I residui dell’incubo che aveva
avuto un paio di stazioni prima erano stati lavati via con cura dai suoi pensieri,
come pezzettini di sapone sul bordo del lavandino con una passata di spugna.
Adesso si sentiva meglio, più sereno, ed era riuscito a rimettersi a leggere in
compagnia del silenzio di Francesca.
Il tipico odore di bruciato dei
freni firmati Trenitalia invase lo
scompartimento e le loro narici quasi con gentilezza, insinuandosi leggero.
Roberto ascoltò il fischio delle ruote che slittavano sui binari cercando di
accumulare più attrito possibile. Tenne il segno con un dito e abbassò il
libro, spostando lo sguardo all’esterno.
Si era perso il nome della
stazione. Ma era un posticino piccolo, con due coppie di binari che
transitavano accanto alla piattaforma di discesa in cemento armato. Niente
copertura per i passeggeri che fossero scesi, ma perlomeno aveva smesso di
piovere. Fuori pareva non ci fosse nessuno ad aspettare il treno. Meglio così, rifletté. Almeno fino alla prossima fermata non
dovremo condividere lo scompartimento con nessun altro. La stazione vera e
propria, un modesto edificio squadrato con un grosso orologio analogico sulla
facciata, sembrava deserta. La porta era aperta, ma all’interno non si riusciva
a cogliere alcun movimento.
Lanciò un’occhiata veloce a
Francesca e vide che era ancora immersa nella lettura. E beata lei che riusciva
davvero a concentrarsi sulle pagine, pensò. Lui non riusciva a finire un
capitolo senza pensare ai tre giorni che sarebbero venuti. Alle cose di cui
avrebbero dovuto parlare. Alle discussioni che sarebbero sorte, e alle lacrime
che avrebbero versato in silenzio, nascondendosi per non farsi scoprire intenti
ad asciugarle.
Avrebbe avuto voglia di chiederle
se stava bene, ma non osò interromperla. Riaprì il libro e ci si tuffò dentro
un’altra volta, sospirando fra sé.
Ci saranno altre gallerie, dopo che il treno sarà ripartito.
Rimase con lo sguardo fisso sulla
parola “mentre”, a rileggerla e rileggerla, ma non riusciva ad afferrarne il
significato. Il pensiero delle gallerie era emerso per conto proprio, senza
essere chiamato in causa, e aveva fatto perdere l’equilibrio al flusso regolare
dei suoi ragionamenti.
Mentre, mentre, mentre, mentre… Che cosa significava quella parola?
L’aveva letta un milione di volte, eppure l’unica cosa che riusciva ad associarle
era l’immagine di uno spettro bianco appena al di là del finestrino, che
fluttuava nell’oscurità densa di una galleria.
Ma era stato solo un incubo, no?
E sapeva che cosa voleva dire la parola “mentre”. Lo sapeva di nuovo, il suo
significato aveva ripreso consistenza.
Ci saranno altre gallerie. Altro
buio, altro freddo, ancora paura. Ci
saranno le gallerie.
E si rese conto che erano fermi
già da almeno cinque minuti.
«Che succede?» farfugliò
Francesca con aria irritata, guardando verso la porta dello scompartimento che
dava sul corridoio del vagone. Un paio di persone passarono chiacchierando
davanti al vetro. Un altro andava nel senso opposto, camminando a passo
spedito. Sembrava preoccupato, ma non ci fu modo di accertarsene perché passò
oltre troppo in fretta.
«Non lo so.» Si sentiva teso. Aveva
una brutta sensazione. Un po’ di quel sentore era dovuto all’incubo tornato a
galla, ma il resto no. Il resto veniva da un’area oscura della sua mente, che
non riusciva a riconoscere appieno come propria.
Guardò fuori. La stazione era
ancora deserta, con il cielo plumbeo che la sovrastava impassibile. Sembrava
che tutto fosse stato abbandonato. Come se le persone che ci lavoravano fossero
scappate dimenticando la porta aperta.
Ma era solo una sensazione, no?
«Perché non ripartiamo?» chiese
Francesca consultando l’ora sul cellulare. «Il treno è fermo già da quasi
quindici minuti. E qui non c’è campo, accidenti…»
Roberto guardò distrattamente lo
schermo del proprio telefonino e vide che non c’erano tacche di segnale. Zero
totale. Ma non era un problema, perché presto sarebbero ripartiti. Giusto?
«Spero non ci siano guasti»
mormorò irrequieto, osservando il profilo immobile della stazione ancora una
volta. Il grosso orologio sulla facciata era rimasto indietro. Di circa una
ventina di minuti, pareva. Ma non era niente di cui preoccuparsi.
Se ci fosse stato qualche guasto
al treno, il che non era da escludere, il loro arrivo a Firenze sarebbe stato
ritardato di parecchie ore. Il che significava meno tempo per loro due, e
questo non gli faceva decisamente piacere. Ma non era ancora il momento di
disperare. Magari il treno sarebbe ripartito di lì a qualche minuto, e la sua
brutta sensazione si sarebbe dissolta o sarebbe rimasta a volteggiare nell’aria
fredda di quella stazione desolata.
«Siamo fermi da un sacco. Ora
vado a vedere se qualcuno sa qualcosa» stabilì Francesca, ma Roberto le fece
cenno di no con la testa e le ordinò con un gesto di risedersi. «Vado io» la
rassicurò, e uscì dallo scompartimento sul corridoio del vagone.
In fondo c’era un uomo di spalle.
Sembrava attempato. Vestito piuttosto bene.
«Mi scusi, per caso sa se stiamo
per ripartire?» domandò, ma il vecchio non si voltò.
Roberto si schiarì la voce.
«Scusi, mi sa dire perché siamo fermi?»
L’uomo si girò a guardarlo con un
sorriso incredibilmente ampio, e lui trasalì. Era il vecchio che nel suo incubo
aveva infilato la testa nel loro scompartimento, appena prima della galleria in
cui erano comparse quelle ombre nel buio.
«Davvero non saprei» rispose in
tono gioioso, e poi lo salutò con un cenno del capo e se ne andò.
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