Il nonno abbassò lo sguardo sulle proprie dita nodose. Stringeva la pipa in una mano, e con l’altra la stava pensosamente ricaricando. Il movimento appariva fatalmente meccanico, come quello del braccio robotico di un macchinario. A forza di compierlo, lo aveva ormai fatto proprio. Maneggiava con destrezza il tabacco, lo pressava con delicatezza e decisione. Una naturale azione quotidiana che, nella sua semplicità, rifletteva l’animo dell’uomo che la compiva.
Il ragazzo rispettò il suo silenzio e rimase in attesa, osservandolo. Il nonno aveva i capelli bianchi come una distesa di neve, ma ancora folti, e ben pettinati. Il suo volto, solcato da rughe che sembravano formare un intricato e complesso sistema di irrigazione agricola, era teso in un’espressione di concentrazione. Gli piaceva stare ad ascoltarlo quando aveva da raccontargli qualcosa. I suoi occhi diventavano lucidi quando andava a riesumare ricordi dal proprio passato in parte sepolto. Far riaffiorare in superficie memorie dimenticate sembrava riscuotere tutto il suo corpo, come se per qualche minuto il peso degli anni fosse magicamente affievolito. La sua voce roca, uniforme e solida come il tronco di una quercia, trasmetteva tutti i suoi stati d’animo, infondendo un certo senso di sicurezza.
Il silenzio che li avvolgeva pareva inesauribile. L’unico soffuso rumore che li abbracciava, gentilmente, era il fievole sussurrio dell’acqua che scorreva lungo il fiumiciattolo a lato della casa. Sentire quel suono che pian piano si dilatava nell’aria era piacevole. Ascoltandolo veniva naturale immaginarsi l’acqua limpida e cristallina che si rincorreva senza sosta, incanalata nel proprio percorso. L’ovvia conseguenza era il desiderio di immergervi le mani a coppa e portarsene un po’ alle labbra. Su questo rimuginava il nonno. E, allo stesso tempo, era consapevole che suo nipote non avrebbe mai formulato un pensiero simile. Il ragazzo sapeva benissimo che quell’acqua non era poi così pulita. Al contrario, era sporca e inquinata; lo era da quando ne aveva ricordo. Per quanto riguardava lui, invece… Be’, lui aveva vissuto parte della propria esistenza in quegli anni nei quali ancora le donne lavavano i panni nei fossi dietro casa. Perciò, non aveva mai perduto la speranza di avvicinarsi a quel fiumiciattolo, un giorno, e poterne effettivamente assaggiare l’acqua che sentiva gorgogliare e mormorare accanto a sé tanto gioiosamente ad ogni ora.
Il nonno terminò di caricare la pipa e la accese, traendone un’intensa e confortante boccata. Una nuvoletta azzurrognola di fumo, pigramente, rese scuro per un attimo il suo volto.
«La senti questa voce?» domandò l’accento cavo e compatto del vecchio, interrompendo finalmente quel silenzio che si era posato sulle loro spalle come uno strato di rugiada nascosto dalle torve ombre della notte.
Il ragazzo si guardò rapidamente attorno inarcando le sopracciglia e corrugando la fronte. Il nonno lo fissò mentre esaminava attentamente l’ambiente circostante per individuare la risposta alla sua semplice domanda. Alla fine, vide uno sguardo di muta rassegnazione comparire nel suo volto, e gli sorrise rassicurante.
«Sto parlando del mormorio del fiumiciattolo, naturalmente» spiegò con pazienza, lasciando trapelare un’altra nuvoletta di fumo dall’angolo della bocca opposto a quello che stringeva delicatamente la pipa.
«L’acqua?»
«Sì, esatto. La senti?»
Il ragazzo annuì con aria perplessa. Erano seduti sulle seggiole da giardino appena fuori dall’ingresso dell’abitazione dei nonni, all’ombra di un’imponente magnolia. La quiete di quel posto era sempre stata magica, per lui. Ricordava quando da piccolo andava a trovare i nonni e passava le mattinate e i pomeriggi seduto a leggere all’ombra della grande magnolia. Il bisbiglio delle acque del fiumiciattolo era strettamente legato a questi ricordi. Gli ritornò in mente, bussando alla porta delle sue memorie con cortesia.
«Sì, la sento» confermò, come se queste tre parole potessero esprimere tutto ciò a cui stava pensando in quello stesso momento.
«Non credi che sia uno dei suoni più dolci che esistano al mondo?» chiese allora il nonno, scrutando il cielo e le nuvole che veleggiavano nella sua nitida vastità.
«Hai ragione, lo è» asserì il ragazzo, indotto a dare questa risposta più dall’espressione assorta e meditabonda del nonno che da una vera e propria convinzione. Il vecchio riportò lo sguardo su di lui e gli sorrise. Decise che voleva renderlo partecipe dei propri pensieri. In fondo, era un ragazzo sveglio. Avrebbe capito.
«Sai, una volta questi posti avevano un volto molto diverso» esordì, sistemandosi sulla propria seggiola per stare più comodo e narrare con calma al nipote le storie che gli voleva raccontare. «Il rumore dell’acqua era quello che più teneva impegnato l’udito, ad ogni ora del giorno e della notte. Lo si sentiva praticamente ovunque. Tutto attorno al centro del paese c’erano solo campi, e le poche case sparse erano circondate da fossi, canali d’irrigazione e grandi e piccoli corsi d’acqua. Il paese intero, da una parte all’altra, pareva quasi emergere dall’acqua.»
Si prese la sua pausa. Un fantasma passò rapidamente davanti al suo viso, fuoriuscendo dalle sue labbra screpolate e sorvolando i suoi capelli candidi pettinati all’indietro.
«Tutti i territori attorno alla città di Vicenza, lungo l’intera provincia, erano grandi distese di campi verdeggianti, intervallate qua e là da piccoli gruppetti di case. I terreni, poi, erano bagnati da ogni lato per mezzo di fossi e canali appositamente creati dagli agricoltori. Non che adesso non esistano più, sia chiaro. Ma di certo rivestono un ruolo di tutt’altra importanza. Ormai la maggior parte di essi sono soltanto solchi nel terreno, trincee vuote che conservano i ricordi dei tempi che furono.»
«Doveva essere proprio bello» farfugliò il ragazzo con fare interessato.
«E lo era» approvò il nonno, accompagnando le parole con un solenne cenno affermativo del capo. «Era uno spettacolo passeggiare per i campi dei paesi. Si vedeva acqua cristallina traboccare da tutte le parti. Con gli altri ragazzi, i pomeriggi d’estate, si andava a giocare giù al fiume, e nelle giornate più calde bastava conficcare un bastone a qualche metro dalla riva, anche senza andare troppo in profondità, e subito un getto d’acqua zampillava fuori dalla terra e ci si poteva bagnare e si poteva anche berne senza problemi, perché era acqua pulitissima. Adesso nessuno si sognerebbe di fare mai una cosa del genere. A meno che non si tratti di qualcuno che voglia farsi del male.»
«Già, purtroppo è così. Ne parliamo anche a scuola, qualche volta. Quando esce il discorso dell’inquinamento, è inevitabile discutere sulla questione del cosiddetto oro blu. Dicono che l’acqua pulita diventerà una cosa talmente preziosa da superare nel prezzo persino l’oro e il petrolio» spiegò il ragazzo, sentendosi chiamare in causa.
«E sono ottimisti, quando dicono questo. L’unico dettaglio per nulla irrilevante è che dell’oro e del petrolio possiamo anche fare a meno. Dell’acqua no, invece. Ci serve per vivere. Senza, siamo destinati a non avere un domani» soggiunse il nonno sottovoce, quasi che fosse un segreto. «Ma alla maggior parte delle persone, questa cosa non interessa. Lo sanno più o meno tutti, eppure continuano a sprecare l’acqua del nostro territorio. Lo sai che noi abitiamo in una delle zone più ricche d’acqua che esistano?»
«Per via delle falde, non è vero?»
«Esatto, proprio così. Il sottosuolo è colmo d’acqua, ma quello che invece non sai è che ci sono fabbriche che ogni giorno le sfruttano a mo’ di bidoni della spazzatura e vi scaricano i propri rifiuti e i prodotti chimici di scarto, rendendo inservibili persino le falde più profonde.»
«Ma è orribile!» esclamò il ragazzo. A dire il vero ne aveva già sentito parlare, ma mai con un tono sincero e preoccupato come quello che aveva assunto ora il nonno nell’esporgli tali terribili verità. Udire certe cose pronunciate da una voce tanto angosciata era sconcertante.
«E non solo. È anche tremendamente pericoloso e immorale. Ma d’altro canto a che cosa interessa a quella gente che si cura solamente dei soldi? Loro si occupano di profitti, e più riescono a mettersi in tasca meglio è. Si preoccupano di assicurarsi un’esistenza tranquilla per gli ultimi anni di vita, e per quanto riguarda le generazioni a venire… Mi sembra ovvio, se ne infischiano!» sentenziò il nonno con fare alquanto disgustato.
«Ma perché? Com’è possibile che non si possa fare niente per tutto questo?»
Il nonno lo guardò intensamente negli occhi. Quanto volesse sapere, non poteva capirlo. Ma restava il fatto che lui aveva voglia di raccontare, di renderlo partecipe dei propri pensieri e delle proprie riflessioni in merito. Chissà, magari lui, un domani, avrebbe potuto fare qualcosa… Intanto spiegargli quale fosse il suo punto di vista non gli costava nulla. Se non altro, lo avrebbe sensibilizzato riguardo un tema tanto trascurato eppure tanto delicato.
La sua memoria conservava innumerevoli ricordi che avevano a che fare con le acque di quei territori. In quel preciso istante stabilì che li avrebbe condivisi con il nipote quel giorno stesso. Dopotutto, il tempo che aveva a disposizione da passare con lui era sempre meno…
«Su, vieni con me» gli disse senza tanti giri di parole, e alzatosi a fatica dalla seggiola si avviò, appoggiandosi al proprio bastone, verso la porta d’ingresso. Aveva ancora la sua pipa tra le labbra, e appena si fu proteso all’interno dell’entrata il ragazzo lo sentì chiamare la nonna e gridarle: «Noi usciamo a fare due passi! Non stiamo via molto!»
Udì la fioca risposta della nonna raggiungerli dall’altro lato della casa, probabilmente dal terrazzo dove stava stendendo i panni ad asciugare, e il nonno si volse con un sorriso e si mise in cammino senza aggiungere altro in direzione del cancello che delimitava l’accesso al giardino.
«Dove andiamo?» s’informò il ragazzo mentre il cancello di casa si richiudeva alle loro spalle e il nonno zoppicando attraversava la strada con il proprio bastone a sorreggerlo.
«Andiamo verso il fiume. Voglio vedere l’acqua scorrere, per raccontarti il ruolo che essa ha rivestito nel corso della mia vita» chiarì laconicamente il vecchio facendo calare tra di loro un sipario di silenzio. Il giovane lo seguì, accettando e rispettando senza riserve l’assenza di parole che accompagnava i loro passi.
Così attraversarono il paese, due figure lente e silenziose lungo i marciapiedi deserti e le strade poco affollate, finché non giunsero ad arrancare verso la cima del ponte che metteva in collegamento i due lati del centro abitato separati dai rispettivi argini.
Quando furono in cima, il nonno tirò un sospiro di sollievo, e subito il suo sguardo fu attratto dall’acqua che scorreva sotto i loro piedi. Gli alberi che crescevano accanto al fiume si sporgevano temerari dalle rive, gettando i propri rami verso la corrente e accarezzando la superficie dell’acqua con le proprie foglie, increspandola con garbo, creando un’infinita catena di arricciature che si susseguivano tra i flutti e i gorgoglii.
«Sai, l’alluvione dell’anno scorso, quella dell’1 novembre 2010, è un’evidente prova di quanto importanti siano le nostre acque» riprese finalmente il nonno dopo essersi ricaricato la pipa e averla nuovamente accesa. «I disastri che ha provocato sono un segnale fin troppo chiaro. I nostri territori sono alimentati da quelle acque, da questo fiume e da tutti gli altri canali che attraversano i nostri paesi, e se non li curiamo, se perdiamo di vista la loro preziosità, il loro immenso valore, finiscono per ribellarsi. Nel corso dei decenni abbiamo domato le acque, le abbiamo incanalate e le abbiamo adoperate per produrci il sostentamento di cui avevamo bisogno. Ma negli ultimi tempi, forti del nostro progresso e del senso di superiorità che ne deriva, le abbiamo trascurate e abbandonate a loro stesse. Ed ecco i risultati. Guarda la nostra vicina città di Vicenza, che anche dopo l’alluvione ha vissuto alcuni giorni di panico con i diversi allarmi che si sono succeduti ad un ritmo a dir poco spaventoso.»
«Ma era già successo, non è vero? C’era già stata un’altra alluvione, quando mio papà era piccolo» intervenne il ragazzo, ricordandosi dei racconti del padre.
«Sì, è così. L’alluvione del ’66 fu drammatica quanto quella del 2010. L’acqua uscì anche qui, su questo stesso ponte, quell’anno. Me la ricordo. La vidi dal paese. Correva sopra la strada, come se il fiume passasse normalmente al di sopra del ponte, proseguendo oltre il livello degli argini. Fu uno scenario terrificante. Tuo padre aveva un paio d’anni all’epoca, e tua zia ne aveva già compiuti sei. Quando l’acqua ci arrivò in casa fummo costretti a portare al piano superiore tutto ciò che potevamo salvare. In poche ore occupò per un buon metro e mezzo l’intero pianterreno. Quando si ritirò dovemmo buttare via tutto quello che era rimasto giù, e tutto sommato fummo fortunati in confronto ad amici e vicini che avevano case di un solo piano…»
«Non sapevo che fosse stata così violenta anche nel ‘66» commentò il ragazzo. Quelle vicende non gli erano mai state descritte così dettagliatamente. Sentirle ora, alla luce degli avvenimenti dell’anno precedente, delle immagini che aveva ancora in mente e che mostravano il centro di Vicenza allagato e sommerso dal fango, gli faceva venire la pelle d’oca.
«Vedi, ragazzo mio, l’acqua per il nostro territorio è una benedizione e al contempo una minaccia sempre incombente. Saperla gestire non è facile e richiede una cura costante. Ma è estremamente importante che ci si preoccupi di essa, perché i corsi d’acqua sono per il nostro territorio come l’apparato circolatorio di un organismo: i fiumi rappresentano le arterie e le vene del nostro corpo, torrenti e fiumiciattoli sono i capillari, e le falde possono essere considerate come il cuore pulsante dell’intero essere vivente. Senza il sangue, noi moriremmo: allo stesso modo morirebbero le nostre terre se rimanessero senz’acqua, e non parlo soltanto dei campi, ma di tutto ciò che ci circonda» illustrò il nonno comprendendo con un ampio gesto del braccio il panorama che si offriva ai loro occhi e lo scorrere del fiume sotto le suole sospese delle loro scarpe.
«Così, l’avvelenamento delle acque potabili del pianeta si traduce in un folle atto di autodistruzione…» valutò il ragazzo, seguendo lo sguardo del nonno che si posava sulle montagne distanti, contorni lontani resi vaghi e indefiniti dall’umidità che aleggiava sulla pianura.
«Autodistruzione, sì, resa ancor più grave dal fatto che si tratta di un’autodistruzione consapevole. Veleni e rifiuti che come tumori inquinano il sangue delle nostre terre e le fanno ammalare, ferendo l’ambiente e i suoi abitanti che quel sangue stesso tenta invano di mantenere in vita. E tutti lo sanno, ma chi può fare qualcosa se ne sta impassibile ad osservare lo scorrere degli eventi, seduto a braccia conserte su una montagna di soldi che, in ogni caso, non potrà portare con sé nella tomba. Guardati attorno: ovunque non puoi scorgere altro che colate di cemento che come trombosi otturano le vene dei nostri corsi d’acqua e ricoprono tutto alla stregua di sterminate distese di cenere» sibilò il nonno spostando la propria attenzione sui cantieri che, ai piedi del ponte, erano affollati di muratori e macchinari che stavano gettando le fondamenta delle abitazioni per un nuovo quartiere.
«È disgustoso, lo so. Ma come hai detto tu stesso, non possiamo fare molto. Parlare non serve, agire non è sempre possibile. Ci sono un sacco di interessi sotto. Fermare questo processo di autodistruzione non è semplice come sembra.»
«No, infatti. Non lo è. Ma io amo queste terre. Questo è il paese in cui sono nato e cresciuto, e dove vivo ancora oggi, a settantasette anni suonati. Pensare che forse un giorno le sue belle acque, già adesso inquinate, non ci saranno più mi mette addosso una terribile tristezza» replicò il nonno in tono amaro. Ancora fumava la sua pipa, e un alone di angoscia lo fasciava. «Sai, mio padre, il tuo bisnonno, mi chiamava sempre con lui quando andava ad irrigare i campi. Non ho mai avuto modo di aiutarlo, perché morì presto, e al suo funerale si scoprì che suo fratello aveva sperperato tutti gli averi della famiglia con il gioco d’azzardo. La maggior parte dei terreni del paese, da qui per almeno cinque chilometri, erano di mio nonno. Poco dopo la morte di mio padre, i miei zii furono costretti a vendere tutto per pagare i debiti del loro fratello scapestrato. Mia madre visse un periodo davvero difficile, sola con quattro figli. Ci trasferimmo da alcuni cugini che ci ospitarono. Quel mio zio che aveva scialacquato l’eredità famigliare, invece, se ne andò, e nessuno lo rivide mai più. Questi posti, questi fossi, le insenature del fiume… Conosco il paese molto meglio delle mie tasche, è poco ma sicuro. Mi dispiace sapere che un giorno non ci sarà più per colpa di quelle industrie che contengono le spese di smaltimento dei propri rifiuti pericolosi scaricandoli direttamente nei fiumi o nelle falde del nostro fertile territorio» ammise il nonno con gli occhi lucidi.
Il ragazzo tacque. Avrebbe voluto rispondere qualcosa, rassicurarlo in qualche modo. Ma non poteva farlo, e lo sapeva bene.
«Viviamo in un mondo che lentamente appassisce, ragazzo mio» riprese il nonno con una voce ora più debole e rauca. «Inesorabilmente, giorno dopo giorno, come un fiore d’autunno quando è giunto il tempo di morire. Un po’ come me.» Si girò a guardare negli occhi il nipote e, tiepidamente, gli sorrise. «Guardaci. Due uomini che si trovano agli opposti margini della lunga passeggiata della vita. Tu appena oltre il punto di partenza, io fin troppo vicino al punto d’arrivo. Conduciamo esistenze diverse, vediamo il mondo in maniera diversa, eppure abitiamo entrambi qui, su queste terre, e forse non le amiamo allo stesso modo, ma di sicuro le rispettiamo. Questo non è un problema che interesserà me in prima persona. E forse, se sarai abbastanza fortunato, non toccherà nemmeno te. Ma saranno i tuoi figli e i tuoi nipoti a dover risolvere la situazione, e probabilmente sarà già ormai troppo tardi. Saranno loro, un domani, a dover pagare gli errori che si stanno commettendo ora. Eredi di un mondo appassito, consumato dai loro predecessori. Ti sembra giusto consegnare al futuro un mondo del genere? È giusto che siano i tuoi figli e i tuoi nipoti, domani, a dover saldare i debiti miei, tuoi e di tutte le persone che vivono qui oggi?»
Il ragazzo scosse leggermente il capo.
«Visto? La pensiamo alla stessa maniera. Eppure… Il nostro mondo continua ad appassire.»
«Come il deserto del Sahara?» domandò allora il ragazzo, ricordandosi all’improvviso quel particolare del quale aveva a lungo sentito parlare.
«Sì, ottima intuizione. Il deserto del Sahara, che un tempo era la zona più fertile e lussureggiante del globo e adesso si presenta come la più brulla e desolata che ci sia. Da qui ci si può ricollegare alla teoria dei cicli, che suggerisce l’esistenza di un continuo susseguirsi di periodi nei quali le terre passano dall’essere fertili al divenire desertiche e viceversa nell’arco dei secoli. Chissà, magari è proprio vero. Ma nel caso del Veneto non si tratterebbe di un’azione naturale, bensì di un’irrimediabile opera artificiale di prosciugamento delle acque pulite del territorio da parte dei suoi abitanti» specificò il nonno.
«Mi sembra una cosa tanto surreale…» confessò il ragazzo pensieroso. Quel futuro inimmaginabile che andavano dipingendo nelle loro menti pareva così lontano e impossibile a realizzarsi…
«Al contrario, la possibilità che accada una cosa del genere è quanto mai reale» rettificò il vecchio sollevando il bastone e puntandolo in direzione delle rive del fiume sottostante, dove una larga striscia di terreno tra il corso d’acqua e il pendio degli argini affiorava da entrambe le parti. «Vedi tutto quello spazio che c’è tra il letto del fiume e i terrapieni? Be’, una volta non era mai sgombro. L’acqua lo occupava quasi sempre, con l’eccezione delle stagioni più secche. Adesso, invece, vederlo riempirsi è cosa rara…»
«Le comunità umane sono sempre state fondate attorno all’acqua, in ogni parte del globo, tanto che molti fiumi sono considerati sacri perfino dalle religioni che li popolano» affermò il ragazzo pensando al Gange, al Tigri e all’Eufrate. «Andare ad inquinare i propri fiumi è quasi come imprecare contro la propria stessa anima.»
«L’acqua è sempre stata sorgente di vita per gli uomini e per le società. Trattarla in questo modo è davvero un paradosso. Come mordere la mano che ci nutre. Nonostante ciò, la gente continua a farlo, incurante delle conseguenze» ribadì il nonno con un sospiro di fumo azzurrognolo. Finalmente si tolse la pipa dalle labbra e la fece cadere nella tasca dei pantaloni, lasciandosi sorreggere dal bastone che continuava a tenerlo in piedi. «Sono vecchio, e non mi preoccupo per me. Non sarò costretto a combattere quando nel mondo scoppierà una guerra per il controllo delle poche fonti d’acqua ancora utilizzabili. Ma ho paura per coloro che verranno, per l’orribile fardello che stiamo loro lasciando. Ho paura per te, per i tuoi figli e per i tuoi nipoti. Ho paura che la vostra esistenza non potrà mai essere come la mia. L’acqua del nostro territorio non sarà mai pura per voi come lo è sempre stata per me.»
Il ragazzo lo guardò. Era la prima volta che vedeva delle lacrime rigargli le guance e percorrere i solchi profondi e incavati del suo viso. Avvertì un nodo alla gola impossibile da sciogliere.
«Guarda com’è torbida l’acqua del nostro fiume» sussurrò il nonno con voce spezzata. «Ho sempre pensato che fosse così torbida perché erano le nostre mani a sporcarla. Ora invece mi rendo conto che quell’acqua è lo specchio dei nostri cuori. Lo specchio dei nostri cuori torbidi che ci chiudono gli occhi e intanto ci permettono di avvelenarla.»
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