La strada era stretta. Deserta. Una
fila di alberi la accompagnava sulla sinistra, le foglie che cadevano ad una ad
una come lacrime d’autunno insanguinate. A destra un fosso poco profondo, con
la superficie ricoperta da un’impalpabile pellicola di muschio verde.
Si fermò per un istante ad ascoltare.
C’era un silenzio meraviglioso, che regnava incontrastato su quella strada.
Sentirlo era piacevole. Era come un compagno di viaggio dalle poche parole. Uno
di quelli che non si rifiutano mai al proprio fianco, specie quando il morale
tende a scivolare sotto le suole delle scarpe.
Il sole splendeva in mezzo a un cielo
completamente sgombro, quasi che i suoi raggi avessero fugato ogni residuo di
nuvole. Il tepore sulla pelle era gradevole. L’aria si era fatta più calda,
come se l’estate cercasse in ogni modo di rimettersi sul trono dal quale
l’autunno l’aveva spodestata.
Assaporò ancora per un attimo quel
grazioso ritaglio di quiete, cercando di fissarselo nella memoria quasi con
forza, di seppellirlo da qualche parte, in qualche angolo di terra battuta dal
quale potesse poi recuperarlo, come una capsula del tempo. Quindi riprese a
camminare, e il suono dei suoi passi infranse nuovamente il silenzio.
Udì il cinguettio di un uccello. Lo
cercò con lo sguardo fra i rami degli alberi alla sua sinistra, ma non riuscì a
vederlo. Il suo sguardo spaziò sui campi che si stendevano a perdita d’occhio
dietro i tronchi malaticci, infine ritornò sulla strada e si soffermò a
studiarne le crepe.
L’asfalto era sbiadito, le strisce
segnaletiche erano scomparse. Era una piccola stradicciola di campagna,
abbandonata a se stessa da Dio solo sapeva quanto tempo.
Si avvicinò al ciglio sulla destra,
accanto al fosso, perché gli era parso di aver percepito un leggero sciacquio.
Di nuovo si fermò, di nuovo il silenzio gli riempì le orecchie.
Sogguardò la strada alle proprie
spalle, quella che si era lasciato indietro fin lì. Spostò gli occhi sulla
superficie verdastra del fosso e la percorse lentamente. C’era un’automobile
mezza sommersa, con una chiazza di sangue raggrumato sul parabrezza che pareva
una macchia di ruggine. Stava distesa su un lato, e il muschio aveva cominciato
lentamente ad arrampicarsi sulla lamiera.
Risalì lungo il corso d’acqua con lo
sguardo. Sorvolò un corpo che galleggiava sulla pancia, con il viso immerso e
il muschio che gli invadeva la schiena. Più in là c’era una mano che emergeva solitaria
dal tappeto verdastro, le dite contratte e le unghie che parevano rasoi.
Un’anatra le passò accanto con noncuranza, affondando il becco per catturare
qualche preda succulenta e riemergendo subito dopo per allontanarsi furtiva.
Era stata l’anatra a produrre il
flebile sciacquio che aveva ridestato i suoi sensi poco prima. Annuì fra sé e
sé e ricominciò ancora una volta a camminare lungo la strada, riprendendo il
ritmo e ascoltando i vaghi rumori della natura che facevano da sottofondo ai
suoi passi leggeri.
Avvertì un dolore pungente alla gamba
sinistra e abbassò lo sguardo per controllare. La fasciatura di fortuna,
imbevuta di sangue, si era staccata dalla pelle e lasciava scoperta la ferita
pulsante. Non era un buon segno. Soprattutto, non era prudente stare allo
scoperto in quelle condizioni. Avrebbe potuto attirare l’attenzione di
visitatori poco desiderabili.
Si chinò per sistemare le bende,
appoggiando un ginocchio sull’asfalto slavato, e si rese conto di avere ormai
le punte delle scarpe completamente consumate. Sorrise tristemente e strinse
più forte i lacci della scarpa destra, che si stavano allentando.
Un fruscio fugace. Un movimento alla
sua sinistra, un’ombra che arrancava sotto il sole.
Alzò gli occhi e schermò la luce con
una mano per poter mettere a fuoco. Era la sagoma di un uomo, un contadino che
avanzava verso di lui percorrendo il campo quasi di corsa. L’erba alta, ormai
giallognola per la carenza d’acqua, lo rallentava. C’era tutto il tempo per
potersi occupare di lui.
Sospirò e si portò una mano dietro la
schiena, all’altezza della cintura. Afferrò con fermezza il pezzo di ferro
freddo che gli premeva contro la pelle, come se fosse stato l’ultimo piolo di
una scala a penzoloni su un baratro infinito.
L’uomo emerse dall’erba dorata a pochi
metri da lui, la bocca spalancata e lorda di sangue che già pareva tuffarsi in
avanti. I capelli incrostati di terriccio gli cadevano sulla fronte pallida e a
tratti gli coprivano gli occhi spenti. Protendeva le mani nella sua direzione,
come per supplicarlo di farsi afferrare.
Estrasse la pistola senza emettere un
fiato, consapevole del fatto che la ferita alla gamba e le bende insanguinate
costituivano un’esca più che appetibile.
Puntò la bocca da fuoco della nove
millimetri, una voragine nera come l’inferno, in direzione delle fauci
digrignate del contadino morto, sussurrandogli uno sbrigativo addio, e premette
il grilletto senza esitare.
Nessun commento:
Posta un commento