A volte aveva come l’impressione che Trenitalia ce l’avesse con lui. Con lui
e con la scelta che aveva preso, solo perché aveva affrontato quello stupido
test d’ammissione a Medicina ed era passato. Ogni volta che posava gli occhi su
quegli stramaledetti tabelloni digitali non faceva altro che leggere RITARDO, o peggio ancora CANCELLATO. Come se gli studenti del primo anno
di Medicina e Chirurgia non meritassero di arrivare in orario alle lezioni.
Ad ogni modo, quel giorno era entrato
in aula giusto in tempo, anche se senza fiato. I posti migliori erano
ovviamente tutti occupati. Aveva imprecato e con calma si era messo a scalare
la collina alla ricerca di una sedia libera.
Penultima fila. Fantastico. L’ideale
per chi voleva seguire la lezione, come quello alla sua destra che giocava con
l’iPad mentre il professore di Chimica Organica cominciava a spiegare le forme
di risonanza degli alcani.
Leonardo sospirò in silenzio e cercò
di buttare giù un appunto veloce prima che la diapositiva proiettata venisse
sostituita dalla successiva. Gli mancavano un paio di elementi quando
l’immagine cambiò, così fu costretto a cerchiare il punto in cui li avrebbe
dovuti inserire nel pomeriggio, riguardando le slide a casa.
Un coro di clacson si levò dalla
strada. Qualche grana all’attraversamento pedonale in fondo alla via,
probabilmente.
Abitare a dieci chilometri da Vicenza
e frequentare l’Università di Padova aveva i suoi svantaggi. Ci voleva quasi
mezz’ora di treno, in media, per spostarsi da Vicenza a Padova, e se per
raggiungere la stazione di Vicenza occorreva usare l’autobus allora era
necessario aggiungere quasi un’altra ora intera ai calcoli. Ne venivano fuori
un’ora e mezza di andata e altrettanto di ritorno. Per due ore di lezione, era
già tanto se ne bastavano cinque fuori casa.
Udì le sirene di un’ambulanza passare
poco distanti.
Posò la penna sul quaderno aperto e
guardò fuori. C’era qualche nuvola, ma il cielo era tutto sommato sereno. Il
sole manteneva l’aria piuttosto calda, sebbene fosse già passata la metà di ottobre.
La natura si accartocciava su se stessa, eppure l’estate non sembrava ancora
essersi sciolta del tutto. Ci voleva un po’ di freddo per consumarla fino in
fondo, ma finché durava il bel tempo era meglio così. Dopotutto, mancavano
soltanto la pioggia e la neve a peggiorare la situazione con i treni…
Altri clacson, subito zittiti dalle
sirene di un’altra ambulanza. Là fuori doveva essere una mattinata
particolarmente movimentata, valutò.
Le file più in basso erano
completamente immerse nella lezione. Tutti prendevano diligentemente appunti,
senza lasciarsi sfuggire una parola. C’erano libri che passavano
silenziosamente di mano in mano, occhiate veloci per vedere se il compagno
avesse trascritto la formula del composto sfuggito, mormorii di comprensione
che saltellavano lungo le gradinate.
Si sentiva terribilmente fuori posto.
E non era la prima volta che provava questa spiacevole sensazione, purtroppo.
Né probabilmente sarebbe stata l’ultima.
Il fragore di un elicottero
insolitamente basso annullò per qualche istante la voce del professore. Alcune
finestre erano aperte, sicché il rumore venne amplificato dall’ampiezza dell’aula.
Si prospettava una giornata lunga e
noiosa. Due ore accademiche di Chimica Organica, poi altre due di Fisica
Medica, un’ora di pausa pranzo e Scienze Umane il pomeriggio. Bell’orario
quello del primo semestre, specialmente il mercoledì.
Almeno c’era la sua Valentina, a casa,
ad aspettarlo. Era l’unica consolazione alla quale aggrapparsi durante quelle
grigie ore di lezione. Sapere che poi sarebbe andato a trovarla, prima che
fosse ora di andare a dormire. A bere un caffè con lei e a chiacchierare un po’
della giornata.
Per lei era l’ultimo anno di liceo,
ancora a Vicenza, prima di imbarcarsi nella grande avventura dell’estate di
studio in preparazione ai test d’ammissione. L’anno della maturità, quel
fatidico esame conclusivo che rappresentava l’ennesima dimostrazione di come
l’Italia fosse fondata sull’intoccabile principio dell’antimeritocrazia.
Prima o poi l’università avrebbe
cominciato a piacergli. Oddio, magari non proprio a piacergli, ma se non altro
avrebbe accettato l’idea di doverla affrontare a viso aperto. Per il momento
gli andava bene non esporsi troppo, aspettare che le giornate si decomponessero
sotto i suoi occhi e sperare che il tempo subisse una brusca quanto improbabile
accelerata.
Ancora un’altra ambulanza. Più vicina,
stavolta. Forse era la stessa di prima che tornava indietro.
Consultò l’orologio e si rese conto
che un’ora abbondante era già andata.
Decise di rimettersi a prendere
qualche appunto. Stava ricopiando accuratamente la formula di un composto dalla
slide proiettata sulla parete di fronte quando si accorse che di punto in
bianco il professore aveva smesso di parlare.
Sollevò la testa e osservò con
diffidenza la porta dell’aula, che all’improvviso si era spalancata. Stava
entrando un uomo, registrò con scarso interesse. Il professore pareva seccato.
Non era la prima volta, quella settimana, che qualcuno rubava del tempo alla
sua lezione, e la cosa non sembrava affatto fargli piacere.
«Sì?» domandò il professore di Chimica
Organica con espressione corrucciata, squadrando malamente il nuovo arrivato.
Ma l’uomo che aveva appena varcato la
soglia non rispose. Era come ipnotizzato. Avanzava con fare incerto,
ciondolante, ed emetteva un ringhio basso e sinistro. Il ringhio di un animale
braccato. Anzi no, non era esattamente così. Pareva piuttosto il ringhio di un
animale in procinto di attaccare.
Un altro uomo superò la porta sulla
scia del primo. Ne seguì un terzo, poi un quarto, tutti nelle stesse
condizioni, il passo instabile, gli occhi vitrei… Erano pallidi come cadaveri.
Uno di loro, notò Leonardo con orrore crescente, sembrava avesse del sangue
sulla faccia.
Alcune persone iniziarono a urlare e
si alzarono in piedi in fretta e furia, spingendo i compagni verso l’esterno
per uscire dalle file. Il professore, un gesso in una mano e il telecomando del
proiettore nell’altra, rimase immobile finché il primo uomo entrato dalla porta
non gli fu addosso.
Accadde tutto tremendamente in fretta.
L’uomo aggredì il professore, mordendogli la spalla e facendo riemergere il
viso impiastricciato di sangue gocciolante. Il professore gridava a pieni
polmoni, e continuò a farlo fino al momento in cui un secondo uomo gli si gettò
sopra e gli affondò letteralmente i denti nella faccia.
Altri uomini e donne entravano dalla
porta come un torrente in piena, spingendosi l’un l’altro per farsi spazio e
conquistare la manciata di metri che li separava dalle prime file di studenti.
Tra questi alcuni si guardavano attorno confusi, increduli, ancora seduti e
incapaci di muoversi. Ma i primi ad essere presi furono quelli che tentarono
subito di scappare.
Leonardo, alzatosi in piedi di scatto,
realizzò che c’era già sangue sparso ovunque. Si sentiva il cuore martellare
nel petto, nelle tempie, nelle gambe, come su un’incudine per forgiare una lama
invincibile. Una sensazione fredda gli vibrò nelle vene come un brivido di gelo
iniettato nel sangue.
Altri esseri sciamavano dentro
attraverso la porta, parevano non avere mai fine. E lui si trovava in cima
all’aula, circondato dai compagni di corso e dal loro panico, dalla paura che
li faceva correre qua e là come topi in trappola. Topi da laboratorio con una
bella croce nera già disegnata col pennarello indelebile in mezzo agli occhi.
Si rese conto che occorreva ragionare
in fretta. Attorno a lui c’era solo un viavai di gente che urlava e si
spintonava, così si spostò ancora più in su per avere un quadro completo della
situazione.
Vide un gruppetto di studenti
scaraventarsi sulle altre due porte dell’aula e spalancarle. Scorse le ombre
che li attendevano là fuori, accalcate addosso alle aperture, pronte ad
accoglierli a bocche aperte. Sentì le loro ossa spezzarsi, il loro sangue
gorgogliare, le urla sgretolarsi nelle loro gole contratte.
Era un massacro.
Una ragazza e un ragazzo gli si
fermarono di fianco. Lui sembrava alienato. Lei era più calma, anche se si
vedeva benissimo quanto faticasse a mantenere il controllo. Non riconobbe i
loro volti, né tantomeno perse tempo a memorizzarli. Erano gli unici in tutta
l’aula, oltre lui, a non aver perso totalmente la testa.
Forse loro tre assieme potevano ancora
avere qualche speranza.
Nessun commento:
Posta un commento