Il municipio della tranquilla città di
Eglon, Arkansas, era un vecchio edificio squadrato con le pareti color crema,
recentemente ristrutturato da una ditta locale che aveva richiesto al Comune la
bellezza di centoventicinquemila dollari. Il lavoro era stato svolto
accuratamente, d’altro canto, e a nulla erano valse le lamentele del sindaco di
Eglon dopo che il conto gli era stato recapitato in ufficio.
La mattina del dieci settembre, alle
otto precise, il sindaco John Donaldston si presentò in municipio e senza
remore firmò un assegno da venticinquemila dollari intestato alla ditta che si
era occupata della ristrutturazione. Erano gli ultimi soldi che mancavano per
saldare definitivamente il conto, e la scorsa notte il sindaco Donaldston ci
aveva riflettuto a lungo e aveva deciso che sarebbe stato meglio pagare e farla
finita, evitando in questo modo di sollevare ulteriori problemi.
La borsa continuava a saltellare su e
giù, in quelle ultime settimane. Wall Street era ancora molto tesa, e assieme
ad essa tutti gli Stati Uniti, l’Europa e l’Asia. La crisi economica si stava
facendo sempre più pressante, da quando i primi crolli avevano iniziato a
manifestarsi nel corso dell’estate, e John Donaldston sperava in cuor proprio
che la città di Eglon non ne risentisse troppo. Non di nuovo, almeno. Un duro
colpo alle finanze della sua città sarebbe stato indirettamente un duro colpo anche
per lui.
In ogni caso, adesso non era il
momento di preoccuparsi di tutto questo. C’erano parecchi affari urgenti da
sbrigare, quella mattina. Peter Green, proprietario della ditta che aveva avuto
l’appalto per la ristrutturazione, sarebbe passato nel suo ufficio verso le
nove per ritirare l’assegno.
Nel frattempo, John doveva controllare
alcuni permessi che gli erano stati portati il pomeriggio precedente
dall’addetta all’anagrafe. «Ci sono dei dati che non corrispondono», gli aveva
sussurrato Nancy posandogli davanti le fotocopie di carte d’identità e
passaporti di una mezza dozzina di persone che, a quanto sembrava, erano
arrivate in città la settimana prima. «Niente di cui preoccuparsi, molto
probabilmente,» aveva soggiunto, «ma la prudenza non è mai troppa.»
Con
i tempi che corrono, pensò John Donaldston sedendosi alla scrivania con un
sospiro e prendendo in mano un pacchetto di fogli stampati tenuti insieme con
due graffette di plastica gialla.
Alle otto e sedici minuti precise,
mentre John Donaldston dava una scorsa alla fotocopia della carta d’identità di
un certo Samuel Grey, nato a Portland il diciannove ottobre 1982, il municipio
della città di Eglon, situato a lato di Main Street, fu scosso da un violento
colpo di tosse e la finestra dell’ufficio del sindaco esplose verso l’esterno.
Mille frammenti di vetro invasero la
carreggiata, tintinnando sull’asfalto e luccicando come piccoli diamanti,
intanto che le fiamme della detonazione si arrampicavano sulla facciata color
crema appena rimessa a nuovo e la annerivano.
LE
ANIME DI EGLON
PRIMA
STAGIONE
EPISODIO
1
L’ATTACCO
La telefonata arrivò alle nove e mezzo
circa di sabato mattina. Quella telefonata,
naturalmente. Quella che gli era stato detto sarebbe arrivata, e della quale
ovviamente, come accadeva quasi sempre, si era dimenticato.
Saltò giù dal letto, senza curarsi
delle lenzuola appiccicaticce che seguirono i suoi polpacci fino alla porta
della camera, e si proiettò in salotto ancora in boxer, rischiando di scivolare
su un pezzo di carta oleosa che doveva aver contenuto un hamburger, una cosa
come due secoli prima, lasciato sul pavimento del corridoio.
Raccolse il telefono e prese al volo
la chiamata, appena in tempo prima che dall’altra parte riattaccassero.
«Pronto?»
«Stan… Finalmente» bofonchiò Sarah
all’altro capo della linea, in tono seccato.
«Scusa il ritardo, ero a farmi la
doccia. Il mio orologio fa ancora le nove e venti» mentì Stan per cercare di
giustificarsi. A dire il vero, il suo orologio segnava le nove e trentacinque, ma sapeva benissimo quanto
la sua ex moglie ci tenesse alla puntualità e la sera prima, quando lo aveva
chiamato per dirgli dei ragazzi, gli aveva anticipato che l’indomani gli
avrebbe telefonato alle nove e trenta in
punto. E che avrebbe fatto meglio a essere già sveglio e con la cornetta
del telefono tra le mani, perché se l’avesse fatta spazientire ancora una
volta…
«Certo, ne sono sicura» ironizzò
Sarah. Ma almeno non gli aveva dato dell’idiota, il che era già un decisivo
passo avanti nel loro rapporto.
«Allora, per che ora pensi di
portarmeli qui, i mar… i bambini?» s’informò, morsicandosi il labbro e la
lingua prima di finire di pronunciare la parola marmocchi. Ecco un’altra cosa che Sarah detestava: quel termine
adoperato nei confronti dei suoi figli.
E Stan lo avrebbe dovuto sapere molto bene, dal momento che si trattava di uno
dei principali capi d’imputazione elencati da Sarah il giorno in cui gli aveva
annunciato di voler divorziare.
«Portarteli
lì? Stan, pensavo ci fossimo già chiariti a questo proposito…» replicò
Sarah, e Stan fu contento di constatare che l’ex moglie aveva finto di non
accorgersi che li stava per chiamare marmocchi, ma allo stesso tempo si
rabbuiò. Non ricordava di aver sentito nulla, al riguardo. Di solito era così
che facevano: lei glieli portava il sabato sera e lui li riportava a casa la
domenica.
Sarah sospirò, irritata. «Questa sera
vengono a cena a casa nostra i genitori di Robert, e rimarranno qui almeno fino
alle dieci. Per cui è meglio se passi a prendere i bambini… diciamo alle
undici, d’accordo?»
Stan ci pensò su. Alle undici a Eglon?
Questo significava partire almeno un’ora prima, per evitare il grosso del traffico
del sabato sera, e subirsi il ritorno con i piccoli addormentati sui sedili
posteriori, quindi niente musica e niente chiacchiere, incolonnato per le
strade della città alle entrate delle discoteche. Si massaggiò le tempie. Il
solo pensarci gli faceva venire il mal di testa.
«Stan?» insistette Sarah. Aveva
fretta, e si sentiva. Ma fretta di andare
dove, dal parrucchiere?
«D’accordo. Sono lì per le undici»
cedette infine, malgrado la riluttanza.
«Bene. E mi auguro che tu sia puntuale, Stan. Altrimenti questo fine
settimana lo passi senza i ragazzi. Alle undici e zero uno se non sei ancora
arrivato chiudo a chiave la porta e li metto a letto, siamo intesi?»
Zì,
badrona, avrebbe tanto desiderato risponderle Stan. Ma per fortuna si
trattenne, e balbettò un sì incerto ma efficace.
«A dopo» concluse Sarah, nel tono in
cui si pone fine a una transazione commerciale, e riattaccò, lasciando Stan in
boxer ancora mezzo addormentato nel suo salotto semibuio.
Jeremy Barton faceva il poliziotto da
ventidue anni, ormai, eppure doveva ammetterlo: in vita sua non gli era mai
capitato di dover affrontare niente del genere.
Oh, naturalmente aveva ricevuto un
addestramento completo, come tutti quanti lì, del resto. Poi, dopo l’undici
settembre, erano stati stilati nuovi regolamenti per la sicurezza, ai quali
aveva dato una letta piuttosto superficiale, sì, ma perlomeno esaustiva. Solo
che Eglon, nella Contea di Jefferson, Arkansas, non era mai stata una città
troppo pericolosa.
Aveva le sue magagne, sicuro, come no.
Tutte le città ce le avevano. Ma Eglon non era poi tanto grande in confronto
alle metropoli principali. Con i suoi quarantaduemila abitanti si era garantita
una buona fama e persino un proprio aeroporto, ma niente a che vedere con le
vicine Little Rock e Pine Bluff. Quelle sì che erano città grosse, accidenti.
Eglon in confronto era come un facocero di fianco a un elefante e un rinoceronte.
Più facile da gestire, per quanto riguardava la sicurezza, sebbene avesse il
suo giro di criminalità e malavita come il resto delle città americane, e non
si era mai dimostrata eccessivamente pericolosa.
Fino
ad ora, rettificò tra sé e sé Jeremy Barton, aiutando un collega non ancora
identificato a posizionare una transenna davanti all’ingresso del municipio.
Alzò lo sguardo e lo puntò sulla
finestra dell’ufficio del sindaco, attorno alla quale si era annerita buona
parte della parete color crema.
«Barton, vieni qui! Dammi una mano con
questi!» berciò il capo della polizia di Eglon, Gordon Fillback. Jeremy si
volse e squadrò l’andirivieni di poliziotti, la gente che si era accalcata
incuriosita attorno alle transenne, i vigili del fuoco che entravano e uscivano
come se niente fosse dal municipio, una giornalista dai capelli ramati che
protendeva un microfono al di sopra della folla per raccogliere qualche
dichiarazione in esclusiva, un tizio, più in là, che a gran voce domandava che
cosa diamine fosse successo e pretendeva di ottenere una risposta immediatamente.
Scosse la testa e si avvicinò a Gordon
Fillback. «Eccomi, signore» si presentò, e il capo della polizia gli mise tra
le braccia una voluminosa cartella di plastica blu strapiena di carte e
documenti, probabilmente appena prelevata da qualche scrivania all’interno
dell’edificio.
Dietro di lui passarono due poliziotti
che non riuscì a inquadrare bene. Uno dei due, quello sulla destra, gli scoccò
un’occhiata indifferente. Non lo conosceva. Non l’aveva mai visto in centrale,
ne era sicuro, ma forse era uno nuovo. D’altronde c’erano quasi un centinaio di
poliziotti, a Eglon, ed era facile non incontrare qualcuno di loro per diversi
mesi.
I due stavano scortando una ragazza
dall’aria confusa e terribilmente spaventata. Jeremy la riconobbe: era Nancy
Vaugher, la tipa che lavorava all’anagrafe. Sembrava alienata, con quegli occhi
spenti dietro le lenti sottili degli occhiali da vista. Aveva i capelli neri
che le oscuravano per metà il viso, scarmigliati e forse imbrattati di polvere.
Si era salvata dall’esplosione. Il
fuoco aveva divorato solamente due uffici, oltre a quello del sindaco, entrambi
miracolosamente vuoti. L’unica vittima accertata era John Donaldston, amministratore
della città di Eglon. Una grossa perdita. Specialmente per la sua famiglia,
considerò Jeremy mentre si allontanava con la cartelletta di plastica blu
stretta tra le dita contratte.
Chi poteva aver scatenato quel
pandemonio? Chi era il responsabile, e perché mai l’aveva fatto?
Naturalmente, il governatore era già
stato informato dell’accaduto con una telefonata del vicesindaco Thomas Green.
La situazione era grave, ma per adesso la conta dei morti restava ferma a uno e
a Jeremy non sembrava che tirasse una cattiva aria. Quasi sicuramente il buon
vecchio John Donaldston si era fatto dei nemici in città. Magari tra qualche
piccola organizzazione criminale locale, oppure si era invischiato in qualche
brutto affare con la mafia di Little Rock o Pine Bluff. Chissà.
L’idea dell’attentato terroristico non
sfiorò nemmeno per un istante la mente di Jeremy Barton. Non quella mattina, in
ogni caso. No. La prima volta che avrebbe cominciato a pensarci sarebbe stata
quella sera, a casa sua, levandosi i calzini, appallottolandoli e facendo
canestro nel cesto della biancheria sporca.
E ormai, per quell’ora, già tutta
Eglon avrebbe capito che c’era qualcosa che non quadrava.
Inclinò distrattamente la cartella blu
per evitare di scontrarsi con un altro poliziotto e a causa del movimento un
foglio scivolò fuori e andò a posarsi sull’asfalto.
Jeremy Barton sbuffò esasperato e si
chinò per raccogliere il foglio caduto a terra. L’occhio gli cadde del tutto
casualmente sull’immagine in bianco e nero che campeggiava al centro della pagina,
la fotocopia di una carta d’identità.
Strabuzzò gli occhi. Non c’erano
dubbi, non poteva sbagliarsi: la fotografia su quella carta d’identità
apparteneva al poliziotto con il quale aveva incrociato lo sguardo pochi secondi
prima, quello che assieme a un altro se ne stava andando con una Nancy Vaugher
piuttosto impaurita. Il nome riportato a lato, lesse di sfuggita prima di
essere spintonato da un uomo in giacca e cravatta, era Samuel Grey.
Non diede troppo peso alla cosa,
raccolse la fotocopia e la infilò nuovamente all’interno della cartelletta blu.
Nel giro di un minuto si fu allontanato abbastanza da non sentirsi più addosso
il pressante respiro tiepido e omogeneo della calca, e dopo essere entrato
nella volante che lo avrebbe riaccompagnato alla centrale aveva già dimenticato
il nome e il volto di Samuel Grey.
Eglon si trovava poco oltre il confine
della Contea di Jefferson, lungo il corso del fiume Arkansas. Per raggiungerla
da Little Rock, Stan Payton dovette imboccare la Interstate 530 e, prima ancora,
fu obbligato a prepararsi psicologicamente a percorrere diversi chilometri di
notte, con i fari accesi a illuminare l’asfalto scintillante, la musica a
manetta all’andata e un totale silenzio al ritorno.
Era un prezzo che era disposto a
pagare per godersi un weekend con i suoi figli. Dopotutto, li vedeva così di
rado che perdere una sola occasione di stare con loro significava perdere
praticamente ogni appiglio nei loro cuori. C’erano solo la domenica e qualche
volta il sabato per trascorrere del tempo assieme. E non poteva rinunciarci,
non ora che stava finalmente cominciando a poco a poco a riprendersi dopo la
dolorosa separazione.
Era partito da casa alle dieci in
punto, come si era ripromesso di fare durante la breve conversazione telefonica
avuta con Sarah quella mattina, e adesso viaggiava alla velocità media di
settantacinque miglia orarie lungo la I-530, destinazione Eglon, ex casa
Payton.
Una musica soffusa aleggiava
nell’abitacolo. Un pianoforte che scandiva note leggere e cadenzate, sotto gli
accordi lenti di una chitarra.
Un’interferenza assorbì tutt’a un
tratto la musica, sostituendola con un cupo scricchiolio, come una scarica di
elettricità statica. Stan inarcò le sopracciglia, cercando di sistemare la
frequenza, ma l’interferenza permaneva. Dopo pochi secondi, come per magia, se
ne andò da sola, senza che lui avesse toccato più niente, e la musica ritornò.
Stan alzò le spalle e continuò a
guidare. Non era la prima volta che succedeva, e non sarebbe stata nemmeno
l’ultima. Erano cose che ogni tanto potevano capitare. Semplicemente, c’erano
zone in cui certe frequenze faticavano ad arrivare. L’aveva studiato in fisica,
quando era al liceo. Non ricordava la causa di questi fenomeni, in ogni caso
non con esattezza, ma poco gli importava. Finché c’era qualcun altro addetto a
costruire le radio per le automobili, il problema non lo riguardava.
Si accorse di essere in leggero
ritardo solamente quando fu in vista delle luci della città di Eglon, dopo aver
abbandonato la I-530 ed essersi intrufolato in una strada laterale che si
snodava tra i campi e proseguiva per un lungo tratto di buio fino a incontrare
due file parallele di lampioni dall’obliqua luce arancione. Da lì in poi la
carreggiata cominciava a essere leggermente più stretta, ma si trattava
comunque di una strada piuttosto importante.
Erano le dieci e quarantanove, per cui
aveva esattamente undici minuti a disposizione per riuscire ad arrivare in
tempo presso uno dei quartieri periferici dall’altra parte di Eglon, in fondo a
Main Street, nei dintorni di uno dei due ponti che attraversavano il fiume
Arkansas per accompagnare le vie asfaltate in mezzo ai campi che si srotolavano
dall’altra parte.
Un’impresa titanica, valutò Stan, ma
non del tutto impossibile. E poi, c’erano pur sempre almeno cinque minuti di
lasco in più da tenere in considerazione, no?
Non
con Sarah, si contraddisse. Ma stabilì tra sé e sé che se fosse arrivato in
ritardo di qualche minuto avrebbe tirato indietro le lancette del suo orologio
da polso e avrebbe finto di essere convinto della propria puntualità.
Sorrise e i primi edifici di Eglon
iniziarono a ergersi imponenti a lato della via, grossi fabbricati da entrambe le
parti che davano quasi l’impressione di volersi gettare uno contro l’altro per
bloccare il passaggio e schiacciare in questo modo la sua macchina sotto il
proprio peso.
Passando, Stan notò un gruppetto di
furgoni blindati parcheggiati di fronte alla vetrina di un negozio di
aeromodellismo. Non erano della polizia, intuì immediatamente, e neanche del
trasporto valori. Erano completamente neri, e attorno ad essi si era
raggruppato un manipolo di persone dall’aria affaccendata. Uno dei tizi, un
uomo di colore con un’ampia cicatrice sulla guancia sinistra, osservò la sua
auto che passava piano e gli scoccò un’occhiata eloquente: datti una mossa a sparire di qui, sembrò suggerirgli con lo
sguardo, e Stan accelerò. Che fossero ladri? No, poco probabile. Non si sarebbero
posizionati lì, su Main Street, dove tutti li avrebbero potuti vedere senza
problemi. Certo, però, che la cosa appariva alquanto sospetta…
Vide un altro furgoncino blindato,
poco più in là, sulla destra. Anche questo era circondato da una mezza dozzina
di uomini, e uno, indovinò Stan con una certa agitazione che gli lievitava
dentro, indossava una maschera. Non una maschera da Carnevale, pareva piuttosto
una di quelle che si userebbero ad Halloween per fare dolcetto o scherzetto.
Era una maschera che Stan, in assenza di un aggettivo migliore, avrebbe
definito cruda. Un ovale dorato,
probabilmente di plastica o di gomma, premuto contro la faccia da una spessa
fascia elastica annodata dietro la nuca. C’erano i buchi per gli occhi e per la
bocca, e tutto il resto era scomparso. Su una guancia c’era disegnata una
saetta color blu elettrico, in stile Harry Potter. Dall’altra parte un teschio
stilizzato, di quelli con le due ossa incrociate che si vedevano sempre sulle
bandiere delle navi pirata nei film.
Anche l’uomo mascherato lo fissò
mentre passava di lì, e Stan si rese conto per la prima volta da quando era
entrato in città che non c’erano altre automobili sulla carreggiata, escluse
quelle parcheggiate a lato della strada con due ruote sul marciapiede e le
altre due oltre la linea bianca esterna. La luce dei lampioni si era fatta
anch’essa più cruda, proprio come quella maschera laggiù, e per fortuna che le
finestre degli edifici e dei palazzi erano tutte illuminate a dovere,
altrimenti il paesaggio sarebbe apparso decisamente lugubre.
Non c’erano nemmeno passanti, in giro.
I marciapiedi erano deserti, esclusa qualche nera figura che ogni tanto
compariva qua e là come un’ombra intenta a spiarlo, e l’aria pareva stantia.
Fuligginosa, in un certo qual modo, anche se Stan non avrebbe saputo dire
perché gli desse quest’impressione.
C’era qualcosa adesso sull’orizzonte,
scarsamente rischiarato dai lampioni. Qualcosa in mezzo alla strada, ma da
quella distanza non riusciva a capire di che cosa si trattasse.
Consultò di sfuggita l’orologio: le
dieci e cinquantasei. Aveva quattro minuti prima di essere in ritardo, e ce
l’avrebbe fatta se non avesse incontrato altri ostacoli. Ma quando fu
abbastanza vicino da capire che cosa fosse quell’ombra in mezzo alla strada, si
maledì per non aver previsto un qualche intoppo inatteso nella propria tabella
di marcia.
Era stato allestito un posto di
blocco. Ma non dalla polizia. Attorno c’era gente che camminava, gente che si
accalcava, gente che curiosava. La barriera al centro della carreggiata era
costituita da quattro furgoni blindati messi di traverso, simili a quelli che
Stan aveva già visto prima lungo la via, e almeno trenta uomini vestiti di nero
avevano formato un gruppo serrato di fronte alla barricata.
C’erano persone che vociavano al
cellulare. Altri chiedevano agli uomini che avevano costituito il blocco che
cosa stesse succedendo. I tizi vestiti di nero, imperturbabili, non
rispondevano. Stan annotò un unico particolare nella propria testa: la maggior
parte di loro indossava una maschera. Gli altri portavano il cappuccio della
felpa calato sulla testa, e una bandana legata sul volto che copriva mento, bocca
e naso.
Lasciò l’auto sul ciglio della strada,
assieme a molte altre vetture costrette a fermarsi, e scese per avvicinarsi al
posto di blocco. Il suo orologio segnava le undici in punto. Come a conferma,
le campane iniziarono a suonare per annunciare l’ora. Ormai era in ritardo. Ma,
se non altro, stavolta un buon motivo ce l’aveva per davvero.
Un uomo che urlava al telefonino gli
passò accanto e le loro spalle si scontrarono. Il tipo, un cinquantenne
dall’aria ostile con capelli e barba bianchi tagliati piuttosto corti, lo
ignorò completamente e continuò a camminare inviperito.
«Mi scusi, che cosa sta succedendo?» domandò
Stan a un altro uomo che se ne stava lì immobile con le mani infilate nelle
tasche dei jeans.
L’interessato si voltò a guardarlo con
aria assorta, e in tono meditabondo alzò le spalle e mormorò: «E chi lo sa? C’è
stato un attentato, stamattina. Hanno fatto esplodere l’ufficio del sindaco, e adesso
sono arrivati questi tizi che devono essere della CIA,
oppure dell’FBI, o che cavolo ne so io.
Probabilmente appartengono a qualche nuovo dipartimento per la sicurezza
nazionale. Hanno detto alla polizia di non allarmarsi, che lo sceriffo di
contea arriverà presto, e intanto vogliono bloccare la città.»
«Devo andare a prendere i miei figli.
Abitano a un isolato da qui, oltre quei furgoni. Come accidenti faccio a
raggiungerli?» disse Stan, alzando le braccia e facendosele ricadere lungo i
fianchi con fare impotente, sentendosi addosso lo sguardo dell’uomo che gli
aveva appena spiegato in quattro e quattr’otto la situazione.
«Non ne ho idea. Ma forse il mio amico
Frank, qui, può darti una mano…» Si girò e batté sulla spalla a un altro,
facendolo voltare.
«Ehi Frank, c’è qui un tipo che deve
passare dall’altra parte del posto di blocco per prendere i suoi figli. Dove
gli diciamo di andare?»
Frank lo squadrò dall’alto in basso,
esaminandolo superficialmente, storcendo la bocca dietro una barba lunga e
crespa che doveva aver visto anni decisamente migliori. «Mi sa che più di tutto il resto ti conviene andare a
fartelo mettere dove dico io, se davvero intendi passare dall’altra parte dei
furgoni. Però, se hai un po’ di pazienza, puoi aggirare il quartiere da quella
parte» gli mostrò, indicando una via laterale che si inoltrava nel buio tra le
saracinesche abbassate di una libreria e una vetrina che esponeva giocattoli.
«Dovresti sbucare fuori in una strada parallela. Non so se hanno bloccato anche
quella. È una stradina piccola, e da lì in poi ti devi arrangiare.»
«La ringrazio!» esclamò sincero Stan,
e prima di dover sopportare un’altra zaffata di quell’alito che sapeva di birra
e di sigarette scadenti si avviò nella direzione che gli era appena stata segnalata.
Attraversò a piedi una viuzza buia, si
inserì in una strada vuota rischiarata da lampioni dalla luce biancastra e
superò un altro paio di vie secondarie. Lungo una di queste incrociò un altro
furgone e passò avanti, incurante delle occhiate pesanti che gli lanciarono alcuni
uomini mascherati.
Che cosa stava accadendo? Tutto questo
non era affatto normale, e Stan se ne accorgeva ogni minuto di più, anche se
non riusciva a capacitarsene appieno. FBI,
CIA, dipartimenti per la sicurezza
nazionale… tutte cazzate. Quei tipi non erano del governo, almeno tanto quanto
non erano della polizia. Che cosa stava succedendo, maledizione?
Oltrepassò un condominio con un vasto
balcone che dava sull’esterno, dal quale una famiglia osservava sconcertata
l’orizzonte, quasi che laggiù, da qualche parte, si scorgessero immani esplosioni.
Non poteva fermarsi, non ora. Non erano cose che lo riguardavano. Lui voleva
soltanto prendere con sé i propri figli e andarsene. Gli bastava questo.
Finalmente giunse in vista dell’abitazione
nella quale vivevano la sua ex moglie e i loro due figli. Assieme al nuovo
fidanzato di Sarah, chiaramente. Come dimenticarsi del buon vecchio Robert?
Già, peccato che quella era stata casa sua,
una volta, e che dopo averlo sfrattato e mandato a vivere a Little Rock quei
due avevano ancora il coraggio di farlo venire lì quando doveva prendere e riportare i figli.
Ma non voleva fare scenate. No, non
sarebbe stato un comportamento da adulti mettersi a impiantare rogne. Meglio
far finta che andasse tutto bene, almeno finché i bambini non fossero cresciuti
a sufficienza…
Di’
la verità, Stan. Quando mai avresti
il coraggio di metterti contro Sarah? La voce della sua coscienza lo
riportò alla realtà, facendogli capire che quella che vedeva era stata casa sua, ma non sarebbe
tornata ad esserlo mai più.
Si mise a correre e si girò una volta
sola, per vedere l’imponente posto di blocco con i furgoni blindati messi di
traverso e la gente assiepata attorno. Raggiunse il vialetto d’ingresso
dell’abitazione in cui vivevano Sarah e i suoi due figli
(e
Robert, non dimentichiamoci di quel simpaticone di Robert)
e suonò il campanello, trafelato, cercando di ricomporsi
prima che Sarah gli venisse ad aprire.
Udì dei passi provenire dall’altra
parte della porta. Iniziò a battere un piede per terra, ritmicamente. Si
sentiva nervoso, e non vedeva l’ora di rimettersi in macchina e ripartire con i
suoi figli per lasciarsi Eglon alle spalle. Almeno fino all’indomani.
Sentì i catenacci che venivano rimossi
e la chiave che schiudeva la porta. Quindi l’uscio si aprì, adagio, rivelando
il volto tirato e perennemente malinconico di Robert.
«Ciao, Stan» sussurrò con voce atona.
«Ciao Robert.»
«Sarah sta arrivando. Ha appena messo
a letto i bambini. Dalle un minuto» borbottò, e richiuse la porta in faccia a
Stan.
Stan sentì che la rabbia e l’agitazione
stavano crescendo. Si era scordato di tirare indietro l’orologio, e ormai in
ogni caso non faceva più alcuna differenza. Era in ritardo, e il giudizio di Sarah
sarebbe stato implacabile. Forse soltanto la fine del mondo avrebbe potuto
farle cambiare idea, ma, ad essere sincero, Stan non ne era neppure tanto
sicuro.
La porta si riaprì un istante dopo per
lasciar uscire la esile e graziosa figura di Sarah, che superò la soglia e si
strinse della camicia da notte viola con i fiorellini ricamati che Stan le
aveva regalato lo scorso Natale. La donna appoggiò la porta, senza chiuderla, e
si rivolse al suo indirizzo con aria profondamente amareggiata.
«Sei in ritardo» esordì, e il suo tono
non ammetteva repliche. Stan abbassò la testa e annuì lievemente, guardandosi
le scarpe.
«Sei sempre il solito» riprese Sarah
come se il suo ex marito le avesse risposto. «Hai deluso profondamente i tuoi
figli, sappilo. Michael non voleva saperne di andare a letto prima di averti
visto, e l’ho dovuto costringere, dicendogli che avevi chiamato e che non ce la
facevi a venirli a prendere questa sera. L’ho dovuto fare. Se mi piegassi e ti
concedessi quello che vuoi quando vuoi,
la prossima volta sarebbe anche peggio. Arriveresti a mezzanotte, invece che
alle undici e venticinque, e la volta dopo ancora saresti qui per l’una con
un’altra scusa. Nossignore, non mi farò trattare così da te. Mai più» illustrò
con fare sempre più adirato, gli occhi accesi di rancore e le labbra sottili e
pallide.
«Hanno bloccato Main Street, Sarah. Ho
dovuto lasciare la macchina e aggirare il blocco attraverso alcune vie
laterali. Sarei stato puntuale, se non mi avessero… dirottato!» cercò di giustificarsi Stan appena l’ex moglie gli ebbe
concesso un istante di respiro, ma Sarah prese a scuotere la testa in segno di
diniego.
«Nossignore, mai più mi tratterai in
questo modo. Per chi mi hai presa? Per una credulona? Mi hai presa per tua
madre? Non sono tua madre, Stan, non lo sono mai stata, e se credi…»
«Vieni a vedere tu stessa, allora!» la
interruppe Stan, nonostante sapesse che un’altra delle cose che Sarah
maggiormente odiava era essere interrotta mentre parlava.
La donna si fermò e lo fissò con un
pizzico di stupore.
«Stanno bloccando tutte le strade
della città per via dell’attentato al sindaco di stamattina, presto sarà qui lo
sceriffo di contea a dare un’occhiata. Devo partire subito con i ragazzi, se
non voglio ritrovarmi bloccato qui per tutta la notte…» continuò Stan vedendo
che l’ex moglie gli lasciava spazio. Ma Sarah non lo stava più ascoltando e
prese a muovere un paio di passi in avanti, superandolo e restando immobile in
mezzo al vialetto d’ingresso con la bocca spalancata e gli occhi tremolanti.
«…che cosa…?» incominciò Stan, ma gli
fu sufficiente voltarsi per scoprire che, qualunque cosa stesse per dire,
oramai non aveva più importanza.
Più in là, in mezzo alla strada, in
corrispondenza del posto di blocco che aveva obbligato Stan a scendere
dall’auto e proseguire a piedi, un enorme carro armato stava avanzando adagio
tra gli edifici, accompagnato da una ventina di persone le cui silhouette si
stagliavano a malapena nella penombra della notte.
Un carro armato al centro di Main Street.
E dietro di esso ce n’era un altro, e poi ne seguiva un altro ancora. Stan si
passò una mano fra i capelli, disorientato. Che cosa diavolo stava succedendo a
Eglon?
«Accidenti, la tivù non riceve un solo
canale, dev’essersi rotta la parab…» principiò Robert uscendo di casa con fare
seccato, e subito anche lui si pietrificò in mezzo al vialetto d’ingresso
dell’ex casa Payton e rimase congelato a guardare l’avanzata silenziosa ma
costante di quegli enormi carri armati.
Un solo pensiero attraversò rapido la
mente di Stan, orribile come la scena di un omicidio: era quasi mezzanotte.
Erano le undici e quaranta anzi, per la precisione, e venti minuti più tardi sarebbe
scoccato il nuovo giorno.
Dunque, per rendere quei conti molto
di più che semplici numeri, ecco la sconcertante, terrificante verità: venti
minuti ancora e sarebbe stato l’undici di settembre. L’anniversario dell’attentato
agli Stati Uniti d’America che aveva cambiato la storia per sempre, proclamando
l’inizio di una nuova guerra e scatenando, con oltre duemila morti, un
conflitto che avrebbe portato altre vittime, altro sangue, altro dolore.
L’uomo
non impara mai dai propri sbagli, pensò distrattamente Stan Payton, e
rimase lì impietrito a osservare quella macabra sfilata di carri armati su per
Main Street, a Eglon, Arkansas, mentre attorno a lui già si respirava l’aria
greve di una tremenda battaglia.
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