visuale, ma era talmente rovinato da sembrare un
manichino di plastica colato con la fiamma ossidrica. Era una scena tremenda
alla quale assistere, ma Cathy non riusciva a smuoversi da lì. Forse molta
della gente che si trovava in aeroporto la scorsa notte era riuscita a fuggire,
ma in ogni caso non aveva trovato nessuno durante l’intera mattinata. Segno che
chi era sopravvissuto se n’era andato, oppure che nessuno era riuscito a
cavarsela.
Le piste d’atterraggio erano state
disintegrate a colpi di cannone. I carri armati non c’erano più, e
probabilmente dovevano essersi spostati in qualche altra zona della città.
Fatto stava che Cathy capiva perché avessero demolito le piste: l’avevano fatto
per renderle inservibili, per assicurarsi che nessun aereo le utilizzasse per
atterrare a Eglon.
Ciò che più le faceva impressione,
però, era quell’aereo là in fondo che si era schiantato contro il terminal, abbattendone
completamente una parete laterale e sbriciolandone un angolo. Per fortuna che
non era arrivato addosso all’edificio dalla parte in cui si trovava lei,
rifletté, altrimenti quella mattina non si sarebbe risvegliata. Doveva essere
precipitato durante la notte. Una delle ali, quella sinistra, non c’era, e la
coda era caduta più distante dal resto del velivolo. Come se avesse avuto un
incidente finché era ancora in volo e fosse venuto giù alla stregua di un
uccello preso di mira dal fucile di un esperto cacciatore.
Anche quell’aereo era attraversato da
piccoli incendi, ma una buona metà pareva integra. Su alcuni finestrini si
allargavano macchie e spruzzi di sangue. Gente che doveva aver sbattuto la
testa durante l’impatto, o che era stata centrata dalle valigie durante una
caduta orribilmente verticale. Cathy nemmeno osava immaginare che cosa potesse
essere successo là dentro…
«Signorina!» chiamò una voce alle sue
spalle. Trasalì, colta alla sprovvista, e si voltò con il cuore che batteva a
mille. Non aveva mai sofferto di tachicardia. Ma considerò di essere sul punto
di avere un infarto, da quanto il cuore le palpitava freneticamente.
«Signorina, sta bene?» le domandò
affabilmente l’uomo quando l’ebbe raggiunta. Le cinse la vita con un braccio, con
gentilezza, sospingendola via verso l’interno del terminal, inducendola a lasciarsi
alle spalle lo scenario di morte e disperazione in cui si era tramutata la modesta
pista d’atterraggio dell’aeroporto di Eglon.
«Credo di sì…» balbettò, parecchio
scossa.
«Non si preoccupi, va tutto bene.
Dobbiamo allontanarci da qui al più presto. Il terminal sta per essere
demolito, per facilitare le operazioni di barricamento» le spiegò l’uomo con
molta naturalezza, accompagnandola in direzione dell’uscita.
«Barricamento?» ripeté incerta Cathy,
guardando davanti a sé ma non vedendo in realtà nulla.
«Sì. Per la protezione della città,
signorina» rispose tranquillamente l’uomo, e Cathy si domandò solo in
quell’istante perché accidenti avesse il volto coperto da una maschera nera percorsa
da fosforescenti venature bluastre.
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