giovedì 12 settembre 2013

Solo andata, no ritorno - 11

«Racconta al controllore quello che hai raccontato a me, Marco.»
Marco era un ragazzo mingherlino sulla ventina, dall’aspetto drammaticamente fragile. Portava i capelli corti e un paio di occhiali dalle lenti spesse come telescopi astronomici. Era pallido e silenzioso, quasi tremolante, e li fissava con due occhi sgranati che avrebbero fatto pena a chiunque.
«Ho visto un uomo» esordì timidamente, e si fermò per verificare che il controllore lo stesse ascoltando. Roberto, Francesca e Nicola stavano in disparte. Lanciò un’occhiata fuggevole anche a loro tre, poi inghiottì a vuoto e riprese: «Un uomo di una certa età. Stava camminando qui fuori, e andava verso la stazione. Sembrava sorridere.»
Roberto pensò all’uomo che aveva visto nel suo incubo prima di fermarsi in quella maledetta stazione, l’incubo delle gallerie. Il vecchio che poi aveva incontrato nel vagone, che gli aveva risposto allegramente «Davvero non saprei» quando lui gli aveva domandato come mai il treno non fosse ancora ripartito. Non ci aveva più riflettuto. Aveva archiviato la cosa come uno spiacevole scherzetto onirico, uno di quei simpatici déjà vu che a volte si sperimentano ripensando a un sogno, e che in realtà non significano proprio niente. Quel vecchio, aveva concluso, c’era stato per davvero nel vagone, ma non nel suo incubo. L’uomo nel suo incubo non aveva un volto vero e proprio, ed era per questo che la sua mente aveva associato le due immagini.
«Eravamo fermi da molto tempo?» lo interrogò il controllore, evidentemente assorto in pensieri cupi, a giudicare dall’espressione che aveva in faccia.
«Dieci minuti, direi. Non ho guardato l’orologio. L’ho trovata una cosa normale, lì per lì» balbettò Marco, stringendosi nelle spalle ossute.
«Quindi è andato verso la stazione, e poi?»
«E poi è entrato dalla porta aperta. E non l’ho più visto. Ripeto che non c’ho fatto molto caso, perché di solito le stazioni sono sempre affollate di gente che va e che viene. So solo che sembrava felice. Sembrava gioioso, sia nell’espressione che nel modo di camminare. Come se stesse andando a un appuntamento con una bella ragazza.»
Roberto rammentò il viso del vecchio incontrato nel corridoio del vagone. Si sentì accapponare la pelle. Non riuscì a impedirsi di intervenire, e così domandò: «Credi sia possibile che fosse sceso dal treno?»
I pochi presenti si voltarono a guardarlo, i più con aria interrogativa. Marco lo fissò istupidito per qualche istante, boccheggiando. Cercava una risposta plausibile alla quale aggrapparsi. Era sul punto di precipitare, e non la trovava… «Non lo so. Può darsi, suppongo» biascicò finalmente, e lasciò andare il fiato come un sommozzatore appena riemerso dopo una manciata di interminabili minuti di apnea.
«Ho bisogno di vedere tutti i passeggeri. Uno per uno» mormorò Roberto, rivolgendosi al controllore. «Credo di aver incontrato quell’uomo nel corridoio del mio vagone, prima che Marco lo vedesse passeggiare verso la stazione.»
Il controllore esaminò i suoi occhi con estrema attenzione, come alla ricerca di una traccia di menzogna o, peggio ancora, di follia. Dopo qualche istante di attesa annuì, facendo cenno a Carlo di richiamare tutti i passeggeri che nel frattempo gironzolavano lì intorno chiacchierando animatamente.
«Ho bisogno che veniate tutti qui, signori. Per piacere. È importante» tuonò il poliziotto. La folla iniziò pigramente a radunarsi attorno a lui, sbuffando e protestando.
«L’uomo che cerchiamo potrebbe essere coinvolto nella scomparsa del macchinista e dell’addetto alla biglietteria della stazione?» chiese Francesca con un filo di voce, disorientata.
«Ne so quanto te» ammise Roberto, sentendosi dolorosamente impotente. «Ma qui dev’essere successo sicuramente qualcosa di poco piacevole, e da qualche parte dovremo pur cominciare per cercare di capire di che cosa si tratti.»
«Sono d’accordo. Per quanto ne sappiamo, potrebbe essere stato quel vecchio a far sparire sia il nostro macchinista che l’addetto alla biglietteria. E potrebbe essere stato lui ad aggredire Antonio De Franceschi, il proprietario dell’auto aperta nel parcheggio» ipotizzò il controllore, pur mostrandosi egli stesso poco convinto delle proprie supposizioni.
«Intanto diamo un’occhiata, poi vedremo» borbottò Nicola.
«Potremmo approfittarne per fare un rapido censimento» propose Carlo, che nel frattempo era tornato da loro per sentire cosa si stessero dicendo. «Così non ci capiteranno altre brutte sorprese. Non sappiamo in quanti siamo, e soprattutto non sappiamo chi siamo e chi siano tutte le persone che come noi sono salite su questo treno. Fare una lista potrebbe aiutarci a prevenire spiacevoli inconvenienti.»
I passeggeri del treno si radunarono attorno a loro. Roberto e il controllore si appostarono accanto al portellone spalancato del vagone uno e chiesero gentilmente al gruppetto di persone di rientrare. Uno alla volta, se possibile, facendosi guardare bene in viso.
«Temete che in mezzo a noi ci sia qualche dannato terrorista?» domandò un ragazzo dall’aria poco raccomandabile in tono sprezzante. Nessuno di loro rispose. Francesca raccolse semplicemente un’agenda dal proprio zaino e l’aprì su una pagina bianca, posando la punta di una penna blu sulla carta e preparandosi ad annotare nome e cognome di ogni singola persona.
Così iniziò il censimento dei passeggeri del treno partito cinque ore prima da Padova, ora bloccato in una stazione semisconosciuta sui binari che portavano verso Firenze. Nessuno di loro poteva ancora sapere quanto quella lista si sarebbe dimostrata effettivamente utile qualche giorno più tardi. In fondo, comunque, era meglio così. Se avessero anche solo lontanamente immaginato che cosa sarebbe accaduto di lì a poco tempo avrebbero fatto di tutto per fuggire dall’ombra malinconica di quella piccola stazione di pietra, e in questa maniera si sarebbero inevitabilmente consegnati a un tragico destino. Ignoravano ciò che li aspettava, e questo salvò le loro vite.
O, perlomeno, le vite della maggior parte di loro.

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