«Racconta
al controllore quello che hai raccontato a me, Marco.»
Marco
era un ragazzo mingherlino sulla ventina, dall’aspetto drammaticamente fragile.
Portava i capelli corti e un paio di occhiali dalle lenti spesse come telescopi
astronomici. Era pallido e silenzioso, quasi tremolante, e li fissava con due
occhi sgranati che avrebbero fatto pena a chiunque.
«Ho
visto un uomo» esordì timidamente, e si fermò per verificare che il controllore
lo stesse ascoltando. Roberto, Francesca e Nicola stavano in disparte. Lanciò
un’occhiata fuggevole anche a loro tre, poi inghiottì a vuoto e riprese: «Un
uomo di una certa età. Stava camminando qui fuori, e andava verso la stazione.
Sembrava sorridere.»
Roberto
pensò all’uomo che aveva visto nel suo incubo prima di fermarsi in quella
maledetta stazione, l’incubo delle gallerie. Il vecchio che poi aveva
incontrato nel vagone, che gli aveva risposto allegramente «Davvero non saprei»
quando lui gli aveva domandato come mai il treno non fosse ancora ripartito.
Non ci aveva più riflettuto. Aveva archiviato la cosa come uno spiacevole
scherzetto onirico, uno di quei simpatici déjà vu che a volte si sperimentano
ripensando a un sogno, e che in realtà non significano proprio niente. Quel
vecchio, aveva concluso, c’era stato per davvero nel vagone, ma non nel suo
incubo. L’uomo nel suo incubo non aveva un volto vero e proprio, ed era per
questo che la sua mente aveva associato le due immagini.
«Eravamo
fermi da molto tempo?» lo interrogò il controllore, evidentemente assorto in
pensieri cupi, a giudicare dall’espressione che aveva in faccia.
«Dieci
minuti, direi. Non ho guardato l’orologio. L’ho trovata una cosa normale, lì
per lì» balbettò Marco, stringendosi nelle spalle ossute.
«Quindi
è andato verso la stazione, e poi?»
«E
poi è entrato dalla porta aperta. E non l’ho più visto. Ripeto che non c’ho
fatto molto caso, perché di solito le stazioni sono sempre affollate di gente
che va e che viene. So solo che sembrava felice. Sembrava gioioso, sia nell’espressione che nel modo di camminare. Come se
stesse andando a un appuntamento con una bella ragazza.»
Roberto
rammentò il viso del vecchio incontrato nel corridoio del vagone. Si sentì
accapponare la pelle. Non riuscì a impedirsi di intervenire, e così domandò:
«Credi sia possibile che fosse sceso dal treno?»
I
pochi presenti si voltarono a guardarlo, i più con aria interrogativa. Marco lo
fissò istupidito per qualche istante, boccheggiando. Cercava una risposta
plausibile alla quale aggrapparsi. Era sul punto di precipitare, e non la
trovava… «Non lo so. Può darsi, suppongo» biascicò finalmente, e lasciò andare
il fiato come un sommozzatore appena riemerso dopo una manciata di
interminabili minuti di apnea.
«Ho
bisogno di vedere tutti i passeggeri. Uno per uno» mormorò Roberto,
rivolgendosi al controllore. «Credo di aver incontrato quell’uomo nel corridoio
del mio vagone, prima che Marco lo vedesse passeggiare verso la stazione.»
Il
controllore esaminò i suoi occhi con estrema attenzione, come alla ricerca di
una traccia di menzogna o, peggio ancora, di follia. Dopo qualche istante di
attesa annuì, facendo cenno a Carlo di richiamare tutti i passeggeri che nel
frattempo gironzolavano lì intorno chiacchierando animatamente.
«Ho
bisogno che veniate tutti qui, signori. Per piacere. È importante» tuonò il
poliziotto. La folla iniziò pigramente a radunarsi attorno a lui, sbuffando e
protestando.
«L’uomo
che cerchiamo potrebbe essere coinvolto nella scomparsa del macchinista e
dell’addetto alla biglietteria della stazione?» chiese Francesca con un filo di
voce, disorientata.
«Ne
so quanto te» ammise Roberto, sentendosi dolorosamente impotente. «Ma qui
dev’essere successo sicuramente qualcosa di poco piacevole, e da qualche parte
dovremo pur cominciare per cercare di capire di che cosa si tratti.»
«Sono
d’accordo. Per quanto ne sappiamo, potrebbe essere stato quel vecchio a far
sparire sia il nostro macchinista che l’addetto alla biglietteria. E potrebbe
essere stato lui ad aggredire Antonio De Franceschi, il proprietario dell’auto
aperta nel parcheggio» ipotizzò il controllore, pur mostrandosi egli stesso
poco convinto delle proprie supposizioni.
«Intanto
diamo un’occhiata, poi vedremo» borbottò Nicola.
«Potremmo
approfittarne per fare un rapido censimento» propose Carlo, che nel frattempo
era tornato da loro per sentire cosa si stessero dicendo. «Così non ci
capiteranno altre brutte sorprese. Non sappiamo in quanti siamo, e soprattutto
non sappiamo chi siamo e chi siano
tutte le persone che come noi sono salite su questo treno. Fare una lista
potrebbe aiutarci a prevenire spiacevoli inconvenienti.»
I
passeggeri del treno si radunarono attorno a loro. Roberto e il controllore si
appostarono accanto al portellone spalancato del vagone uno e chiesero
gentilmente al gruppetto di persone di rientrare. Uno alla volta, se possibile,
facendosi guardare bene in viso.
«Temete
che in mezzo a noi ci sia qualche dannato terrorista?» domandò un ragazzo
dall’aria poco raccomandabile in tono sprezzante. Nessuno di loro rispose.
Francesca raccolse semplicemente un’agenda dal proprio zaino e l’aprì su una
pagina bianca, posando la punta di una penna blu sulla carta e preparandosi ad
annotare nome e cognome di ogni singola persona.
Così
iniziò il censimento dei passeggeri del treno partito cinque ore prima da
Padova, ora bloccato in una stazione semisconosciuta sui binari che portavano
verso Firenze. Nessuno di loro poteva ancora sapere quanto quella lista si
sarebbe dimostrata effettivamente utile qualche giorno più tardi. In fondo,
comunque, era meglio così. Se avessero anche solo lontanamente immaginato che
cosa sarebbe accaduto di lì a poco tempo avrebbero fatto di tutto per fuggire
dall’ombra malinconica di quella piccola stazione di pietra, e in questa
maniera si sarebbero inevitabilmente consegnati a un tragico destino. Ignoravano
ciò che li aspettava, e questo salvò le loro vite.
O,
perlomeno, le vite della maggior parte di loro.
Nessun commento:
Posta un commento