Melanie Winget si allacciò le cinture,
come era stato appena annunciato di fare, e si lasciò uscire dalle labbra un
sospiro nervoso nel vano tentativo di far sbollire l’agitazione.
Volare la rendeva sempre molto tesa,
per questo cercava di evitarlo il più possibile. Ma alle volte non c’era
scelta: quando bisognava percorrere centinaia di chilometri per raggiungere
un’altra città, l’aereo era il mezzo più pratico e rapido con il quale
spostarsi.
Avere i genitori nell’Oregon, poi, e
abitare in Arkansas era decisamente scomodo. Si poteva adoperare anche il
treno, certo, ma prendere tutte le coincidenze e sopportare interminabili ore
di viaggio seduti in cabine strette e affollate faceva andare fuori di testa. E
a Melanie, per essere del tutto onesta, dava più fastidio dover condividere un
compartimento del treno con altre cinque persone che l’interno di un intero
aeroplano con circa duecento passeggeri. Era strano, d’accordo, ma tra le due
opzioni prediligeva la seconda.
Si accese la spia che ordinava di
allacciarsi le cinture, spegnere tutti gli apparecchi elettronici e, di
conseguenza, prepararsi all’atterraggio. Melanie gettò un’occhiata al proprio
cellulare e lo trovò diligentemente spento. Bene,
pensò. Abbassare gli occhi a questo punto
del viaggio mi fa venire la nausea, e almeno non devo stare a smanettare con il
telefonino durante tutto l’atterraggio.
Appoggiò gli avambracci agli appositi
braccioli posti a lato del sedile e chiuse gli occhi, inspirando ed espirando
profondamente.
Accanto a lei stava seduto un tipo
dall’aria annoiata, lineamenti asiatici e abiti costosi. Reggeva in mano un
palmare e quando Melanie riaprì gli occhi per sogguardare i sedili adiacenti
mentre iniziava la manovra di atterraggio lo stava ancora utilizzando. Melanie
strabuzzò gli occhi, atterrita. Se
l’aereo precipita per colpa tua, Jackie Chan, e per colpa di quel tuo stupido
palmare, giuro che ti vengo a cercare all’inferno e ti faccio desiderare di non
essere mai morto!
«Il pilota del volo 185 della US Airways vi invita a rimanere seduti
con le cinture allacciate fino alla fine della manovra di atterraggio. È
prevista una certa turbolenza a causa del banco di nuvole che sovrasta la
città, e abbiamo qualche problema a contattare la torre di controllo. Ci
saranno un po’ di scossoni, ma l’atterraggio avverrà ugualmente in tutta
sicurezza» comunicò una voce che Melanie valutò essere troppo calma alla luce delle
considerazioni appena espresse. Ci
mancava solo questa, pensò la ragazza, e scrutando torvamente il palmare di
Jackie Chan si domandò se fosse a causa di quello che il pilota faticava a
mettersi in contatto con la torre di controllo.
L’aereo scendeva piuttosto
rapidamente, e Melanie sentiva la forza di gravità attrarla prepotentemente in
direzione del suolo. Ci schianteremo,
rifletté in un attimo di disagio avvertendo un violento scossone e intravedendo
le fitte nubi che circondavano il finestrino oltre il profilo scuro e concentrato
di Jackie Chan.
Un altro tremito spaventoso, come se
l’aereo tentasse di scrollarsi di dosso l’umidità che la nebbia gli stava
depositando sopra. Melanie trattenne un gridolino, sussurrando tra sé e sé che
andava tutto bene e che la prossima volta, accidenti, si sarebbe sorbita le
infinite ore di treno che separavano Eglon da Portland piuttosto che salire di
nuovo su uno di quei…
L’ala sinistra del volo 185 della US Airways, quella cioè che si poteva
scorgere attraverso il finestrino della fila nella quale si trovavano Melanie e
Jackie Chan, fu colpita all’improvviso da qualcosa ed esplose fragorosamente,
facendo assumere all’aereo un assetto di caduta più o meno verticale che lo
rese identico a una fenice in fiamme in procinto di precipitare in un pozzo
nero di follia.
LE
ANIME DI EGLON
PRIMA
STAGIONE
EPISODIO
6
LA
BATTAGLIA
Una scia fiammeggiante graffiò il
cielo scuro e raggrumato di nuvole, annullando la sua incorruttibile uniformità
e mostrandolo per quello che era: un banalissimo sfondo alle vicende che
stavano trasformando Eglon da una qualunque città americana in uno dei luoghi
più terrificanti del mondo.
Erano le tre di notte quando un aereo
precipitò in lontananza, avvolto dal fumo denso e cupo che ancora si levava dai
dintorni del terminal aeroportuale di Eglon. Alcuni cittadini alle finestre lo
notarono. Altri, per le strade, lo additarono in silenzio, con un’espressione
di muto raccapriccio stampigliata in volto. Stan Payton si limitò a osservare
la sua parabola discendente tramutarsi in una picchiata verticale, e quando il
fumo delle esplosioni lo ebbe trangugiato fu lieto di non essere costretto ad
assistere all’impatto.
Ma per adesso c’erano altre cose ben più
importanti alle quali dedicare la propria attenzione. Come ad esempio il carro
armato che era tornato a Main Street da chissà dove per supportare la linea di
uomini mascherati, pronti a sbaragliare il manipolo di poliziotti intervenuto a
riportare l’ordine in una città oramai irrimediabilmente stramazzata nel caos.
La tensione era palpabile, e Stan era
uscito in strada per assistere allo scontro, seguito da Robert. Si tenevano a
debita distanza, dietro una siepe. Main Street si era repentinamente svuotata
dopo l’arrivo della polizia, la gente era sciamata nelle proprie abitazioni e
l’aria fresca della notte si era fatta di colpo più rigida e dannatamente
rarefatta. Adesso i lampioni illuminavano tratti di asfalto buio attorno alle
due schiere contrapposte di uomini che si scrutavano e si studiavano e si
davano battaglia con gli sguardi prima di cominciare a fare pressione sui
grilletti.
A Stan la scena ricordò vagamente
alcune sequenze di vecchi film western che vedeva quand’era ragazzo. C’era il
gruppo di poliziotti, capitanato dallo sceriffo che in questo caso era impersonato
da Jason Krain, e c’era la banda di fuorilegge, rappresentata dagli uomini con
i volti coperti che nel giro di qualche ora avevano preso la città. Solo che i
cattivi superavano di gran lunga i buoni, in quanto a numeri, e un carro armato
dalla parte dei primi faceva pendere ulteriormente la bilancia dalla loro
parte.
Stan sapeva che di lì a poco sarebbe
scoppiato il finimondo. Voleva stare a vedere che cosa sarebbe successo, e
cercare di capirci qualcosa di più. Chissà, magari dallo scontro sarebbe emerso
qualche dettaglio che avrebbe potuto portarlo a comprendere appieno ciò che
stava capitando.
Una figura avanzò tra gli uomini in
maschera. Indossava un elmetto da militare, e portava una mitragliatrice a
tracolla. Vestiva scarponi pesanti da soldato e una divisa mimetica senza
diciture né stemmi. Sembrava disporre di un fisico piuttosto solido, atletico e
muscoloso. La maschera blu che gli copriva la faccia, la stessa che era apparsa
sullo schermo della Eglon Tower durante l’annuncio della rivoluzione, era
facilmente riconoscibile.
Uno dei suoi compagni gli passò il
classico megafono e lui, con la solita voce atona di prima, mormorò:
«Vicesceriffo Jason Krain, non ci aspettavamo un confronto diretto proprio qui,
su Main Street, così presto. Credevamo avreste avuto il buonsenso di
organizzarvi e intervenire con più uomini. Ne conto una ventina di voi, in
questo momento, sbaglio?»
Il vicesceriffo Krain non rispose.
Tirò su col naso e si tenne in fila accanto ai propri uomini, tutti
visibilmente scossi e poco propensi a sparare in mezzo a Main Street contro
quei tipi senza volto, le cui spalle erano costantemente coperte dall’inquietante
e perentoria presenza di un carro armato.
«Bene, se non altro sarà una cosa
breve…» concluse l’uomo con l’elmetto da soldato e la maschera blu sul viso. La
sua voce sembrava finta, registrata, come quella di una segreteria telefonica.
Non fosse stato per le sue labbra che si muovevano visibilmente dietro
l’apposita fessura sulla superficie liscia della maschera, Stan avrebbe detto
che al megafono doveva esserci collegato un nastro o roba simile.
«Che cosa volete da Eglon? Perché
state facendo tutto questo?» volle sapere Jason Krain. Le parole gli uscirono
tutte assieme, incollate, senza pause tra l’una e l’altra. ChecosavoletedaEglon? Deglutì a vuoto, subito dopo, e sbatté forte
le palpebre come colto da un improvviso tic nervoso.
«Mi sembrava di essere stato
abbastanza chiaro: questa è una rivoluzione,
vicesceriffo Krain. Una rivoluzione che scuoterà le fondamenta dell’Occidente
con la propria dirompente potenza. I cittadini di Eglon sono stati chiamati a
entrare a far parte della Storia, partecipando al più grande avvenimento del
nuovo millennio. Dopo Eglon, il mondo si inginocchierà. Dopo le atrocità di
questo secondo undici settembre, l’Occidente si piegherà.»
«Che cosa avete intenzione di fare?»
pigolò il vicesceriffo Krain con un filo di voce, e ogni rimasuglio della
sicurezza che aveva dimostrato quando era uscito con i suoi uomini da Neighbour
Street, annunciando la liberazione della città, fu spazzato via
definitivamente.
«Che cosa faremo, vorrà dire. Lanceremo un messaggio agli Stati Uniti che
arriverà forte e chiaro, e che riecheggerà in Europa, in Asia, in tutti i
continenti e le nazioni del globo. La città di Eglon verrà tagliata fuori dal
resto del mondo per sempre, e questo servirà
a dimostrare la nostra potenza e le nostre reali possibilità, la nostra
capacità di prendere una città qualunque, per quanto libera e sicura possa
sembrare, e di strapparla all’umanità con un unico strattone. Nessuno riuscirà
più a riconquistare Eglon, né tantomeno a sedare questa nostra rivolta. Perché
nessuno avrà il coraggio di fare fuoco contro di noi, finché ci saranno civili
innocenti in ogni palazzo circostante.
«Nessun missile verrà lanciato,
nessuna bomba sarà sganciata, nessun proiettile fenderà l’aria di Eglon
giungendo dall’esterno. E noi potremo combattere da qui, senza il timore di
essere attaccati, perché gli Stati Uniti e il mondo non potrebbero mai approvare un attacco a una città con
oltre quarantamila americani, rischiando le loro vite per estinguere una
rivoluzione» spiegò l’uomo mascherato in testa al gruppo di ribelli senza
volto, e stavolta la sua voce tradì una minuscola, quasi impercettibile
inflessione: un moto di felicità che non fu capace di soffocare del tutto.
«Oh Cristo santo, vogliono usarci come
ostaggi…» bisbigliò Robert terrorizzato, agguantando la spalla di Stan come se
potesse aggrapparvisi per non ricadere in quello scenario e in quella realtà spettrali.
«No, peggio…» lo contraddisse Stan con
voce piatta e misurata. «Vogliono usarci come scudi umani.»
La notte era particolarmente fredda e
buia, e le stelle erano state ricoperte da un denso drappo di nuvole grigie che
rendeva vano ogni tentativo di scorgerle. Per le strade laterali come Fullgray Avenue
passava poca gente, e praticamente ogni incrocio era piantonato da uno di quei
furgoni blindati con tre o quattro uomini mascherati attorno, tutti
tassativamente armati. Daniel Green provò ad aggirare uno di quei furgoni
passando per il giardino di una villetta a schiera, ma al posto della staccionata
c’era una siepe alta due metri, sull’altro lato, e gli fu impossibile superarla.
Tornò indietro e rallentò l’andatura,
nascondendo meglio la pistola di suo padre sotto la maglietta e transitando
senza dare nell’occhio accanto a un brutto ceffo con bandana colorata sulla
bocca e capelli nascosti dietro un berretto scuro.
Vide un uomo sui quarant’anni
affacciarsi a una finestra e rientrare immediatamente, chiudendo il vetro e
abbassando la persiana. Notò un paio di tizi, in fondo a Fullgray Avenue,
confabulare sotto la luce di un lampione, a debita distanza dal furgone
blindato che sorvegliava la via un centinaio di metri più in là. Una donna che
veniva sospinta via da uno dei ribelli mascherati, chissà per quale motivo. Per
il resto, solo la cupa penombra di un’oscurità troppo intensa per essere
efficacemente fugata dal brillio dei lampioni.
Rabbrividì, proseguendo. Non poteva
fermarsi, non ancora. Il municipio era lontano, e di quel passo avrebbe
impiegato una buona mezz’ora a raggiungerlo. Senza contare che non era certo di
riuscire a passare per Main Street senza essere bloccato. Se lì la situazione
era così, non osava immaginare come potesse essere lungo la strada principale
della città, dove con ogni probabilità il nemico aveva concentrato la maggior
parte dei suoi mezzi…
Lanciò uno sguardo di sfuggita
all’aereo che precipitò sull’orizzonte, nei pressi dell’aeroporto cittadino.
Non era un problema di primo piano, per il momento. Era gente che moriva,
questo è vero, e Daniel lasciò un pensiero anche per loro. Ma se non si faceva
qualcosa al più presto, forse a breve sarebbero morte molte più persone. E non
poteva permettersi di accettare una cosa simile.
«Ascolti, l’unica cosa che voglio è
raggiungere Pine Bluff per dieci minuti. Vorrei avvisare la mia famiglia,
capisce? Vorrei dire loro che sto bene, e poi potrei ritornare indietro prima
delle sei di domattina…» stava implorando una ragazza all’altro lato della
strada, parlando con un gruppo di tre uomini dal volto coperto che occupavano
il marciapiede.
«No, è escluso. Le strade sono state
bloccate, e per le sei saranno già tutte impraticabili. Nessuno esce dalla
città, né ora, né mai più» proibì uno dei ribelli, categorico e inappellabile.
«Chiedo solo dieci minuti, dieci
minuti e poi ritorno, promesso!» insistette la ragazza con la voce incrinata da
un pianto imminente, e il tipo al quale si rivolgeva sollevò la canna del
fucile che teneva tra le mani e la puntò verso di lei, con un gesto talmente
naturale da non lasciare intendere alcuna minaccia, bensì soltanto un’unica
promessa.
«Che cosa non ti è chiaro? Sentiamo,
sono curioso di saperlo!» proruppe l’uomo con la bandana colorata facendosi
tamburellare l’estremità di una spranga di metallo nella mano libera.
«Io…» cercò di difendersi la ragazza,
ma il terzo del gruppo la spintonò assestandole una pacca sulla spalla e nel
frattempo le spianò contro un revolver con la sicura disinserita.
«Ehi, piano, fermi!» intervenne
Daniel, non potendo sopportare oltre la vista della scena. Si fece avanti e
raggiunse il piccolo gruppetto, allontanando la ragazza con un braccio e
tenendo l’altra mano aperta in direzione dei ribelli armati, come per mostrare
loro che non aveva cattive intenzioni.
«E tu che vuoi?» lo apostrofò quello
con il fucile puntato, producendo una smorfia.
«Di che ti impicci, ragazzo?» lo
riprese quello con la spranga di ferro in pugno, avvicinandosi con aria di
sfida, apparentemente pronto ad attaccar briga.
«Tranquillo, tranquillo. Tutto a
posto. C’è stato solo un malinteso» replicò con calma Daniel, indietreggiando
ancora un po’ e fermandosi sul margine del marciapiede.
«La ragazza è con te?»
«Sì, era con me un attimo fa. È mia
sorella. Si è fatta prendere dal panico ed è partita di corsa, e non sono
riuscito a starle dietro. È solo spaventata e spaesata, tutto qui. Non intendeva
darvi noie.»
«Be’, vedi di farle capire che di qui
non si esce. Chi si trova a Eglon ci rimarrà per molto, molto tempo. Nessuno va
fuori» ribadì seccamente il tizio con la spranga.
«D’accordo. Grazie» acconsentì Daniel.
Cinse la vita della ragazza con un braccio e la spinse via, accompagnandola e
facendole segno di non fiatare. Si allontanarono in silenzio, senza dare troppo
nell’occhio, e si infilarono in un vicolo relativamente sicuro dove finalmente
Daniel si concesse un sospiro di sollievo che gli attenuò la tensione.
«Ti ringrazio…» mormorò la ragazza un
po’ a disagio. Le luccicavano delle lacrime, agli angoli degli occhi, e Daniel
non poté fare a meno di notarle.
«Figurati, è stato un piacere. Ma devi
stare attenta. Non puoi andare in giro a fare così. Rischiavi di venire
aggredita, se non ammazzata» la rimproverò cortesemente Daniel.
«Lo so… e mi dispiace… è solo che i
miei genitori sono a Pine Bluff, e io ero qui con mio cugino ma lui è sparito,
e così mi chiedevo se ci fosse modo di tornare a casa… e di non rimanere invischiata
in questa faccenda con la quale non c’entro nulla, solamente perché stasera ho
avuto la brutta idea di venire a Eglon…» sussurrò la ragazza, con qualche
singhiozzo che ogni tanto emergeva a interromperla e la scuoteva da capo a
piedi.
Daniel si prese il tempo di guardarla.
Era carina, bassa e bruna, con gli occhi chiari e il viso piacevole. Pareva
avere una ventina d’anni, suppergiù. Forse anche diciannove, valutò dopo poco. Aveva
un aspetto fragile e indifeso, che gli comunicava un qualcosa di tiepido che
non riusciva a definire in maniera precisa. Una sensazione di bisogno, in un
certo senso. Come l’inconscia necessità di proteggerla…
«Come ti chiami?» lo riscosse dopo un
po’ la giovane. Si era calmata, e si era asciugata gli occhi con il dorso della
mano. Gli rivolgeva un mezzo sorriso riconoscente.
«Daniel Green. Tu?»
«Rebecca Mitchell» bisbigliò. Daniel
le porse la mano, ma lei nemmeno la guardò e gli si gettò al collo,
abbracciandolo. Daniel rispose alla stretta, inalando il profumo fragrante dei
suoi capelli scuri e la freschezza del suo viso contro la propria spalla.
«Grazie per avermi salvata, Daniel»
farfugliò la ragazza stringendolo ancora un po’, quindi lo lasciò andare e gli
sorrise, stavolta apertamente.
«Che fine ha fatto tuo cugino?» s’informò
Daniel, cercando di uscire dall’imbarazzo.
«L’ultima volta che l’ho visto era
diretto alla stazione ferroviaria. Ha detto che, dato che la macchina era
bloccata, forse potevamo tornare a casa in treno e venire a prenderla un’altra
volta. L’ho perso in mezzo alla strada quando un furgone blindato ci ha
separati, e poi non sono più riuscita a trovarlo da nessuna parte…» illustrò
Rebecca laconicamente, e Daniel si sentì avvampare per via della cosa che la
ragazza gli aveva appena fatto venire in mente: c’era anche la stazione ferroviaria,
e i ribelli non l’avevano menzionata nel loro messaggio. Possibile che non
l’avessero tenuta in considerazione? E se magari ci fosse stato un modo,
attraverso quella, per uscire dalla città e avvisare le autorità competenti di
ciò che stava accadendo a Eglon?
«Coraggio, andiamo alla stazione
allora» concluse Daniel, e Rebecca approvò felice.
I venti uomini della polizia di Eglon,
allineati con gli scudi antiproiettile protesi in avanti a formare una barriera
e le pistole d’ordinanza pronte a far fuoco, presero posizione all’incrocio tra
Main Street e Neighbour Street, occupando l’imboccatura di quest’ultima, che
era più stretta, di modo da creare due file di dieci elementi ciascuna. Il
vicesceriffo Jason Krain si era posizionato al centro della prima linea, e da
lì lanciava ordini sbrigativi al drappello come un generale alle proprie
truppe.
Il carro armato dei ribelli era stato
messo da parte, accanto ai furgoni blindati, e un manipolo di cinquanta uomini
col volto coperto era stato radunato in fretta e furia e armato di tutto punto.
Non avevano scudi, loro, né corazze o giubbotti antiproiettile. Ma i loro occhi
erano fiammeggianti, e il vicesceriffo Jason Krain capiva perfettamente, da
quegli sguardi, che avrebbe dovuto faticare parecchio per riuscire a
sbaragliarli o, se non altro, a costringerli a una ritirata provvisoria.
Prendere Main Street sarebbe stato un
notevole successo, considerò Jason Krain intanto che i rivoltosi si
scompattavano in gruppetti disordinati e si avvicinavano con fare aggressivo.
Disorganizzati com’erano, scompaginarli sarebbe stato forse più semplice del
previsto. Una volta buttato all’aria il loro assalto, avrebbero potuto con
calma intrappolarli singolarmente, prendere possesso dei furgoni e del carro
armato e infine proclamare la liberazione di Main Street, restituendo le armi
ai cittadini e pregandoli di aiutare a ripulire il resto della città quartiere
dopo quartiere.
Li aspettava una notte ancora
piuttosto lunga, ma se non altro c’era qualche possibilità nascosta tra le luci
dell’alba.
«Poliziotti di Eglon, avete ancora due
minuti per gettare le armi e arrendervi. Chiunque di voi consegnerà ora le proprie armi avrà salva la vita,
e gli sarà permesso di ritornare a casa dalla sua famiglia senza un solo
graffio» garantì la solita voce emergendo dall’aria attraverso il megafono.
«Nessuno di noi ha intenzione di
piegarsi al vostro volere! Siamo cittadini liberi, pronti a morire liberi, se
necessario!» ribatté la voce naturale di Jason Krain, che non si servì di alcun
megafono per amplificare il proprio sintetico messaggio.
Le sue parole rafforzarono la
convinzione di voler lottare anche nei più titubanti, e i poliziotti di Eglon
serrarono le file e si tennero pronti alla battaglia.
Robert tremava accanto a lui. Stan non
lo badò. Mentre i ribelli armati di spranghe e fiaccole accese infrangevano le
vetrine dei negozi circostanti e appiccavano il fuoco alle automobili parcheggiate
a lato della carreggiata, la polizia rimaneva ferma a guardare e non osava
muoversi.
«Osservate, cittadini di Eglon, quello
che la vostra polizia ha deciso di far accadere! Opponendo resistenza ci
costringono a distruggere. E se qualcun altro si metterà contro di noi, non ci
limiteremo alle automobili e alle vetrine: entreremo nelle case e faremo
strage!» declamò l’uomo senza accento con la maschera blu e il megafono salendo
nuovamente in cima al carro armato per farsi vedere e sentire meglio. Dal
cofano di una macchina più avanti usciva fumo e dopo pochi istanti il veicolo
saltò in aria, lanciando pezzi di lamiera e scaglie di vetro ovunque,
appiccando il fuoco all’albero sotto il quale era parcheggiato.
Stan non aveva mai visto niente del
genere, nemmeno nelle manifestazioni anarchiche che aveva seguito qualche volta
alla televisione durante i telegiornali. Era terribile, e stava avvenendo tutto
sotto i suoi occhi.
«Forse faremmo meglio a tornare in
casa» brontolò Robert di fianco a lui, ma Stan lo ignorò.
«È così che dimostrate il vostro amore
per la città? Obbligandoci a demolirla?» rincarò l’uomo con la maschera blu in
piedi sul carro armato, e anche stavolta c’era una venatura di scherno che affiorava
tra le sue parole, come un cadavere gonfio sulla superficie increspata delle
acque torbide di un lago disperso.
«Siamo pronti a dare la vita per la
nostra città!» gridò allora il vicesceriffo Jason Krain, e sollevando la
doppietta la puntò contro un ragazzo con una maschera bianca ricoperta di
disegni blu e arancioni, sul punto di scagliare una pietra contro un’Alfa,
e premette il grilletto con rabbia.
La detonazione squarciò il silenzio
troppo teso di Main Street, e i ribelli si fermarono di colpo a seguire il
movimento del corpo del proprio compagno che si accasciava inerme in mezzo alla
strada, come una foglia secca d’autunno appena staccatasi dal ramo e posatasi
sull’asfalto freddo.
Una macchia di sangue lucente si
allargò sotto una pozza di luce. Sembrava nera, per via del chiaroscuro notturno,
e i lampioni non riuscirono a restituirle l’originale colore scarlatto.
Seguì una pausa di assoluto silenzio
che si dilatò all’infinito, suonando assordante alle orecchie di Stan e, molto
probabilmente, anche a quelle di tutti i poliziotti schierati all’imboccatura
di Neighbour Street, pronti a reggere l’assalto di mezzo centinaio di uomini che
non avrebbero mai potuto vedere in viso.
Troppo
avventato, vicesceriffo Krain, pensò Stan con un pizzico di rammarico, e in
quell’attimo l’aria di Main Street fu violentemente espugnata da un urlo
sintetizzato da un megafono che molto brevemente proclamò: «Guerra!»
La polizia rimase immobile, schierata,
mentre i ribelli coi volti coperti si ricompattavano rapidamente e si muovevano
come un unico essere mostruoso pronto ad avventarsi sulla preda. Iniziarono a
fioccare i colpi, e gli spari occuparono il silenzio e lo cacciarono via
bruscamente, senza prendersi nemmeno la briga di aspettare che fosse uscito
dalla porta prima di incominciare a far baldoria.
Robert, accanto a Stan, si premette le
mani sulle orecchie per attutire il rumore di quei botti rintronanti. Un uomo
con indosso una maschera di gomma a forma di teschio si inginocchiò accanto
all’angolo tra Main Street e Neighbour Street, prese la mira con il suo fucile
a pompa caricato a dovere e scagliò un nugolo di piombo contro gli scudi della
prima linea della polizia di Eglon. Un paio di poliziotti arretrarono, rompendo
la riga, e il vicesceriffo Jason Krain tentò di riempire il buco spostandosi
sulla destra.
Alcune raffiche di mitragliatrice
sovrastarono i rimbombi degli altri spari. Un poliziotto centrò al collo uno
dei ribelli, macchiando di sangue la sua bandana, e subito mirò contro un altro
ma lo colpì di striscio alla spalla. Una sventagliata di mitraglietta gli fece
schizzare il sangue dal petto su tutta la faccia. Crollò a terra e il
poliziotto dietro di lui prese il suo posto per impedire che la prima linea si
disfacesse del tutto.
Ma ormai era già troppo tardi.
Un poliziotto cercò di lanciare un
fumogeno verso il gruppo di assalitori, ma la mano gli fu tranciata via dal
braccio con un colpo preciso di carabina. Un altro scagliò il proprio
manganello giusto sulla fronte di un ragazzo in bandana e occhiali da sole. Le
lenti nere si spezzarono e il giovane strillò da dietro la bandana, ma il
responsabile fu presto soffocato da una mazza da baseball che gli cozzò contro
il pomo d’Adamo, facendolo barcollare per qualche istante prima che un colpo di
pistola in piena fronte mettesse fine alle sue sofferenze.
L’incrocio tra Neighbour Street e Main
Street si stava lentamente ricoprendo di sangue. Stan udì l’uomo con la
maschera blu, ancora in cima al carro armato, ordinare a uno dei suoi di correre
a chiamare delle ambulanze.
Il vicesceriffo Jason Krain fece
finire a terra un aggressore con uno sparo della sua doppietta in pieno petto,
quindi maciullò la testa a un altro. Stava per affondare l’impugnatura del
fucile tra la spalla e il collo di un terzo uomo quando un proiettile gli
raggiunse la tempia e la trapanò, producendo un unico e taciturno fiotto
cremisi che imbrattò lo scudo di un poliziotto che combatteva al suo fianco.
Restavano circa una mezza dozzina di
agenti, quando le ambulanze arrivarono a sirene spiegate, risalendo Neighbour
Street, e si trovarono di fronte un drappello di uomini col volto coperto che assalivano
alle spalle i rimasugli della polizia di Eglon. La carneficina andò avanti
ancora per qualche minuto, tra spari, urla disumane e suppliche agghiaccianti.
Quando i primi raggi dell’alba misero
in fuga le ultime tenebre notturne, del gruppo di poliziotti capitanati dal
vicesceriffo Jason Krain non restavano che sangue, ossa e resti sbriciolati.
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