Aquilos, figlio di una delle più potenti famiglia di Sparta, osservava l’orizzonte dipinto dei colori caldi del tramonto.
Il ventiduenne dal fisico scolpito come nel marmo si trovava in un piccolo avamposto greco, presidiato da un centinaio di uomini con l’incarico di controllare i movimenti dell’esercito persiano lasciato a svernare in Tessaglia.
Dopo la sconfitta che il Gran Re Serse aveva subito, ci si poteva aspettare di tutto dai Persiani, anche un attacco a tradimento all’insaputa del Gran Re stesso. Si sapeva oramai che alcuni suoi generali iniziavano a dimostrarsi riluttanti nell’obbedire ai suoi ordini. Sebbene gli fossero attribuite origini divine, qualcuno incominciava a poco a poco a dubitare del suo buonsenso.
Il messaggero arrivò di corsa, con il fiatone.
«Comandante Aquilos, arrivano. Immortali, alcune centinaia. In poche ore saranno qui» disse frettolosamente.
Aquilos rimase un momento in silenzio a riflettere. Quindi, si rivolse alle sue truppe con voce tonante: «Uomini, preparatevi. Il tempo è giunto: la bella morte che tutti attendevamo è prossima, quindi siate impeccabili, perché gli dèi vi trovino fantastici stasera quando ceneremo con loro nell’Ade!» Dopodiché, entrò nella propria tenda.
Dopo essersi pettinato a lungo e aver tracciato la tipica scriminatura degli opliti, Aquilos lucidò le proprie armi e l’armatura; infine si cosparse il corpo d’olio d’oliva per renderlo splendente e spaventoso agli occhi dei nemici e indossò il manto cremisi dei mitici guerrieri spartani.
Uscì dalla tenda, pronto, con in mano la lancia e lo scudo oplitico, quest’ultimo tanto pesante quanto impenetrabile.
La vallata era ricoperta da una moltitudine di figure dai mantelli neri: gli Immortali, la guardia personale del Gran Re, più bestie che uomini. In loro di umano non era rimasto più nulla: erano solo ombre che si stagliavano nel nitido orizzonte.
Aquilos provò una grande eccitazione nel vederli e si chiese quale di loro sarebbe stato in grado di ferirlo per primo e quale di sferrargli il colpo di grazia.
Il sole, nascondendosi dietro i profili scuri delle montagne, stava stillando le ultime gocce di sangue del vespro, simili a quelle che di lì a poco sarebbero state versate in quantità ben più abbondanti sul tappeto erboso di quella vallata.
La falange oplitica spartana reggeva i continui assalti delle fila persiane.
La luna piena illuminava il campo di battaglia disseminato di morti e il sangue luccicava e pareva nero sotto il bagliore lunare.
Aquilos aveva già abbattuto diverse decine di nemici, quando alla sua destra un compagno cedette e fu sopraffatto. Il sangue dell’amico schizzò sul volto di Aquilos.
La falange ora si stava sgretolando.
Gli Spartani sfoderarono le spade e finalmente presero il via i combattimenti corpo a corpo. Le lame baluginavano nell’oscurità della notte, riflettendo le luci opache e lontane delle stelle.
Lentamente, uno ad uno i guerrieri spartani caddero sconfitti dalla netta superiorità numerica degli avversari. Solo Aquilos, circondato, riusciva ancora ad opporre una strenua resistenza. Menava colpi a destra e a manca, e ogni fendente centrava il bersaglio e ritornava indietro più insanguinato di prima.
Ma le ombre si allungarono infine anche su di lui, fino a fare breccia nelle sue difese.
Come gelide sferzate, l’eroe spartano sentì le lame nemiche ferirlo alle braccia e alle gambe, e poi una gli trapassò il petto, squarciandolo.
Lo scudo precipitò nelle tenebre, la spada rovinò a terra. Le palpebre, pesanti, si chiusero, i sensi svanirono e Aquilos, l’eroe spartano destinato ad essere dimenticato, si abbandonò alla sua tanto sospirata “bella morte” gloriosa, disteso in una pozza di sangue nero luccicante che accolse il suo corpo e lo trasportò nell’abisso alla stregua di un’imbarcazione stregata.
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