La facciata di una piccola villetta a
schiera prefabbricata, placidamente distesa sotto un sole cocente,
biancheggiava lungo la via principale di una qualunque sonnolenta cittadina
americana. In alto, al centro del cielo, lo spettro della luna si spostava
pigramente, senza troppa fretta, con la sua candida trasparenza che lo faceva
apparire morto, rischiarato com’era dalla luce del giorno.
L’inizio di una mattinata qualunque,
di un qualunque sabato di agosto. Davanti alla facciata della villetta a
schiera transitò lentamente una ragazza in bicicletta, con addosso degli shorts
e una maglietta verde della tonalità che quell’anno andava tanto di moda. Si
dileguò transitando da sinistra verso destra, e uscì dall’inquadratura.
Un venticello leggero scuoteva fiaccamente
le foglie e i rami del grosso albero che si innalzava a lato del modesto
rettangolo di prato ben curato antistante la villetta a schiera. Era uno di
quei venti inconsistenti che tentano di rendere più sopportabile l’afa delle
mattinate d’agosto, senza tuttavia esserne capaci. Ad ogni modo, bisognava pure
riconoscergli un qualche merito: stava a poco a poco sospingendo via l’umidità,
e i meteorologi avevano previsto che per quella sera avrebbe portato con sé un
temporale di proporzioni ragguardevoli che avrebbe in qualche modo lenito le
pene dei cittadini sprovvisti di climatizzatore.
Un ragazzo che non poteva avere più di
una ventina d’anni percorse tranquillamente il vialetto d’ingresso che si
inoltrava nel rettangolo di prato ben curato, lo imboccò e proseguì fino a
scomparire, pochi istanti dopo, oltre la soglia.
L’interno della villetta era avvolto
in una gradevole penombra. Il ragazzo dovette impiegare qualche secondo per
abituare la vista alla differente qualità di luce, dopodiché si avviò in direzione
delle scale e salì al primo piano, entrando nel fresco chiaroscuro di una
camera da letto e gettando sopra le coperte disfatte lo zainetto che portava
sulle spalle.
Si sedette sulla poltrona accanto alla
scrivania, afferrò senza indugio il computer portatile che giaceva abbandonato
sul ripiano di legno e sollevò lo schermo. Inserì la password per avere accesso
al sistema operativo, quindi cercò una connessione wireless alla quale
aggrapparsi. La trovò immediatamente disponibile ed effettuò la connessione
digitando il proprio codice personale. Avviò il browser di navigazione internet
Firefox ed entrò nel suo profilo Facebook.
Scrisse rapidamente il testo del
messaggio sul quale aveva rimuginato per un’intera settimana. Esitò ancora per
qualche istante, prima di inviarlo, e sospirò con aria meditabonda. Il suo viso
era nascosto dall’ombra delle tapparelle. Soltanto le sue mani erano illuminate
dal bagliore digitale dello schermo. Ma se la sua espressione fosse stata
visibile, si sarebbe dimostrata ansiosa.
Alla fine pigiò su INVIA MESSAGGIO, e il testo che aveva appena
scritto partì.
Fece per richiudere il computer,
abbassando lo schermo sulla tastiera, quando un trillo richiamò la sua
attenzione sulla pagina Facebook aperta:
un contatto.
Il cuore cominciò a battergli forte. Spostò
la freccetta sul nome del contatto per accedere alle sue informazioni
personali, quando lo stesso scampanellio di poco prima segnalò l’aggiunta di un
secondo contatto. Poi ne arrivò un terzo. Un quarto. Un quinto, assieme al sesto
e al settimo. E, tutt’a un tratto, le casse incorporate del computer portatile
iniziarono a vomitare squilli e brontolii, e il numero dei contatti prese a
salire vertiginosamente, lievitando ed espandendosi più velocemente dello
scorrere dei secondi.
La bocca del ragazzo, l’unica parte
del suo volto ora fiocamente rischiarata dal bagliore dello schermo, si distese
in un sorriso gelido che più che un moto di soddisfazione sembrava un freddo
ghigno calcolatore.
Rilesse il titolo del suo breve
messaggio di testo. A grandi lettere, in grassetto, riportava semplicemente due
parole: CODICE RIVOLUZIONE.
LE
ANIME DI EGLON
PRIMA
STAGIONE
EPISODIO
2
CODICE
RIVOLUZIONE
Daniel Green, figlio del vicesindaco
Thomas Green della città di Eglon, la sera del dieci settembre se ne stava
tranquillamente spaparanzato sul divano a guardare la televisione. Era sabato
sera, certo, ma non aveva una gran voglia di uscire. E poi, a casa con lui
c’era la sua ragazza, Betty, che adesso se ne stava di là in bagno e con la
quale aveva in programma di scopare per tutta la notte e forse, se lei ci fosse
stata, anche oltre.
Per essere completamente onesto, la
discoteca non gli andava più poi così tanto. Aveva venticinque anni, sicuro,
l’età perfetta per uscire a far baldoria, solo che da quando aveva cominciato a
lavorare alla centrale elettrica non era più arzillo come prima e il sabato
sera si sentiva sempre tremendamente stanco. Non troppo stanco per scopare, sia
chiaro. Questo mai. Solo che andare a ballare era sfiancante, e a una certa ora
gli dolevano i timpani per via della musica alta. E poi, stare in casa con
Betty era mille volte meglio. Specialmente quando mamma era fuori città per uno
dei suoi rilievi fiscali e papà doveva restare in municipio fino a tarda ora a
lavorare.
Quella era una giornata particolare,
questo lo sapeva. Papà non era ancora tornato per un motivo alquanto insolito,
uno di quelli che capitano una volta sola in tutta una vita: il sindaco
Donaldston era stato assassinato. Gli avevano fatto esplodere l’ufficio con una
bomba, e c’era mancato un pelo che morisse anche papà. Ma non era successo, e
ora papà si trovava al lavoro e lui era lì a guardarsi la tele e di là c’era
Betty in bagno che si stava preparando e quando sarebbe tornata in salotto
l’avrebbe presa in braccio, l’avrebbe portata in camera da letto e…
Le immagini svanirono di colpo dal
televisore, e fecero capolino sullo schermo le classiche bande nere e grigie
delle interferenze, quelle che si captano quando la parabola non prende o non è
stata collegata bene all’apparecchio. In parole povere, nessun segnale.
Sbuffò e cambiò canale, una, due, tre
volte. Si tirò su e si mise a sedere, proteso in avanti, schiacciando
rapidamente i tasti sul telecomando. Nada,
non si prende un accidente. Questo
affare si deve essere rotto. Meglio,
così papà si deciderà a prendere una di quelle nuove tivù HD Ready
che fanno vedere anche il 3D.
«La tv è morta, Betty» annunciò
tristemente. «Credo che…»
«Oddio! Oh mio Diooo!» strillò Betty
dal bagno, e per poco Daniel non si sentì mancare.
«Che c’è? Che succede?» s’informò,
agitato, lanciandosi verso di lei. Che Betty si fosse fatta male? No, Dio, fa’ che non sia così… Aveva
voglia di scopare, e se Betty si era fatta male voleva dire che per quella
sera…
«Daniel, corri, vieni a vedere! Dio
santo, muoviti!» gridò Betty, ancora
chiusa nel bagno, e Daniel spalancò la porta, bianco in volto come uno convinto
di avere appena incontrato un fantasma, e la vide affacciata alla finestra con
la fronte e le mani premute contro il vetro.
Che
accidenti sta…
La raggiunse e si mise di fianco a
lei. Guardò giù, sulla strada a stento illuminata dai lampioni, e non riuscì a
impedirsi di cacciare un urlo nervoso.
Sulla strada c’erano almeno una
cinquantina di persone, tutte serrate l’una all’altra in ranghi compatti,
ognuna con una fiaccola accesa tra le mani. Indossavano delle maschere, una
miriade di orrende maschere da macabra parata di Halloween nel giorno
sbagliato, e sembravano muoversi in una lenta e orripilante marcia funeraria.
Solo che davanti a loro, al posto dell’auto funebre, arrancava un grosso e inquietante
carro armato.
Katie Simons, la ragazza che
solitamente si occupava di dare ripetizioni di matematica a un terzo dei
ragazzini delle scuole elementari di Eglon, la sera di sabato dieci settembre
era a casa con l’influenza, stretta sotto le coperte nel proprio pigiama, ed
era intenta a messaggiare con il suo ragazzo intorno alle undici e quaranta (il
quale invece, pensa un po’, era andato alla festa di Tila senza di lei!),
quando all’improvviso fece per inviare un sms denso di allusioni a un possibile
omicidio (e d’altro canto chi poteva affermare che quella sgualdrina di Tila
Berkovich non se la sarebbe meritata, visto che ci provava con tutti i ragazzi
già impegnati della città?) e scoprì con un certo fastidio che non c’era più
campo.
Si alzò e, nonostante i brividi di
freddo, si avventurò in direzione della finestra a vedere se per caso lì il
cellulare riuscisse a ritrovare qualche tacca di segnale.
Si arrese quasi subito, perché tanto non
serviva a nulla. Si trascinò stancamente in sala, dove le luci erano state
spente perché mamma e papà erano usciti, e sollevò la cornetta del fisso, componendo
a memoria il numero del telefonino di Chris, il suo ragazzo.
Si rese conto soltanto quando ebbe
finito di digitare i minuscoli pulsanti sul ricevitore che il telefono
produceva un suono quanto mai sinistro: silenzio assoluto, più drammatico e
preoccupante di qualsiasi altro rumore potesse esserci sulla faccia della
Terra.
Katie rabbrividì, più per via della
febbre che per la paura. Poteva capitare che la linea si guastasse. Il fatto
che il cellulare non prendesse, poi, non significava niente: magari uno dei
ripetitori non funzionava bene, oppure era semplicemente colpa di tutto il
cemento armato che riempiva le pareti del condominio.
Ritornò a letto, trascinandosi dietro
le pantofole rosa pelose, sospirando, abbattuta e sconsolata. Non aveva più
modo di comunicare con Chris, ma questo in fin dei conti andava bene: avrebbe
pensato che se la fosse presa con lui tanto da smettere di parlargli, e un
pizzico di ansia avrebbe fatto senz’altro bene a quel ragazzo, convinto com’era
che tra loro due ogni coccola e ogni favore fosse cosa del tutto scontata e
dovuta. Eh no bello mio, so io come
rimetterti in riga, sogghignò Katie tra sé e sé, intanto che si rituffava
tra le coperte calde.
Era quasi mezzanotte, e l’indomani in
centro ci sarebbe stata una commemorazione per le vittime degli attacchi
dell’undici settembre duemilauno. Il che toglieva a Chris ogni possibilità di
andarla a trovare, perché le strade sarebbero state chiuse e lui non avrebbe
certo fatto il giro lungo solo per romperle le scatole finché era ammalata. O,
perlomeno, così sperava.
Si raggomitolò nel tepore della
trapunta e chiuse gli occhi, pronta a lasciare che il sonno la cogliesse come
un fiore da un campo e la portasse via con sé, tra le sue tiepide mani
delicate.
Si risvegliò di soprassalto quando il
campanile di Eglon scandì il primo dei dodici rintocchi della mezzanotte, e in
quel preciso istante una violenta esplosione le sconvolse i timpani, facendola
scivolare per terra a rannicchiare sotto il letto.
Mezzanotte. Il grande schermo che
troneggiava su Main Street dalla facciata della Eglon Tower, la mastodontica
torre progettata da un noto ingegnere locale in onore della propria città
natale, si oscurò all’improvviso, inghiottendo nel buio i numeri rossi bordati
di verde che segnavano digitalmente l’ora, la data e la temperatura correnti
dal giorno stesso in cui la massiccia opera architettonica era stata
inaugurata.
Una scarica di interferenze transitò
fuggevole sul gigantesco schermo, e la gente che si era radunata lungo Main
Street per vedere quale fosse l’origine di tutto quel trambusto si lasciò
sfuggire un sospiro collettivo, resa nervosa dagli sconosciuti eventi che si
stavano verificando.
La maggior parte dei cittadini aveva
già scorto i carri armati e le file di uomini in maschera che camminavano
muniti di fiaccole accese. Sembrava un corteo di demoni in procinto di
annunciare la fine del mondo. Allo stesso modo quasi tutti, a Eglon, si erano
resi conto che i cellulari non prendevano, che televisori e telefoni fissi non
funzionavano e che tutte le radio erano sostanzialmente defunte, perché non si
riusciva a captare neppure uno straccio di frequenza a corto raggio.
C’era una tenue sensazione di timore,
che serpeggiava tra gli edifici illuminati di Eglon, accarezzando le persone e
mostrando loro la propria cruda realtà presente.
Il campanile della chiesa di Eglon
batté il primo lugubre rintocco, che riecheggiò per tutti i quartieri e
spazzolò via la polvere dalle strade, scuotendo nel profondo la città con la
propria nota grave.
Tutto avvenne molto rapidamente. Una
grossa nube di pulviscolo si alzò dal tratto iniziale di Main Street, e il
fragore dei vetri infranti, assieme all’odore acre e fragrante della polvere da
sparo, accompagnò l’urlo della detonazione che fece tremare i palazzi
circostanti. Un enorme edificio in fondo alla carreggiata principale, nel punto
in cui le due linee di abitazioni si interrompevano bruscamente per lasciare
spazio agli ultimi lampioni prima del buio atono della campagna, esplose,
lanciando blocchi di cemento armato, scaglie di vetro luccicanti e grossi brani
di asfalto inaridito dal sole estivo in ogni direzione.
La gente si voltò dalla parte del
botto, ma tutto fu presto invaso dal fumo che, come una nebbia particolarmente
fitta, oscurò ogni immagine avvolgendo Main Street lampione dopo lampione.
Jeremy Barton, poliziotto in servizio
a Eglon da ventidue anni, cinque rapine a mano armata sventate negli ultimi dieci
inverni e sette
(e
dico sette)
risse sedate dall’inizio della sua carriera, prese la mira
con accuratezza, spingendo lievemente la punta della lingua tra le labbra
screpolate come era solito fare quando doveva concentrarsi e centrare al primo
colpo il bersaglio.
Lanciò, e i calzini umidi di sudore
che aveva portato per tutta la giornata, ora minuziosamente appallottolati,
finirono in pieno all’interno del cesto della biancheria sporca.
Jeremy si girò dall’altra parte,
scandagliò con lo sguardo il corridoio immerso nella semioscurità ed esultò,
sollevando i pugni al cielo in segno di vittoria e gridando a squarciagola:
«Chi è il Campione, eh? Si può sapere qui chi è il Campione?!»
L’aveva preso al primo tentativo.
Proprio così, signore e signori, al primo tentativo, ed era un risultato niente
male visto e considerato che il Campione era in piedi dalle cinque di quella
mattina e si era dovuto sorbire in tacita sopportazione ben quattro ore di straordinari. E adesso chi è il Campione, eh, si può
sapere?
Sghignazzò beato e uscì sul terrazzo,
giusto in tempo per sentir suonare la mezzanotte e scorgere in lontananza una
reboante esplosione da far rabbrividire i visceri. Istintivamente si abbassò,
tappandosi le orecchie con le mani, chiuse gli occhi e si sdraiò a terra
aspettando che lo spostamento d’aria generato dallo scoppio lo oltrepassasse.
Avvertì i capelli rizzarsi sulla nuca.
Si rialzò e ammirò con crescente terrore la sfilata di uomini mascherati che
passavano lungo la via sotto casa sua, le fiaccole accese che rimandavano
barbagli fiammeggianti sulle pareti degli edifici e sui vetri dei negozi,
fondine che sporgevano dai fianchi e lasciavano intravedere impugnature di
pistole.
Ma
che cazzo sta succedendo? si domandò inquieto Jeremy, con un’atavica
sensazione di smarrimento che sembrava avergli costruito in meno di mezzo
secondo un’impenetrabile barriera nella testa, impermeabile persino ai
pensieri.
Si precipitò nuovamente in casa,
afferrò la pistola d’ordinanza e la strinse a sé. Quindi ci ripensò, prese la
cintura e se la passò attorno alla vita, la allacciò e nascose alla bell’e
meglio fondina e impugnatura sotto una piega della camicia.
Tornò di corsa in terrazza e si rimise
a osservare la gente disotto. Li vide dividersi in gruppetti. Fu lanciato un
ordine, un segnale incomprensibile come un grido di battaglia, e le fiaccole si
spensero tutte d’un colpo, insieme, come divorate dall’oscurità della notte.
Per un attimo non vide più nulla. Poi
la luce flebile dei lampioni incominciò a fargli scorgere di nuovo le ombre degli
uomini mascherati. Sparirono di corsa, in piccoli manipoli, diramandosi per le
vie laterali che si snodavano a partire dalla strada lì sotto.
Doveva fare qualcosa, e alla svelta.
Afferrò senza esitazioni la radio a
corto raggio che aveva abbandonato in cucina prima di andare a farsi la doccia,
quella che la polizia di Eglon dava in dotazione a tutti i suoi agenti per
potersi tenere in costante contatto, la sintonizzò sulla frequenza della
centrale e mitragliò rapidamente: «Polizia di Eglon, qui è l’agente Jeremy
Barton. C’è un problema. Dal terrazzo di casa mia ho visto uomini armati in
strada, e non sento ancora nessuna sirena, segno che non vi è stato alcun
intervento. Dovete mandare delle volanti immediatamente,
si stanno dividendo e bisogna fermarli. C’è stata un’esplosione, dall’altra
parte della città. Credo ci possano essere dei feriti.»
Nessuno rispose. La radio sembrava
morta. Tentò su un’altra delle frequenze abituali della polizia di Eglon, e
dopo aver ripetuto il messaggio trovò il medesimo, inscindibile silenzio.
Niente comunicazioni radio.
Lasciò cadere sul tavolo la
ricetrasmittente e si proiettò in direzione del telefono fisso. Sollevò la
cornetta, e subito capì che non sarebbe servito a niente. Neanche il telefono
funzionava. La linea era stata in qualche modo scollegata.
D’accordo. Tutto ciò che gli rimaneva
da fare, a questo punto, era uscire e recarsi di persona alla centrale. Se
davvero le comunicazioni erano state interrotte in tutta la città, come
presumeva, sarebbe stato impossibile contattare gli altri agenti e coordinarsi per
un’azione difensiva.
La città di Eglon era in stato di
allerta. Doveva parlare immediatamente con il capo della polizia ed escogitare
una soluzione rapida ed efficace. C’erano uomini armati a piede libero, e c’era
stata anche un’esplosione. Bisognava tranquillizzare i cittadini al più presto
e fermare chiunque avesse commesso quell’atrocità.
Toccava a lui, adesso, attraversare la
città in mezzo a tutto quel caos. E non lo avrebbe fatto con indosso la divisa
da poliziotto. Nossignore. Se non voleva morire prima ancora di cominciare, era
meglio uscire in borghese e darsi una mossa.
Si scagliò fuori dalla porta del suo
appartamento in jeans e camicia, la pistola nascosta sul fianco, e se ne andò,
senza chiudere a chiave.
La folla che si era radunata su Main
Street era immensa, una fiumana di persone che sciamavano agitate per ogni
dove, urlando e chiamandosi a vicenda, correndo di qua e di là senza una meta
ben precisa. Tutte le strade della città di Eglon, ormai, a cinque minuti
dall’esplosione, erano ridotte in quello stato, avvolte dalla calca e percorse
da grida disperate e invocazioni dettate dal panico.
Il grosso edificio esploso sul margine
della città, l’ultimo lungo Main Street prima che la carreggiata si inoltrasse
nei campi in direzione della Interstate 530, non aveva retto ed era crollato
lateralmente, invadendo la strada e bloccandola con una specie di argine
artificiale fatto di macerie e detriti. L’asfalto era saltato in aria per un
buon centinaio di metri, come raschiato via da una grossa ruspa, ed era stata
la detonazione a causare quello sfacelo.
Il fumo lentamente si diradò e permise
alla terrorizzata popolazione di Eglon di assistere a questo spettacolo.
Un lampione, poco più in là, era stato
piegato dall’impatto con lo spostamento d’aria generato dal botto. Era ancora
acceso, e la luce che emanava appariva a dir poco spettrale. Andava e veniva,
salterellando come la fiammella di una candela. Ma perlopiù funzionava, per
metà dritto e per metà piegato in orizzontale con la lanterna in direzione del
centro della città.
Un drappello di uomini si posizionò
attorno alle macerie del palazzo crollato. Uomini che portavano strane maschere
di plastica che lasciavano intravedere soltanto gli occhi e le labbra. Alcuni indossavano
semplicemente delle bandane che coprivano il volto fino al naso e tenevano il
cappuccio calato sulla fronte e un paio di occhiali da sole.
Tutti erano armati. Imbracciavano
mitragliatrici, impugnavano pistole, stringevano spranghe di ferro tra le dita.
Si radunarono attorno all’edificio crollato, si sparpagliarono lungo la strada
e i marciapiedi, si diffusero a macchia d’olio tra i cittadini, mescolandosi a
loro e integrandosi nella folla come se essa li avesse all’improvviso
ingurgitati.
Lo schermo gigante, che come un occhio
onniveggente osservava l’intera città dall’alto della Eglon Tower, mandò un
paio di scariche luminose, quindi ritornò buio e dopo alcuni secondi fece
comparire un’immagine, quasi che in quattro e quattr’otto fosse stato
convertito in un enorme televisore sospeso. C’era uno strano simbolo, ora,
colorato di rosso e bordato di verde come i numeri che di solito segnavano ora,
data e temperatura sul pannello ciclopico. Un simbolo incomprensibile, che
presto si smaterializzò per lasciare spazio al volto di un uomo coperto da una
maschera.
La gente si volse a guardare l’uomo
sul grande schermo, e il silenzio calò nuovamente su Main Street. L’immagine era
fissa, come una fotografia. La maschera che l’uomo indossava era completamente
blu, con una ragnatela rossa sul lato sinistro della faccia e una grossa croce
di fuoco a destra, la fronte nascosta sotto un elmetto da soldato color verde
militare.
Quello stesso uomo si arrampicò su un
carro armato fermo al centro di Main Street. Il mezzo corazzato fu circondato
da una trentina di altri uomini con addosso maschere diverse, i quali spianarono
le proprie mitragliatrici verso la folla che si stava avvicinando.
La gente indietreggiò. Alcune donne
urlarono. Molti rientrarono velocemente in casa, ma i più rimasero lì ad
aspettare.
All’uomo mascherato salito sul carro
armato fu passato un megafono. Lo accese e se lo avvicinò alla fessura in
corrispondenza della bocca, attraverso la quale poteva parlare e respirare.
Con una voce atona ed eccezionalmente
metallica, sintetizzata dal megafono e priva di qualsiasi accento o inflessione
particolare, mormorò: «Buonasera, Eglon, e benvenuta in questa nuova rivoluzione.»
Stan uscì in giardino e attraversò
rapidamente la strada, infilandosi tra la gente e avvicinandosi a quel grosso
carro armato che se ne stava fermo laggiù, poco distante da dove aveva dovuto
lasciare la sua automobile.
Sarah e Robert si erano barricati in
casa, avevano svegliato i bambini e si erano radunati tutti assieme in salotto,
seduti sul divano con espressioni stralunate. Quando aveva detto loro che
intendeva uscire per andare a vedere che cosa stesse accadendo, lo avevano
squadrato con le stesse occhiate di circostanza che abitualmente si rivolgono a
un pazzo e non avevano ribattuto, permettendogli di andare fuori ma
impedendogli di prendere con sé un mazzo di chiavi, sostenendo che gli avrebbero
aperto loro non appena fosse tornato.
Sarah era sconvolta, e Robert non era
da meno. Avevano assistito all’esplosione, o per meglio dire l’avevano
intravista da lontano, perché il loro quartiere si trovava parecchio distante
dal punto in cui il palazzo era stato fatto crollare. Avevano comunque potuto
scorgere il flash di luce e il fumo, e bastava fare due più due per capire di
che cosa si fosse trattato.
Robert aveva preso a tremare. Lanciava
spropositi a destra e a manca, dicendo che lui doveva andare in banca a
prelevare il suo denaro prima che lo sportello chiudesse e che l’indomani
mattina ci sarebbe andato, anche se fosse venuto lì il fantasma di Hitler a
dirgli che era scoppiata una nuova guerra mondiale e che non poteva uscire di
casa se ci teneva alla pelle.
Stan se n’era andato prima di dover
sentire altre cavolate del genere. I bambini erano spaventati, e Sarah li
stringeva a sé. La detonazione era avvenuta da un paio di minuti quando Stan
aveva superato la soglia di casa e si era richiuso la porta alle spalle,
fiondandosi su Main Street e percorrendola di corsa in direzione del punto in
cui era si era verificata l’esplosione, facendosi guidare dalla spessa colonna
di fumo che ancora si innalzava all’orizzonte.
C’erano persone ovunque. La gente si
muoveva di qua e di là, provava a chiamare con il cellulare, si interrogava a
vicenda per capire se qualcuno avesse una vaga idea intorno a quello che stava
capitando in città. Qualche uomo in maschera transitava adagio lungo le vie.
Stan vide un tizio avvicinarsi a uno degli uomini mascherati e quest’ultimo
puntargli addosso una pistola e fargli segno di allontanarsi. Il tizio ubbidì,
tenendo le mani alzate sopra la testa per dichiarare che non intendeva creare
problemi.
Una voce sintetizzata scaturì da un
punto indistinto di Main Street, fioca ma udibile, amplificata da un megafono.
Stan alzò gli occhi sulla Eglon Tower e vide l’immagine di quella maschera immobile.
Le parole pronunciate dalla voce senza accento gli fecero venire la pelle
d’oca.
«Buonasera, Eglon, e benvenuta in
questa nuova rivoluzione.»
Una breve pausa ad effetto. La folla
si era ammutolita, e mentre il fumo dell’esplosione attraversava le strade
della città Stan percepì chiaramente che quello era soltanto l’inizio.
«Siamo sicuri che vi arrenderete
facilmente, cittadini di Eglon, e che non opporrete alcuna resistenza. La città
è tagliata fuori dal resto del mondo: niente radio, niente televisione, niente
telefoni o cellulari, niente connessione internet. I nostri uomini hanno
occupato le strade, e presto ogni via di collegamento tra Eglon e l’esterno
verrà definitivamente bloccata. Nessuno uscirà più dalla città, e nessuno
entrerà, a meno che non siamo noi a volerlo.
«È l’undici settembre, signore e
signori. In questo stesso giorno, alcuni anni fa, gli Stati Uniti d’America
hanno subito il più terribile attentato terroristico che sia mai stato
concepito dalla nascita dell’uomo. Oggi, noi avvieremo qualcosa di altrettanto
magnifico. Da oggi ha inizio la rivolta più grande che la storia abbia mai
visto: la Rivoluzione di Eglon, e tutti voi siete fin da ora chiamati a farne
parte.»
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