I residui dell’incubo che aveva
avuto un paio di stazioni prima erano stati lavati via con cura dai suoi pensieri,
come pezzettini di sapone sul bordo del lavandino con una passata di spugna.
Adesso si sentiva meglio, più sereno, ed era riuscito a rimettersi a leggere in
compagnia del silenzio di Francesca.
Il tipico odore di bruciato dei
freni firmati Trenitalia invase lo
scompartimento e le loro narici quasi con gentilezza, insinuandosi leggero.
Roberto ascoltò il fischio delle ruote che slittavano sui binari cercando di
accumulare più attrito possibile. Tenne il segno con un dito e abbassò il
libro, spostando lo sguardo all’esterno.
Si era perso il nome della
stazione. Ma era un posticino piccolo, con due coppie di binari che
transitavano accanto alla piattaforma di discesa in cemento armato. Niente
copertura per i passeggeri che fossero scesi, ma perlomeno aveva smesso di
piovere. Fuori pareva non ci fosse nessuno ad aspettare il treno. Meglio così, rifletté. Almeno fino alla prossima fermata non
dovremo condividere lo scompartimento con nessun altro. La stazione vera e
propria, un modesto edificio squadrato con un grosso orologio analogico sulla
facciata, sembrava deserta. La porta era aperta, ma all’interno non si riusciva
a cogliere alcun movimento.
Lanciò un’occhiata veloce a
Francesca e vide che era ancora immersa nella lettura. E beata lei che riusciva
davvero a concentrarsi sulle pagine, pensò. Lui non riusciva a finire un
capitolo senza pensare ai tre giorni che sarebbero venuti. Alle cose di cui
avrebbero dovuto parlare. Alle discussioni che sarebbero sorte, e alle lacrime
che avrebbero versato in silenzio, nascondendosi per non farsi scoprire intenti
ad asciugarle.