Le raffiche di vento che
sferzavano i vagoni erano violente, tanto che le si poteva quasi percepire
dall’interno. Gocce di pioggia si stampavano come monetine d’argento sui vetri
dei finestrini, per poi scivolare via a causa della velocità. Nonostante tutto,
si stava bene là dentro. Se non altro, era abbastanza caldo e asciutto da non
destare alcuna invidia nei riguardi dei passanti che lottavano per non farsi strappare
via l’ombrello dalle mani.
Era bello osservare la pianura
che si srotolava pigramente appena al di là del vetro, come all’interno dello
schermo di un computer, in un video fin troppo realistico. Il cielo era
plumbeo, con qualche ematoma violaceo qua e là. Sembrava che un gigante avesse
deciso di prenderlo a pugni.
E poi c’erano i paesi in
lontananza. I tetti delle abitazioni, i profili dei caseggiati, le ombre dei
campanili che troneggiavano su tutto il resto. Ogni cosa compariva e se ne
andava con la stessa fretta, mentre il treno passava oltre. Mentre loro passavano oltre, lasciando dietro
di sé un mondo pullulante di vite e di problemi che continuavano a intrecciarsi
nonostante tutto.
Erano pensieri tristi. Troppo
profondi per quel misero vagone di Trenitalia.
E non gli permettevano di concentrarsi sul libro che stava leggendo, così lo
richiuse, tenendo il segno con un dito tra le pagine, e tornò a guardare fuori.
Francesca gli lanciò un’occhiata
fugace. Lui la registrò con la coda dell’occhio e finse di non accorgersene. La
ragazza riabbassò lo sguardo sul proprio tascabile e non parlò.
Ma non c’era silenzio, in quel
treno. Dal resto del vagone giungevano chiacchiericci ovattati, che si facevano
sovrastare soltanto dall’instancabile sferragliare del convoglio. I binari si
snodavano nella campagna e parevano interminabili, come un giorno di sei mesi
ai poli in cui il sole non tramonta mai. Era difficile accettare tutto questo.
Non tanto per il treno, né per i rumori o per la lunghezza del viaggio. Ma più
che altro perché Roberto conosceva il
motivo di quella fuga di tre giorni a Firenze, e sapeva anche che le
settantadue ore successive si sarebbero rivelate cruciali per entrambi. Per la
loro storia, per il loro rapporto. E anche per il loro futuro.
«A cosa stai pensando?» lo
riscosse la voce di Francesca, riportandolo in quel vagone con uno strattone
deciso. Lo stava osservando. Probabilmente lo fissava già da un po’. Aveva
un’espressione malinconica in viso. Un’espressione fragile, come un calice di cristallo sul bordo estremo di un tavolo
inclinato. L’equilibrio si stava smorzando, la base del calice non poggiava più
su un piano sicuro. Scivolava. Scivolava via, tra le dita, a discapito di
qualsiasi tentativo di salvataggio.
Roberto si chiese se fossero
davvero queste le emozioni che provava Francesca. La sensazione di essere
perduta. La preoccupazione di non poter essere salvata. Cercò di sorriderle, ma
stavolta non ne fu capace. Si pentì di averci provato, ma lei parve apprezzare
lo sforzo.
«Penso a noi» confessò,
sentendosi improvvisamente meglio dopo averlo detto. Era di questo che aveva
bisogno, in fondo. Di parlare con lei. Ma non era ancora il momento.
Lei guardò fuori. Stava smettendo
di piovere. Le nuvole scure che si erano addensate sopra di loro sembravano
aver deciso di accordarsi per una tregua. Sarebbe stato un po’ più fresco,
fuori, considerò Roberto, ma non così tanto da scoraggiare i fan del gelato.
«Abbiamo tempo per parlarne. Ce
lo siamo presi apposta» gli ricordò la ragazza, senza riportare gli occhi su di
lui.
Roberto si limitò ad annuire in
silenzio, certo che lei lo avrebbe visto. Non c’era bisogno di dire altro, per
il momento. Gli bastava farle sapere che non aveva intenzione di sottovalutare
la situazione, perché a lei ci teneva. Francesca dava l’impressione di averlo
capito, ma di non essere ancora del tutto pronta ad accettare il suo aiuto.
Quei tre giorni a Firenze
sarebbero stati difficili. Ma adesso sentiva che l’avrebbero risolta, in un
modo o nell’altro. Fuori aveva smesso di piovere, ed era un buon segno.
Il treno rallentò e si fermò in
una stazione. Roberto ne approfittò per riaprire il libro e rimettersi a
leggere, e dopo meno di cinque minuti ripartirono, acquistando di nuovo
velocità e lasciandosi alle spalle l’ennesimo paese dal nome improbabile.
Era quasi riuscito a rientrare
nel vivo della storia quando la luce esterna di colpo scomparve, inghiottita in
un sol boccone dalle tenebre di un traforo.
Posò il libro sospirando
sconsolato e vide che Francesca aveva richiuso un’altra volta il proprio. La
luce biancastra installata sul soffitto dello scompartimento era troppo debole
per permettere di leggere, ma abbastanza decisa da non cancellare le loro
ombre. Si potevano guardare negli occhi, ma allo stesso tempo non riuscivano a
distinguere completamente i lineamenti l’uno dell’altra.
Roberto aprì la bocca per parlare
e la richiuse.
Il treno sbucò fuori dalla
galleria e la luce naturale tornò a invadere lo scompartimento. La pianura
ricomparve là fuori con i suoi campi, le sue fattorie e i suoi mucchietti di
abitazioni e condomini.
E poi il treno si gettò nelle
fauci di una seconda galleria come un pesce suicida nella bocca di uno squalo,
e fu tutto buio un’altra volta.
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