La luce spettrale emessa dalla
lampada al neon nello scompartimento faceva venire freddo. Si diffondeva come
una cascata di corpuscoli biancastri, quasi che riversasse su di loro una
specie di pulviscolo brillante che svolazzava sopra i sedili e vi si depositava
in una pellicola oleosa.
Roberto guardò fuori dal vetro e
incontrò l’oscurità densa e impenetrabile che stava dall’altra parte. Era come
viaggiare in un piccolo sottomarino all’interno di un pozzo di petrolio e avere
a disposizione un oblò per guardare fuori. Si vedeva riflesso nel vetro,
circondato da quel lugubre alone di luce cerulea. E vedeva anche Francesca, che
osservava l’esterno proprio come lui e si specchiava nel buio.
La porta dello scomparto si
spalancò di colpo e il volto di un uomo sulla settantina fece capolino
all’interno, sbirciando.
«Oh, scusate» bofonchiò il nuovo
arrivato, salutando con un ampio sorriso a cui mancava una buona metà dei denti
e richiudendo la porta. Scomparve, divorato dal corridoio del vagone, e Roberto
e Francesca poterono tornare a concentrarsi sulle proprie immagini che
comparivano nel vetro come spettri lattiginosi.
«Quanto dura questa galleria?»
domandò lei finalmente, sbuffando e allungando le braccia per stiracchiarsi.
«Troppo» borbottò lui,
sbadigliando e scuotendo la testa come per tenersi sveglio.
Fuori c’erano solo le tenebre,
tenebre che correvano e scivolavano addosso al vetro, lungo le pareti esterne
del treno, aderendovi come una melma appiccicosa e slittando via. Roberto
immaginò l’oscurità come uno strato di gelatina nera e la vide ricadere sui
binari dopo il passaggio del treno, afflosciarsi sul pavimento roccioso della
galleria e colare dalle pareti, gocciolando dal soffitto. Quell’immagine sì che
era in grado di dare l’idea di un buio denso,
accidenti!
«L’hai visto?» bisbigliò tutt’a
un tratto Francesca, e la sua voce si fece talmente flebile che a Roberto si
accapponò la pelle.
«Visto cosa?» mormorò, seguendo
lo sguardo della giovane.
Francesca fissava di nuovo il
vetro. E l’oscurità dannatamente densa al di là del vetro. Roberto si concentrò
sul riflesso sbiadito della sua ragazza e notò i suoi occhi strabuzzati,
tremolanti… in una parola, spaventati.
«Cosa…» esordì, ma la voce gli
annegò in gola. Stavolta l’aveva visto anche lui.
Francesca indietreggiò, la sua
faccia fu deformata da una smorfia d’orrore.
«L’hai visto?» pigolò di nuovo, e Roberto non ebbe la forza di
risponderle.
C’era qualcosa là fuori,
nell’oscurità della galleria. Qualcosa immerso nella gelatina nera. Una sagoma,
un’ombra candida, che si era materializzata per un istante appena oltre il
vetro e poi era stata riassorbita dalla densità omogenea del buio.
«Sì» barbugliò Roberto,
esaminando attentamente il finestrino alla ricerca di qualche altra traccia.
L’immagine ricomparve, come
l’ologramma slavato di un fantasma sogghignante, e Francesca si lasciò sfuggire
un gridolino di terrore prima di tapparsi la bocca con le mani. Roberto si
voltò di scatto a controllare che non fosse il riflesso di qualche persona
sulla porta dello scompartimento, ma non vide niente. Tornò a guardare il vetro
e la nuvola di fumo bianco che li seguiva si era dissolta ancora.
«Ho paura» piagnucolò Francesca,
alzandosi e raggiungendolo per farsi stringere da lui.
«Tranquilla, va tutto bene. Non è
niente» cercò di tranquillizzarla Roberto, ma la sua voce tradiva la sua
insicurezza. In realtà non sapeva davvero che cosa fosse, e la cosa lo
preoccupava. Sperava solo che il treno uscisse in fretta da quell’orrenda
galleria, perché davvero non ce la faceva più a sopportare quelle tenebre e
quella tensione e aveva il cuore che gli martellava il petto e le tempie con
l’insistenza di un fabbro intento a forgiare la lama più resistente del mondo.
La sua preghiera inespressa fu
esaudita, il treno bucò l’ultimo velo di oscurità all’uscita della lunghissima
galleria e forò l’aria esterna con incredibile vigore. La luce del giorno
inondò lo scompartimento e annullò quella biancastra e appiccicaticcia della
lampada al neon.
Roberto tirò un sospiro di
sollievo e accarezzò la schiena a Francesca. Sapeva che con la luce naturale
tutte le cose viste al buio riprendevano a poco a poco ad essere razionali,
così aspettò che accadesse. Ma la paura non se ne andò del tutto: sfumò
soltanto, come un sogno quando la sveglia suona e si aprono gli occhi all’alba.
Come quel sogno rimane appena sotto la superficie lucida della coscienza,
pronto a riemergere al primo richiamo, allo stesso modo la paura rimase in
agguato nella mente di Roberto, pronta a balzare fuori nel momento in cui ce ne
fosse stato bisogno.
Il battito del suo cuore scandiva
i rintocchi di ogni secondo d’orologio, tuonando possente nella sua testa e
riecheggiando tra i suoi pensieri.
È stato un effetto ottico. Solo
un effetto ottico, niente di più. Stiamo
andando a Firenze per risolvere alcune questioni, e va ancora tutto bene.
Per qualche assurdo motivo,
cercare di rassicurare se stessi funzionava sempre troppo poco.
Sogguardò il tascabile lasciato
sul sedile in disparte, chiuso, senza segnalibro perché era abituato a tenere a
mente la pagina in cui interrompeva la lettura.
La luce del sole morì e il treno
affondò di nuovo nel buio.
«Un’altra galleria?» singhiozzò
Francesca, aggrappandosi a lui e stringendolo.
«Passerà presto» promise,
sperando in cuor suo che fosse vero. Ma
che cosa sta succedendo? Cosa ci succede? Sto sognando, o immagino tutto
quanto?
Non era possibile, perché si
sentiva perfettamente lucido. Ricordava l’istante in cui la sveglia era suonata
costringendolo ad aprire gli occhi, che cosa aveva mangiato a colazione, quando
erano saliti sul treno a Vicenza e quando erano scesi a Padova, quando erano
montati sul secondo treno…
La luce al neon se ne andò. Non
lampeggiò, non traballò, non si attenuò: semplicemente affogò nel buio, e
adesso anche loro correvano sui binari, assieme al treno, in mezzo a tutta
quella gelatina corposa che rallentava e dilatava all’infinito la loro fuga
dalle tenebre.
Lo spettro bianco scivolò ancora
accanto a loro, sfiorando il vetro, e superò il treno.
Roberto chiuse gli occhi e posò
dolcemente una mano su quelli di Francesca, per coprirli. Lei lo lasciò fare.
Il buio delle loro palpebre sembrava meno profondo di quello all’esterno. Più
sicuro e confortevole. Un tepore li avvolse.
E Roberto si svegliò e riaprì gli
occhi, osservando Francesca che leggeva tranquilla sul sedile di fronte e la
pianura che ancora sfilava all’esterno, sotto una pioggerellina sottile, al di
là del vetro del treno in corsa.
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