«Bob, che ne dici di darmi una mano a
cambiare il pannolino a tuo figlio?»
lo richiamò all’ordine Dorothy scoccandogli un’occhiataccia di fuoco e
indicandogli il neonato che si dibatteva sul fasciatoio, per metà avvolto da un
asciugamano.
Bob McKinzey sospirò e si pizzicò la punta del naso, intanto che
raggiungeva sua moglie Dorothy, le posava un bacio sulla guancia scostandole i
bei capelli biondi da davanti e teneva fermo il piccolo James intenzionato a
rifiutare caparbiamente ogni cura.
«Molto meglio» approvò Dorothy, e
adesso che finalmente non correva più il rischio che il bimbo le rompesse il
naso con una delle sue violente pedate finì di sciacquarlo, gli spalmò la crema
e il talco e gli infilò un nuovo pannolino pulito.
«Ecco fatto, tutto bello e profumato»
commentò Bob facendo il solletico al pancino del figlio e baciandolo sulla
fronte. Dorothy rimase a fissarlo con le mani sui fianchi e ogni traccia di
ostilità scomparve dal suo volto, sul quale affiorò invece un mezzo sorriso.
«Sei dolce, lo sai?» disse dopo un po’
la donna. Bob si volse a guardarla e vide che gli stava sorridendo con quei
suoi bellissimi occhi azzurri e quelle sue labbra sottili e ben delineate. Le
si avvicinò con espressione sognante e di nuovo le scostò i capelli dal viso,
spostandoli con un dito e portandoglieli dietro l’orecchio, dove rimasero fermi
dopo che Bob ebbe cominciato a farle scorrere i polpastrelli lungo la guancia,
giù fino al mento, sulla pelle liscia e morbida del collo (e a questo punto
Dorothy iniziò ad avere i brividi), scendendo ancora in direzione del seno,
percorrendo le sue curve e i suoi fianchi, raggiungendo l’altezza della vita e
intrufolandosi furtivamente sotto la maglietta, risalendo sulla superficie
levigata della pancia, sfiorando il bordo di pizzo del reggiseno, indugiando un
istante prima di cercare di infilarsi anche sotto quest’ultimo.
Con l’altro braccio la tirò a sé e la
strinse, e non distolse gli occhi dai suoi finché le loro labbra non si furono
incontrate, sperimentate e poi, finalmente, saldate assieme.
Tenendole una mano premuta contro il
seno, a contatto con il calore della sua pelle soffice, e l’altra accostata al
sedere, la spinse delicatamente in là fino a farle appoggiare la schiena al
muro. Le lambì le labbra con la punta della lingua, inumidendole. Lei le aprì
appena, lasciandole socchiuse, e aspettò di sentirlo invadere la sua bocca. Le
loro lingue fecero conoscenza e si abbracciarono teneramente, sfidandosi e
inseguendosi, cercandosi e trovandosi, finché non furono sazie.
«C’è il piccolo di là…» sussurrò
Dorothy squadrandolo con aria maliziosa.
«Non ci sentirà» replicò fiducioso
Bob. La prese per mano e la accompagnò in direzione delle scale, quando
all’improvviso sentì bussare alla porta.
«Aspettavi qualcuno?» domandò Dorothy,
mentre Bob le lasciava la mano e si avviava con seccata circospezione verso
l’ingresso dell’abitazione.
«No.» Posò la mano sul pomello della
porta e aprì, spazientito. Dorothy lo guardava dal primo gradino, e non si rese
conto di nulla almeno per un po’, perché non ci fu alcun rumore. Avevano adoperato
un silenziatore, e solo quando vide Bob stramazzare sul pavimento con una
macchia di sangue scarlatto che si allargava sulla camicia, inzuppando il
tessuto candido, realizzò in parte che cos’era accaduto.
Certo che era davvero curioso,
avrebbero considerato alcuni poliziotti di Eglon quella sera dopo essere
accorsi sul luogo del delitto, che alla vigilia dell’anniversario in memoria
dell’undici settembre un agente dell’FBI armato
di tutto punto venisse ammazzato a sangue freddo in casa propria…
LE
ANIME DI EGLON
PRIMA
STAGIONE
EPISODIO
3
IL
TERMINAL AEROPORTUALE
Peter Norton – questo era il nome
stampato sulla sua carta d’identità – si era coperto il volto con una maschera
di plastica color verde. Sulla maschera c’erano disegnate una fascia rossa
attorno agli occhi, l’impronta bianca di una mano scheletrica su tutto il lato
sinistro della faccia e l’ombra scura di un albero spoglio dall’altra parte,
contornata da un leggero alone azzurrognolo che ricordava tanto uno scorcio di
cielo autunnale. La maschera era stata modellata sulle misure del suo viso, tenendo
conto di naso, fronte e mento, ed era sorretta da un elastico che gli cingeva
il capo come una corona di spine (la corona del Cristo, avrebbe detto Peter a
chiunque gli avesse domandato il perché di questa similitudine, e avrebbe
congiunto le mani nel pronunciare il nome del Messia).
Stava sorvegliando un piccolo incrocio
tra due vie laterali del centro di Eglon, assieme a uno dei suoi compagni che
portava una bandana nera punteggiata di ossa stilizzate sulla bocca, il
cappuccio di una felpa calato sulla fronte e un paio di occhiali scuri da sole
di quelli che si indossano prima di salire in auto e mettersi in viaggio
durante un pomeriggio particolarmente soleggiato.
Solo che era notte, e loro due si
trovavano immersi nell’oscurità. C’era un unico lampione in quell’incrocio, che
sorvegliava la via col suo debole occhio luminoso, e a causa del suo tenue chiarore
il metallo delle mitragliatrici che lui e il suo compagno imbracciavano
riluceva nelle tenebre.
Era passata da poco la mezzanotte, e
da lì si sentiva la voce sintetizzata e amplificata dal megafono che stava
annunciando a tutta la città l’inizio della rivoluzione.
Non c’era anima viva, lì. Dovevano
essersi riuniti quasi tutti a Main Street, per ascoltare la loro dichiarazione
d’intenti. Chi non era uscito, probabilmente si era chiuso in casa. Ma
sicuramente tutti, presto o tardi, sarebbero stati raggiunti dal loro
messaggio, e nessuno avrebbe potuto fare a meno di obbedire. Per questo avevano
le mitragliatrici in mano: per sedare immediatamente ogni spunto di protesta e,
se necessario, per avviare un massacro che facesse capire a tutti quanti il
grado della loro cruda serietà.
Il suo compagno gli fece segno con la
mano di stare fermo, e lui si pose in ascolto. Udiva uno scalpiccio lontano,
soffuso, che si avvicinava e aumentava d’intensità. Qualcuno stava correndo nella
loro direzione. Spianò la mitragliatrice e si preparò a fare fuoco. Era
previsto fin dall’inizio che i poliziotti organizzassero una controffensiva, ma
non si era aspettato che potessero essere così dannatamente efficienti. Forse
gli era sfuggito qualcosa…
No, era un solo uomo. Un civile, molto
probabilmente. Gli avrebbero detto di andarsene, e di recarsi seduta stante a
Main Street per ricevere ulteriori ordini. Il comizio stava avvenendo là, sotto
la mira dei carri armati. Il resto del plotone d’invasione stava lentamente
occupando tutte le zone della città e altri soldati, con il megafono, stavano
ripetendo lo stesso identico annuncio lungo le strade dei quartieri più
disparati, in ogni angolo di Eglon.
La parte più difficile dell’intera
operazione sarebbe stata riuscire a mantenere l’ordine tra gli abitanti di
Eglon. Entro pochi minuti, il panico avrebbe iniziato a dilagare e qualcuno
avrebbe tentato di mettersi in contatto con l’esterno. Questo era accettabile.
Ma non potevano permettere che i cittadini mettessero in piedi una
controrivoluzione. No, questo no. Per questo motivo avrebbero allestito la
raccolta delle armi.
I passi continuavano a farsi sempre
più vicini. Più vicini. Anche il suo compagno puntò la mitragliatrice nella
direzione dalla quale proveniva il rumore. Presto la luce del lampione avrebbe
rischiarato un volto irrequieto, e il loro compito sarebbe stato quello di
rendere immediatamente innocuo il nuovo arrivato.
Eccolo. La sua ombra era lì di fronte.
Peter Norton – e questo, chiaramente, non
era il suo vero nome – prese posizione accanto all’altro uomo con il volto
coperto e gridò: «Fermo, non ti muovere o spariamo!»
«D’accordo, d’accordo! Non sparate!
Non sono armato!» rispose una voce terrorizzata, e la silhouette si pietrificò
a pochi passi dall’incrocio e alzò le mani in segno di resa.
«Chi sei? Identificati!» ordinò “Peter
Norton” comandandogli con un cenno di avanzare e farsi vedere in faccia. L’uomo
eseguì immediatamente, avvicinandosi, e Peter poté constatare che era un
semplice civile con un paio di jeans e una camicia, l’aria esterrefatta, scosso
da un tremito convulso.
«Che cosa sta succedendo? Chi siete
voi?» balbettò il nuovo arrivato con fare disorientato.
«Zitto, qui spetta a noi fare le
domande! Identificati!» ripeté Peter senza dimostrare uno stralcio di pazienza.
Al suono della sua voce cupa, resa ancora più surreale dal riverbero nella
maschera, l’uomo con le mani alzate sobbalzò.
«Mi chiamo Jeremy Barton, e sono un
elettricista!» cedette impaurito.
«Un elettricista, eh?» mormorò
tetramente l’amico di “Peter Norton” con la bandana nera costellata di ossa
stilizzate. Lo disse in maniera teatrale, come per fare da eco a una voce
impercettibile.
«No, Jeremy Barton non è un elettricista…» lo contraddisse con calma
“Peter Norton”, scuotendo il capo e protendendo ancor di più verso l’uomo
tremante la canna della propria mitragliatrice. «Da quel che mi risulta, Jeremy
Barton è un poliziotto» soggiunse
pensosamente, e un’ombra di cieco terrore solcò lo sguardo di Jeremy,
facendogli accapponare la pelle.
Il terminal dell’aeroporto di Eglon
era parecchio tranquillo, a quell’ora della notte. Non c’erano molti voli in
partenza dopo il tramonto, e quelli in arrivo si potevano contare sulle dita di
una mano. Ad ogni modo, Cathy Holmes si trovava lì e per nessuna ragione al
mondo, neppure se le avessero detto che il suo aereo sarebbe esploso a metà
strada o sarebbe stato dirottato da alcuni terroristi contro la Casa Bianca o Wall
Street, avrebbe rinunciato a salire sul volo per New York che sarebbe partito
di lì a trentacinque minuti.
Ormai era pronta per l’imbarco. Aveva
già consegnato le valigie e fatto il check-in, era passata nello scanner senza
che nulla di anomalo venisse rilevato e aveva atteso pazientemente che i suoi documenti
venissero verificati.
A conti fatti, le era andata molto
meglio di quella volta all’aeroporto di Memphis. Un’occasione decisamente da
dimenticare. Lo scanner aveva incominciato a suonare non appena era transitata
tra le due barre rilevatrici, e così le guardie aeroportuali le si erano
avvicinate e l’avevano pregata di togliersi le scarpe e il giaccone. Lei aveva
ubbidito, seccata, e aveva notato girandosi che uno dei due tizi, quello più
grosso, teneva la mano posata sull’impugnatura della pistola
(per
precauzione, è ovvio)
mentre l’altro effettuava una perquisizione sommaria, frugandole
le tasche senza tuttavia infilarci le mani. E d’altro canto leggeva negli occhi
delle due guardie il desiderio che lo scanner suonasse ancora. Sapeva di essere
una ragazza carina
(avvenente, diceva il mio ex fidanzato, ma preferisco essere
considerata modesta)
ed era cosciente degli sguardi che ogni tanto le
scoccavano quando passava, specialmente di quegli sguardi che la seguivano dopo che era passata, quelli cioè
rivolti al suo sedere.
Quasi che volesse accontentare i due
uomini, lo scanner aveva suonato di nuovo.
«Desolato, signorina, ma temo debba
togliersi anche jeans e maglione» le aveva detto la guardia che l’aveva
perquisita, e la sua espressione era tutt’altro che desolata.
Cathy si era guardata intorno. «Qui?
Di fronte a tutte queste persone?» aveva singhiozzato, allibita. La guardia
aveva annuito gravemente, e lei si era sfilata di dosso i jeans e il maglione,
restando in canottiera e mutandine.
«Anche la canottiera…» aveva ribattuto
l’altra guardia, e Cathy aveva intravisto un barlume di sogghigno attraversare
fugace il suo volto paonazzo. Ma aveva obbedito lo stesso, sentendosi addosso gli
sguardi bramosi di tutta la gente che la circondava, in particolar modo quelli
delle due guardie e dell’uomo in fila per lo scanner dopo di lei.
Si era sottoposta nuovamente all’esame
dello scanner. L’apparecchio aveva suonato come prima, e il suo trillo le era
parso quanto mai malefico e beffardo.
«Signorina, sono spiacente, ma credo
sia colpa del gancetto del suo reggiseno. Forse se…» aveva iniziato la prima
guardia sondandola attentamente in lungo e in largo, percorrendo con gli occhi
il suo bel corpo dalla pelle perfetta, il fuoco nelle pupille e la lingua che
correva smaniosa a inumidirsi le labbra secche.
«Ora basta, Scott!» era intervenuta
infine la tizia di colore addetta allo scanner a fianco, avvicinandosi con aria
adirata e fulminando i due colleghi con un’occhiataccia ostile. «Vi siete
divertiti abbastanza. Vi sembra che quella ragazza possa essere una terrorista?
Avete paura che dirotti l’aereo? Andiamo, fatela rivestire e smettetela!»
Oggi, ad ogni modo, non le era
capitato nulla del genere, ed entro trentacinque minuti esatti il suo aereo
sarebbe partito alla volta di New York e lei avrebbe chiuso con gli aeroporti
almeno per un altro anno.
Sospirò. Si sentiva esausta. Era
tardi, e il sonno cominciava a premerle sulle tempie. Dopo pressappoco una
quarantina di sbadigli era difficile tenere le palpebre sollevate, ma doveva
resistere ancora un po’. Presto sarebbe stata imbarcata e avrebbe potuto prendere
posto su una di quelle comode poltrone di prima classe, e allora sì che si
sarebbe concessa un bel sonno ristoratore.
«Imbarco per il Volo 771 diretto a New
York, prima chiamata» annunciò finalmente una voce piuttosto lineare attraverso
gli altoparlanti del terminal, e Cathy si alzò e guardò fuori dalle vetrate in
direzione della pista d’atterraggio prima di avviarsi verso il suo gate
d’imbarco.
Ciò che vide in quell’istante le si
impresse nella mente in maniera prepotente, violentandole i pensieri e facendo
leva sulla sua emotività, inducendola a urlare.
I pochi presenti le si radunarono
attorno, richiamati dalle sue grida angosciate, e si misero a loro volta a
strillare.
Fuori, al di là dello spesso strato di
vetro, la pista d’atterraggio era illuminata da grossi e potenti fari simili a
quelli installati negli stadi. I fasci di luce bianca cadevano in pieno su uno
schieramento di tre carri armati in movimento, che si fermarono a pochi passi
da un boeing 747, ciascuno puntando in direzione di un aereo diverso le proprie
immense bocche da fuoco.
Il botto delle detonazioni fu
lacerante, e Cathy ebbe come la sensazione che quelle esplosioni stessero
strappando considerevoli lembi di realtà dall’aria che la circondava.
I carri armati fecero fuoco e gli aerei
saltarono in aria, generando globi di fiamme che rischiararono a giorno la
pista d’atterraggio dell’aeroporto di Eglon. Dopodiché, il fumo nero che
sgorgava a fiotti dalle esplosioni cominciò a oscurare la visuale, invadendo la
superficie trasparente dell’ampia vetrata del terminal e nascondendo alla sua
vista i carri armati che continuavano a sparare contro chissà quale obiettivo.
«Vi chiediamo di essere pazienti. Come
vi ho già detto, tentare di contattare l’esterno è inutile, e anche le
comunicazioni all’interno della città sono impedite, per cui non contate sull’intervento
della polizia. Ogni vostra risorsa adesso è anche nostra. Ciò che maggiormente
desideriamo è che l’ordine venga rigorosamente rispettato. Per questo sono
stati distribuiti uomini armati lungo tutte le vie della città, per fare in
modo che nessuno perda la testa» seguitò l’uomo in piedi sul carro armato,
parlando con la sua voce atona e sintetizzata attraverso il megafono.
«Cristo santo, la città è in mano
loro…» sussurrò inquieta una donna accanto a Stan portando una mano a coprirsi
la bocca, gli occhi che luccicavano e la facevano apparire sull’orlo del pianto
o, più probabilmente, di una crisi di nervi.
Stan percepì uno strano rumore
nell’aria. Come una vibrazione, lenta e talmente densa da sembrare addirittura
cremosa. Proveniva da di là, si disse voltandosi verso una direzione non meglio
definita, e di colpo tutta la gente che invadeva Main Street si fu girata in
quella stessa direzione a osservare una rapida serie di esplosioni successive,
contraddistinta da baluginanti sfere di fiamme e imponenti colonne di fumo
nerastro che si innalzavano a oscurare il cielo.
Stan si guardò attorno e riuscì a
localizzare un cartello stradale. MAIN STREET,
recitava il cartello, e una freccia bianca riportava a grandi lettere
un’indicazione rivolta verso la zona in cui le nuove esplosioni si erano appena
manifestate: AEROPORTO.
«Abbiamo bloccato l’aeroporto»
confermò la voce diffusa nel vento dal megafono, la voce dell’uomo che si
nascondeva dietro quella maschera blu con indosso un elmetto da soldato. «Abbiamo
ucciso il vostro sindaco facendo saltare in aria il suo ufficio.» A queste
parole, un cupo mormorio di fitto terrore percorse la folla formicolante. «Per
quanto riguarda tutto il resto, però, le cose continueranno a funzionare.
L’ospedale cittadino rimarrà aperto e in servizio attivo, le scuole terranno i
battenti spalancati, i distributori di benzina non saranno toccati, per cui non
vi verrà negato alcuno spostamento entro i confini della città. L’elettricità,
il gas e l’acqua potabile rimarranno assicurati fintanto che non sarà qualcun
altro, da fuori, a decidere il contrario.»
Stan non si mosse. Sentiva la voce
amplificata dal megafono e scorgeva quella maschera sullo schermo della Eglon
Tower, ma quelle parole suonavano talmente macabre e angoscianti da apparire
come sbiadite, quasi che non appartenessero
al mondo reale, bensì a una qualche realtà sovrannaturale dalla quale ogni
notte traboccavano e prendevano forma gli incubi.
«Come prima azione, per evitare che
qualcosa vada storto, ritireremo tutte le armi in possesso della città. Alcuni
nostri uomini stanno già svuotando le armerie, ma non possiamo passare di casa
in casa a prelevare personalmente le vostre armi. Pertanto è vostro obbligo e
sacrosanto dovere recarvi immediatamente nelle vostre abitazioni, raccogliere
ogni singola arma e portarla qui fuori, a Main Street, per depositarla
all’interno dei furgoni blindati che vedete sparsi un po’ dovunque, il tutto
entro le cinque del mattino.
«Naturalmente non possiamo controllare
ciascuno di voi, né tantomeno sapere se ognuno consegnerà effettivamente la
propria arma. Ma sappiate solo una cosa: a chiunque, a partire dalle cinque,
verrà pescato in possesso di un’arma sarà applicata seduta stante la pena di morte, e non vi saranno
eccezioni, né possibilità alcuna di riscatto. Lo facciamo per il vostro bene e
per la vostra sicurezza. Una volta completata la raccolta delle armi,
riceverete nuove istruzioni. Ci siamo intesi? Avete capito? Tutte le armi a
Main Street, subito.»
Katie Simons uscì da sotto il letto
strisciando sul parquet, e quando si tolse le mani dalle orecchie scoprì che
c’era una voce, fuori, che stava parlando. Una voce sintetizzata, che pareva
essere amplificata da un megafono. Una voce apparentemente priva di alcun
accento, quella che si sarebbe potuta attribuire a un uomo capace di parlare l’inglese
in maniera impeccabile, senza condirlo con alcuna inflessione.
Faceva paura, quella voce. Era così
asettica e impersonale da apparire quasi inumana. La voce di un fantasma, pensò Katie, e l’idea la fece inorridire.
Pensò a Chris. Dove si poteva trovare
il suo ragazzo, in quel momento? Che fosse al sicuro? Era ancora alla festa di
Tila o dopo le esplosioni se n’era andato per poterla raggiungere? Chissà se anche
lui si stava ponendo le stesse domande. Chissà se anche lui aveva paura che
potesse esserle successo qualcosa di brutto. Chissà…
Si domandava anche se i suoi genitori
stessero bene. Potevano essere stati coinvolti nell’esplosione, per quel che ne
sapeva. Potevano anche essere già… morti.
Gli occhi le si riempirono di lacrime,
ma con un immane sforzo riuscì a reprimerle e a non farle fuoriuscire. Non
c’era tempo per piangere. Doveva mettersi in contatto al più presto con la sua famiglia
e con Chris. Forse, dopotutto, il fatto che il cellulare e il telefono fisso
non funzionassero non era più tanto trascurabile, adesso, vero?
Si riprese e con calma si mise a
sedere sul bordo del letto, sopra le coperte, cercando per quanto possibile di
placare il battito frenetico del cuore che aveva preso ad accelerare come un
forsennato. Doveva stare calma. Si poteva ancora risolvere tutto quanto. Magari
si era trattato di un banalissimo incidente. Magari una volta messa la testa
fuori dalla porta di casa sarebbe scoppiata a ridere e si sarebbe vergognata
dei propri timori infondati. Sì, era assai probabile che andasse tutto bene. E,
d’altro canto, che cosa poteva mai accadere di brutto nel mondo reale, in quel mondo in cui viveva giorno dopo
giorno, in una qualunque città appartenente al Paese più grande e potente che
ci fosse?
Con questa rasserenante convinzione in
testa raggiunse la finestra e tirò su la persiana per poter dare un’occhiata
all’esterno, e le sue rinnovate sicurezze non si limitarono a vacillare
un’altra volta: crollarono irreparabilmente, sgretolandosi e disfacendosi sotto
i suoi muti occhi affranti, mentre il suo sguardo spaziava sulla distesa di
fiamme che all’orizzonte stava avvolgendo e stritolando l’ormai scomparso
aeroporto di Eglon.
«Ma come diavolo…»
«…facciamo a saperlo?» lo interruppe
“Peter Norton”. Un sorrisetto compiaciuto fece la sua plateale comparsa
all’angolo della bocca mascherata, e Jeremy Barton riuscì a percepirlo, anche
se non poteva esattamente vederlo. «Credi che l’invasione di una città si
organizzi così,» pronunciò schioccando le dita, «senza prima acquisire alcuna
informazione sui possibili ostacoli?»
Jeremy si sentiva sempre più freddo e
spaesato. Invasione? Significava
forse che Eglon era stata conquistata? Ma perché? E da chi? Chi erano quei tizi
con le maschere, terroristi, mercenari, cacciatori di taglie? Chi, dannazione?
«D’accordo, Jeremy Barton. Vieni con
noi. Ti mostreremo la strada per raggiungere qualcuno che ti può aiutare…»
comandò Peter, e lui e il suo compagno gli si affiancarono e lo sospinsero in
avanti con le canne gelide delle mitragliatrici, costringendolo a camminare
verso una via scura, priva di lampioni e assolutamente deserta.
Jeremy capì. Lo avrebbero ammazzato,
non c’era ombra di dubbio. Quello con addosso la bandana nera tempestata di
ossa stilizzate lo perquisì abbastanza stringatamente, e senza difficoltà trovò
la pistola e gliela sfilò dalla fondina, facendola scomparire in una tasca dei
propri jeans neri.
A Jeremy veniva da piangere, ma non
cedette alle lacrime. Se davvero era giunto alla fine, almeno che fosse una
fine dignitosa. Da tutore dell’ordine. Da poliziotto. Non da coniglio.
«In ginocchio!» ordinò in tono lugubre
“Peter Norton”, e Jeremy ubbidì, appoggiando le ginocchia sull’asfalto umido
della viuzza buia e pregando dentro di sé affinché fosse una cosa veloce.
«Possesso di armi. Da domani sarà un
reato passibile della pena di morte, in questa città. Ma tu non vedrai come
sarà domani, Jeremy Barton, perché devi essere giustiziato ora» illustrò sinteticamente l’uomo che si faceva chiamare Peter Norton,
apparentemente allegro.
Jeremy sarebbe stato la sua prima
vittima. Se lo sentiva. Probabilmente la prima vittima di Eglon a venire
giustiziata quella notte. E, forse, nemmeno l’ultima.
«Addio, Jeremy Barton della polizia di
Eglon» sussurrò “Peter Norton” premendogli la bocca da fuoco della
mitragliatrice al centro della schiena, e un colpo solitario partì nella quiete
della notte e tagliò l’aria di netto con un boato spaventoso, aprendola in due.
Jeremy crollò a terra, ma non
percepiva alcun dolore. Un secondo sparo squarciò il silenzio, fendendolo con
crudele ferocia animalesca. Anche stavolta Jeremy sussultò. Ma non era stato
colpito. No, era impossibile. Non sentiva nulla di diverso. Era tutto a posto. Per quanto possa esserlo in una qualunque
città americana appena conquistata da chissà quale nemico senza volto.
Tirò su la testa e vide un’ombra
avvicinarsi. Dietro di lui, i due uomini che lo stavano per giustiziare si lamentavano,
distesi a terra. Che cosa…?
«Tutto bene?» s’informò il nuovo
arrivato, parandosi davanti a lui e porgendogli una mano. Lo aiutò a tirarsi su
e gli sorrise. Era un tipo sulla quarantina, con i capelli corti a spazzola e
l’aria aristocratica, volto e mento squadrati, corporatura slanciata, eppure
vigorosa.
«Sì… Almeno credo» brontolò Jeremy
spazzolandosi di dosso con le mani la polvere che gli era rimasta appiccicata
ai vestiti. Si girò a guardare i suoi aggressori. Entrambi perdevano molto
sangue dalle braccia. Il tipo che aveva sparato, quello con l’aria
aristocratica, aveva mirato ai polsi, così i due uomini mascherati avevano
perduto le mitragliatrici che ora giacevano un paio di metri più in là,
abbandonate sull’asfalto, dando l’impressione di essere state dimenticate.
«Tosti questi tizi, non è vero?»
domandò il suo salvatore, e il tono era proprio quello di uno che avesse
intenzione di fare conversazione, il che spiazzò Jeremy. Gli porse la mano con
fare rassicurante. «Brian Jones, molto piacere» si presentò.
«Jeremy Barton» rispose il poliziotto
stringendogli la mano un po’ incerto.
«Sì, l’avevo intuito. Vi ho sentiti
parlare, prima, e vi ho seguiti fino a qui. Un poliziotto può sempre fare
comodo, di questi tempi. Stai andando verso la centrale di polizia, suppongo.
Ho ragione?»
«Sì, è così. Spero di riuscire a
trovare qualcun altro per mettere in piedi qualcosa. Le comunicazioni sono
bloccate, anche quelle a corto raggio…»
«Già. Nemmeno io riesco a contattare
l’esterno. I miei si aspettano un rapporto completo al più presto. Se non
sentiranno mie notizie per un paio di giorni, sicuramente manderanno qualcuno a
controllare» rifletté ad alta voce Brian Jones.
«Che cosa ne facciamo di quei due?»
volle sapere Jeremy, indicando i suoi aggressori fuori combattimento che si
agitavano sull’asfalto gemendo di dolore.
«Li lasciamo lì. I miei spari ne
attireranno altri a breve. Dobbiamo sparire. E se davvero è nelle tue
intenzioni andare verso la centrale di polizia, ti conviene prepararti…» disse
Brian Jones. Jeremy lo scrutò con aria interrogativa, e l’altro si strinse
nelle spalle. «L’hanno già presa, e la stanno per radere al suolo.»
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