Le labbra dell’uomo si lasciano sfuggire
uno sbuffo di fumo che va a mescolarsi rapido con l’aria che respirano,
imbevendola di un odore acre e penetrante.
L’ultima sigaretta di un soldato prima
di scendere al fronte. Quella sigaretta che a ogni buon soldato è giusto
concedere, quando non sa se tornerà vivo per l’ora di cena. L’ultima sigaretta
della quiete che precede la tempesta, fumata con la consapevolezza del fatto
che potrebbe essere l’ultima in assoluto di un’intera esistenza.
Anche il vizio, tutto sommato, si
prende il suo spazio quando la morte incombe. In fondo, si potrebbe quasi dire
che ha il diritto di farlo. Si tratta di un rito puro e semplice, compiuto con
il massimo della freddezza e del distacco per allontanare il più a lungo
possibile il momento dello scontro. Quasi che il fumo che esce dalla sigaretta,
annebbiando la vista, possa nascondere il campo di battaglia ancora pulito. Un
campo di battaglia che, si sa, prima di sera diventerà una distesa di sangue e
resti umani.
È quasi l’alba, e i soldati fumano la
loro ultima sigaretta. Gli unici a non farlo in tutto il campo sono
probabilmente Tom Davis e il comandante Smith. Non si sentono fuori posto per
questo. Niente affatto. Non avvertono il peso della morte sulle proprie spalle,
e non percepiscono il bisogno di dire addio alla vita con quel piccolo gesto
d’umanità palpitante proprio di un corpo ancora caldo.
L’alba si avvicina, e la mattinata si
prospetta nuvolosa. Quasi sicuramente pioverà. Ma sarà una pioggerellina
leggera, sottile, che picchietterà debolmente sui tetti di Eglon e sugli
elmetti dei soldati. I soldati in marcia, quella distesa di uomini che fumano
la loro ultima sigaretta in attesa di imbracciare il fucile e correre a
conquistare la prima linea.
La battaglia sarà sanguinosa.
Finalmente, però, il morale degli uomini sembra essersi risollevato. D’altro
canto, sono tutti soldati: sono lì per combattere, non per passare le giornate
a fumare e giocare a carte in un accampamento poco lontano da casa. L’assedio è
terminato. Le alte sfere hanno dato l’okay: adesso è possibile attaccare. Anzi,
meglio ancora: adesso bisogna attaccare!
È il momento buono, non si può
sprecare un’occasione così propizia. Aprire una breccia nelle barricate di Eglon
e penetrare in città rappresenta la priorità assoluta della giornata. Poi il
conflitto si sposterà nelle strade, lungo i quartieri, dentro i palazzi e le
case. La parte più difficile sarà evitare di coinvolgere i civili, ma lo stesso
Presidente ha ammesso che il costo di vite umane già pagato è fin troppo alto
per sopportare ancora. È necessario agire, ora, anche con il rischio di
sacrificarne pochi per il bene di molti.
Il discorso tenuto dal Segretario
della Difesa pochi minuti prima, via radio, è stato ascoltato con trasporto
dalle truppe. Le parole chiave sono state brevi e concise: proteggere i civili,
eliminare i ribelli, riprendere la città. L’obiettivo è uno e uno soltanto,
dall’inizio alla fine delle operazioni militari: liberare Eglon dalla presenza
dei rivoluzionari, per assicurare pace e sicurezza rinnovate a una popolazione
che ha dovuto subire fin troppe atrocità.
«Soldati» parla finalmente il
comandante Smith, vedendo che quasi tutte le sigarette sono ormai state esaurite.
Gli uomini si radunano rapidamente attorno al loro superiore e si pongono in
ascolto, muti e tesi. «Soldati. È tempo di combattere. Ci è stato ordinato
direttamente dal Presidente degli Stati Uniti di riprenderci questa città
americana in suolo americano, una città in cui vivono i nostri fratelli e le
nostre sorelle, nostri connazionali che hanno piena fiducia in noi. Oggi
dobbiamo essere baluardo della loro salvezza, realizzazione della loro
speranza, vessillo della loro libertà! Siete soldati dell’Esercito degli Stati
Uniti d’America: non dimenticatelo mai, soprattutto quando vi troverete a dover
lottare lungo quelle strade per garantire la sopravvivenza vostra o dei vostri
concittadini. Siate uomini d’onore, uomini di coraggio. Siate le stelle e le
strisce sulla bandiera della libertà! E se darete il massimo di voi stessi,
questa notte ci addormenteremo sereni tra le case di Eglon!»
LE
ANIME DI EGLON
PRIMA
STAGIONE
EPISODIO
30
ASSALTO
AL PONTE
Quella notte David Goldbert non
riusciva assolutamente a prendere sonno. Ci aveva già provato in tutte le
maniere, ma ancora niente. Forse perché quella brandina all’interno del vecchio
ufficio di papà era un po’ scomoda, forse perché le stesse mura del
supermercato dei suoi genitori evocavano in lui troppi ricordi ancora dolorosi,
ferite che erano troppo fresche per avere anche solo iniziato a rimarginarsi.
Il supermercato aveva riaperto i
battenti, e sembrava davvero un miracolo. La gente accorreva in massa a
prendere da mangiare, e in cambio pagava con l’unica moneta che nella città di
Eglon avesse ancora un qualche valore: informazioni. Informazioni richieste dai
ribelli che avevano riempito i suoi scaffali di generi alimentari di ogni tipo.
Informazioni qualunque, anche apparentemente di poco conto, che venivano
scambiate con una scatoletta di tonno o una confezione d’acqua minerale. Per
esempio, chi aveva cercato di contattare chi per farsi dare una mano a
nascondere della benzina, chi vendeva sigarette nei vicoli durante la notte,
chi si era rifugiato in casa d’altri o, in alcuni casi, persino chi si era
rifiutato di aprire la porta a un vicino.
I rivoluzionari raccoglievano sospetti
e denunce, ascoltavano e registravano su un foglietto di carta. Si davano il
turno ogni due ore e stavano accanto alla cassa mentre David e Gabriella
assistevano i clienti e riempivano gli scaffali sempre vuoti. C’era parecchio
da fare, a ogni ora, e il magazzino si liberava molto in fretta. Ma i ribelli
avevano altro cibo nascosto, e ogni tanto qualche furgoncino arrivava e
scaricava in silenzio nuove pile di scatoloni sigillati.
Gabriella in quei giorni era sempre
con lui, a dargli una mano. Non aveva fatto menzione della scomparsa dei suoi
genitori, e di questo le era grato. Gli aveva anche offerto di andare a dormire
da lei, spiegando che sua madre sarebbe stata d’accordo, ma lui le aveva detto
che preferiva rimanere nel supermercato. Era il suo ultimo legame rimasto con
il passato, e gli occorreva ancora un po’ di tempo prima di lasciarsi alle
spalle tutto quanto.
Ad ogni modo, i suoi genitori
sarebbero stati orgogliosi di lui. Questo almeno poteva ammetterlo, anche con
se stesso. Con l’aiuto dei ribelli era riuscito a rimettere in piedi l’attività
quando sembrava che il negozio fosse destinato a chiudere per sempre. Le informazioni
valevano davvero molto, e Maschera Bianca e Rossa, il ribelle suo amico che lo
aveva sostenuto durante tutta l’operazione e che ancora adesso custodiva e
proteggeva il suo supermercato dall’esterno, gli aveva detto che nei prossimi
giorni si sarebbe arrangiato lui ad annotare le notizie scambiate con il cibo.
In questo modo avrebbe avuto il monopolio di un grossissimo flusso di
informazioni, che lo avrebbero ricompensato del lavoro svolto in supermercato.
Collaborando con i rivoluzionari non aveva che da guadagnare, e anche su questo
punto Gabriella era assolutamente d’accordo con lui.
Dopo essersi rigirato tra le coperte
per l’ennesima volta decise di alzarsi in piedi e di uscire a prendere una
boccata d’aria. Abbandonò il vecchio ufficio di papà, ricettacolo di una
popolazione di ricordi legati alla sua infanzia, e aprì la porta del negozio,
raggiungendo la sedia che aveva lasciato sul marciapiede accanto all’ingresso e
prendendovi posto.
La città di Eglon non era mai stata
più buia di così. Niente lampioni, niente luci sulle verande, niente finestre
illuminate. Nemmeno la luna o le stelle, perché erano state nascoste ancora una
volta dalle nuvole. Era tutto buio e silenzioso, e a David piaceva così. In
questo modo, se non altro, era facile pensare e parlare un po’ con se stessi.
Sapeva che il suo amico dalla maschera
bianca e rossa doveva trovarsi lì intorno da qualche parte. Era sempre lui che
sorvegliava quella strada deserta, e qualche volta, la sera, stavano fuori a
chiacchierare anche fino a tardi. Di sogni, di speranze, persino di
letteratura. Non avevano mai parlato della Rivoluzione, ma sapeva che ormai era
soltanto questione di tempo prima che Maschera Bianca e Rossa si decidesse a
tirare fuori l’argomento. La sua sedia, adesso, era vuota accanto a quella
sulla quale si era accomodato David.
Improvvisamente, uno scalpiccio
soffuso invase il silenzio della notte. Proveniva da destra, ne era sicuro. Ma
non riusciva a scorgere nulla. Si sporse sulla sedia, controllando l’ingresso
del supermercato. La strada sembrava ancora desolata, ma era difficile dirlo
con certezza. Troppa oscurità.
Alcune ombre, finalmente, si lasciarono
distinguere nelle tenebre a pochi metri di distanza. Correvano basse, leggere,
come soldati fantasma a caccia di prede notturne. Scivolavano nell’aria simili
a gusci di noce su una pozzanghera di olio d’oliva.
David si alzò lentamente e cercò di
avvicinarsi per vederle meglio. Ne contò sette, ma ancora il buio era troppo
fitto per permettergli di fidarsi completamente della propria valutazione.
Erano un pugno di ombre che sgattaiolavano furtive nel cuore della notte,
correndo radenti alle pareti dei palazzi e imbracciando grossi fucili dai
profili inconfondibili.
E la parte peggiore, in tutto questo,
era che non parevano indossare alcuna maschera.
Quando il Commando Alfa raggiunse il
margine orientale della città era quasi l’alba. Eglon sonnecchiava ancora, ma
molte persone erano già sveglie e ascoltavano il silenzioso fruscio della notte
che strisciava via, lontano, verso terre sconosciute e inesplorate che loro non
avrebbero mai raggiunto nel corso di un’intera esistenza. Molte persone erano
sveglie, sì, e si giravano e rigiravano sul letto in attesa dei primi raggi di
sole della mattinata. Quando in realtà, fuori, le nuvole ricoprivano ogni
centimetro di cielo libero e iniziavano a far cadere sulle abitazioni qualche
isolata goccia di pioggia.
Ben presto, il silenzio fu spodestato
da un ticchettio sommesso e impalpabile, che a poco a poco crebbe di intensità
fino a raggiungere un ritmo rapido e costante. Una pioggia leggera, lanuginosa,
si depositava sulle strade e sui marciapiedi, sui tetti degli edifici e sui
profili immobili dei carri armati, picchiettando debolmente e producendo un
sussurro piacevole.
L’aria fu invasa dal profumo della
pioggia e il silenzio della notte fu sostituito da quello dell’alba, altrettanto
denso, ma meno spaventoso.
Gli uomini del Commando Alfa presero
posizione, allineandosi dietro la parete di un grosso edificio, e Zero Uno, il
comandante, mandò in avanscoperta Zero Due affinché riportasse un abbozzo
sommario di quello che doveva essere il quadro della situazione.
Zero Due tornò dopo dieci minuti,
quando la pioggerellina sottile aveva già incominciato a farsi regolare e
insistente. «Siamo di fianco al fiume. Il ponte si trova da quella parte»
spiegò, indicando una direzione che proseguiva al di là della parete del
palazzo. «L’area è sorvegliata da alcuni uomini appostati dietro le barricate.
Ne ho contati sei, ma c’è anche un carro armato che forse contiene altre unità.
Il ponte è stato riempito di carcasse di automobili accatastate, sicché risulta
difficile da liberare. Abbiamo una torre di vedetta a nord, circa trecento
metri di distanza, e una a sud, poco meno di cinquanta metri.»
«Perfetto. Prendiamo la torretta più a
sud e ci stabiliamo lì, in attesa delle truppe. Zero Sette, sei pronto per la
tua missione?»
«Assolutamente sì, signore. Diamo
questo colpo di grazia e leviamoci di torno» confermò il soldato speciale, con
decisione.
«Bene. Zero Cinque, trova una
postazione sicura ed elimina i due bersagli che occupano la torretta. Zero Sei,
fornisci a Zero Cinque il fuoco di copertura necessario» concluse Zero Uno,
osservando la zona con circospezione mentre attendeva che i due subalterni
eseguissero i suoi comandi.
Zero Cinque ritornò al riparo dietro
la parete dell’edificio due minuti dopo, annuendo soddisfatto. «Ora la torre di
vedetta è pulita.»
«Andiamo» ordinò Zero Uno, e il gruppo
partì veloce in direzione dell’avamposto appena liberato. L’operazione era
delicata e andava portata a termine prima che l’Esercito arrivasse. Il ponte di
Eglon, che collegava il margine orientale del centro abitato alla campagna che
si stendeva al di là del fiume Arkansas, era la loro unica speranza di
recuperare la città.
«Zero Due, Zero Tre e Zero Quattro:
sapete che cosa dovete fare. Raggiungete la barricata senza farvi notare e
posizionate le cariche. Speriamo che il comandante Smith abbia avuto qualche
idea per liberare il ponte dalle carcasse di quelle automobili, altrimenti la
missione colerà a picco.»
I tre soldati appena nominati si
separarono dal gruppo e scivolarono piano dall’altra parte della strada, guadagnando
le barriere dietro il carro armato. Nel frattempo, gli altri quattro
raggiunsero la torre di vedetta a sud del ponte e la occuparono, salendo di
soppiatto e prendendo posizione sui cadaveri dei due ribelli ammazzati.
«Ehi! Ehi, abbiamo un problema!»
berciò il rivoluzionario appena entrato nella Eglon Tower, scandendo le parole
tra un respiro affannato e il successivo.
Maschera Blu si voltò lentamente,
guardando il nuovo arrivato con un pizzico di disappunto. «Che c’è? Qui siamo
impegnati a organizzare la distribuzione dei carburanti, non abbiamo tempo di
occuparci di altre faccende.»
«Signore, abbiamo un problema lungo i
confini!» ribatté l’altro, deciso a non farsi congedare con una semplice alzata
di spalle. La situazione da gestire era grave, e c’era bisogno che qualcuno prendesse
il controllo alla svelta e risolvesse la questione.
«Che genere di problema? Armi
inceppate? Turni di guardia non rispettati?» s’informò Maschera Blu, tornando a
girarsi dall’altra parte con aria di sufficienza.
«Tutt’altro, signore: l’Esercito sta
occupando il ponte!»
Maschera Blu sollevò la testa di
scatto e rimase fermo per un tempo che parve eterno, quasi che cercasse di
tradurre e interpretare le parole del ribelle che ancora ansimava alle sue
spalle. Quando si volse, i suoi muscoli erano contratti e la sua mano stringeva
convulsamente il calcio della pistola ancora infilata nella fondina.
«Finalmente!» esclamò infine Maschera
Blu, esplodendo l’esclamazione con un forte accento d’entusiasmo. «Radunate i
ribelli e portateli nel quartiere orientale della città, davanti
all’imboccatura del ponte di Eglon! Voglio tutte le unità armate e schierate
entro venti minuti. Ricordate loro le procedure di difesa e le esercitazioni.
Raggruppate dodici carri armati e fateli allineare dietro le barricate che
bloccano il ponte! Forza, coraggio! Si combatte, finalmente!»
Il comandante Smith fissava assorto
l’interminabile barricata che cingeva la città di Eglon oltre il corso del
fiume Arkansas. Sembrava estendersi all’infinito, vista da quel punto di
osservazione. Al di sopra di essa si stagliavano contro il cielo nuvoloso i
palazzi più alti della città, ma da lì era impossibile scorgere la strada, le
abitazioni più basse, gli uomini schierati in attesa dell’attacco.
Ormai i ribelli dovevano essersi resi
conto della presenza dell’Esercito. Nessuno aveva ancora sparato un colpo, forse
perché i mezzi corazzati che recavano lo stemma dell’armata americana avevano
messo in soggezione gli avversari. Al di fuori della barricata, presso la riva
opposta del fiume, erano stati posizionati otto carri armati con i cannoni
puntati contro la barriera. Sparare, a quel punto, significava essere spazzati
via in un solo istante dai colpi di quegli otto cannoni. Non rimaneva altro da
fare se non accettare lo scontro e ingaggiare la battaglia, che si sarebbe consumata
sul terreno stretto e accidentato offerto dal ponte.
Gli uomini di Smith avevano già aperto
un varco tra le carcasse delle auto ammassate sul passaggio. Ora un canale
abbastanza largo da permettere ad almeno cinque soldati di procedere uno di
fianco all’altro aspettava soltanto l’ordine dell’attacco.
Ma il Commando Alfa doveva ancora
lanciare il segnale dell’okay, e il comandante Smith era obbligato ad
attenderlo prima di dare il via alle danze. Se il Commando non fosse stato
pronto, probabilmente i suoi soldati, per quanto il loro numero fosse
tremendamente cospicuo, sarebbero stati sbaragliati nell’imbottigliamento del
ponte, morendo sotto la barricata prima ancora di arrivare abbastanza vicini da
colpirla.
Bisognava attendere che Zero Uno desse
il via, prima di sferrare l’assalto al ponte. E per adesso il comandante Smith
non intravedeva nulla sulle due torri di vedetta più vicine, il che poteva
significare solamente due cose: o gli uomini del Commando Alfa non erano ancora
riusciti a portare a termine l’operazione, oppure avevano miseramente fallito.
Nel secondo caso, naturalmente, Smith avrebbe dovuto ritirare le truppe,
rientrare al campo e contattare immediatamente il Segretario della Difesa per
interrogarlo sulla prossima mossa.
Quasi che il destino volesse
sconfessare i timori del comandante Smith, dalla torretta di controllo situata
a sud lungo la linea delle barriere provenne un flebile luccichio che si ripeté
tre volte, come pattuito assieme al Segretario della Difesa prima che il
Commando penetrasse nella città.
Era il via libera lanciato da Zero
Uno, e questo voleva dire che la missione era andata a buon fine. Finalmente,
dopo l’interminabile attesa, l’ansia dell’attacco e la paura del fallimento,
ecco giungere un’ottima notizia.
Il comandante Smith si avvicinò a uno
dei subalterni e gli sussurrò nell’orecchio: «Fate circolare l’ordine di
prepararsi: la barricata sta per cedere. Appena la breccia sarà stata aperta
dal Commando Alfa, attraversiamo il ponte e irrompiamo in massa a Eglon.»
L’ufficiale annuì e passò
l’informazione agli uomini che gli stavano attorno. Nel giro di qualche minuto
gli ordini avevano raggiunto i margini dello schieramento.
«Mi raccomando,» soggiunse il
comandante Smith mentre ascoltava il ticchettio della pioggia sugli elmetti dei
suoi soldati, «la prima linea dovrà prestare la massima attenzione: durante
l’attraversamento del ponte saremo imbottigliati, ed è molto probabile che i
ribelli ci aspettino dall’altra parte con tutte le loro truppe. Dovendo passare
cinque alla volta saremo bersagli facili: bisogna lasciare immediatamente
spazio a chi segue e coprirne l’avanzata, fino a portare dall’altra parte un
ingente numero di uomini prima di sferrare l’assalto vero e proprio.»
Era ormai ora di incominciare.
L’assalto al ponte sarebbe stato il primo passo della liberazione di Eglon:
dopo aver sbaragliato le linee rivoluzionarie poste al di là del passaggio, l’Esercito
avrebbe dovuto rincorrere i ribelli per tutte le strade della città, stanarli
ed eliminarli un po’ alla volta evitando di coinvolgere i civili. Sarebbero
stati giorni di fuoco, quelli che dovevano venire, ma alla fine la giustizia
avrebbe trionfato. Come sempre, d’altro canto.
Maschera Blu salì sulla cima di uno
dei carri armati allineati lungo la strada che correva parallela alla barricata
e osservò l’orizzonte. Da lì non si potevano scorgere i soldati schierati oltre
il letto del fiume, ma non era difficile farsi un’idea di quanti dovessero
essere. Mille uomini, se erano fortunati. Forse duemila, ma non si poteva dire
con certezza. In ogni caso, tanti.
Sghignazzò tra sé e sé e quando ebbe
finito individuò tre rapidi luccichii provenire dalla torre di vedetta a sud.
Sorrise dietro la maschera e scese dal carro armato, chiamando a sé uno dei
suoi.
«Voglio che circondiate la torretta di
sorveglianza a sud del ponte. Prendi pure una dozzina di uomini con te e blocca
tutte le vie di scampo. Lassù ci sono degli infiltrati dell’Esercito americano.
Vanno catturati vivi, siamo intesi?
Anche a costo di perdere un paio dei nostri. Dobbiamo far vedere alla gente che
la punizione cala implacabile su coloro che si oppongono alla Rivoluzione.»
Il ribelle gli indirizzò un cenno
affermativo del capo e partì di corsa, raggruppando dodici uomini mascherati e
facendo loro segno di seguirlo.
I carri armati erano pronti a far
fuoco, i Soldati della Rivoluzione imbracciavano ciascuno la propria arma.
Erano tutti disposti a morire per gli ideali che stavano portando avanti. Tutti
disposti a morire pur di preservare l’importante compito assegnato a Eglon. La
Fase Due era vicina, e i rinforzi stavano arrivando. Bisognava soltanto fermare
l’avanzata dell’Esercito prima che i soldati americani si sognassero di mettere
piede in città, e tutto sarebbe andato per il verso giusto.
Maschera Blu afferrò il megafono che
uno dei suoi uomini gli stava porgendo e se lo portò alla bocca, gridando con
la sua voce priva di accenti o inflessioni identificabili: «Soldati della Rivoluzione!
Oggi combatteremo per i nostri ideali e ridurremo in ginocchio quei burattini
che si stanno accalcando ai piedi delle nostre barricate di legno! Loro vengono
con i bazooka, con le granate, con le mitragliatrici di ultima generazione, ma
noi li contrastiamo con le loro stesse armi e con un asso nella manica: la
nostra voglia di far sapere al mondo che a Eglon si sta costruendo qualcosa di
incredibile e di unico. Perciò non permettiamo a quei cani di entrare in città
ad arraffare il nostro osso: spariamo a vista e gettiamo i loro cadaveri nelle
acque del fiume Arkansas!»
Il comandante Smith sollevò il braccio
destro per tre volte. Era il segnale convenuto con il Commando Alfa per dare il
via all’assalto, e pochi secondi più tardi una violenta esplosione fasciò il silenzio
fuori dalle porte della città e deviò la pioggia contro i visi dei soldati in
prima linea, i quali rimasero impassibili.
Una porzione di barricata sull’altra
riva, in corrispondenza del tratto in cui il ponte sul fiume si collegava alla
strada cittadina, si squarciò. Era merito delle cariche posizionate dal
Commando Alfa prima di dare il via all’attacco, e adesso un grosso varco nella
barriera difensiva di Eglon ne spezzava la continuità.
Il comandante Smith poté finalmente
gettare lo sguardo al di là di quelle barricate. Dopo settimane intere di trepidante
attesa, adesso riusciva infine a scorgere l’asfalto di Eglon, i muri delle sue
case, le maschere multicolori dei ribelli e i loro carri armati in posizione,
le armi puntate sui soldati dell’Esercito degli Stati Uniti che già sciamavano
sul ponte e lo attraversavano di corsa, spianando le mitragliatrici a tracolla
e preparandosi ad aprire il fuoco.
«Non sparate. Non ancora. Tenete salda
la posizione e prendete la mira, ma non premete i grilletti. Non muovetevi di
un passo» ordinò Maschera Blu, imperturbabile.
I ribelli erano disposti in un ampio
semicerchio attorno al punto in cui la barricata era stata abbattuta. Vedeva
distintamente i soldati dell’Esercito statunitense avanzare di corsa verso la
breccia, con le mitragliatrici in mano e i giubbotti antiproiettile che
ondeggiavano assecondando i movimenti dei corpi tesi. Non era necessario
sparare. Non ancora. C’era tempo, prima che i militari americani varcassero la
linea della barricata distrutta.
C’era ancora tempo, prima che il
comandante Smith si rendesse conto di aver fatto una cazzata.
«Zero Quattro, com’è la situazione?»
s’informò Zero Uno, mostrandosi compiaciuto.
«I soldati hanno occupato il ponte, le
prime linee iniziano a raggiungere la breccia sulla barricata. Ma i ribelli non
attaccano. Non sembrano avere intenzione di imbottigliarli… Pare quasi che vogliano
soltanto contenerli…» osservò Zero
Quattro, e in quel momento Zero Due bisbigliò un’imprecazione e si accucciò, in
preda al terrore.
«Oh Cristo! Sono qui sotto! Hanno
bloccato le scale della torre di vedetta!»
Zero Uno buttò un’occhiata verso il
basso e registrò la presenza di una dozzina di maschere con i fucili puntati
sulla sommità della torretta. Li avevano già sotto tiro. Erano perduti.
Il soldato Tom Davis osservava i suoi
compagni correre sul ponte, in direzione della breccia aperta dal Commando Alfa
nella linea ininterrotta della barricata di Eglon. Lui era rimasto nelle retrovie,
perché ancora non si era ripreso del tutto dallo choc della missione fallita
alla quale erano sopravvissuti soltanto lui e il vicecomandante Gray.
La giornata sarebbe stata coronata da
una splendida vittoria. Dopodiché, molto probabilmente quella brutta storia
sarebbe finita. Tutta la vicenda di Eglon, per quanto orribile apparisse
adesso, sarebbe passata in secondo piano piuttosto in fretta. Al suo posto
sarebbero subentrate nuovamente la crisi economica, la disoccupazione e
l’inflazione come notizie principali, e la Rivoluzione di Eglon sarebbe stata
relegata a un misero e infelice paragrafo in qualche futuro libro di storia.
Quel giorno stesso la rivoluzione terroristica sarebbe stata arginata
definitivamente.
Forte di questa convinzione, Tom Davis
vide le prime linee di soldati statunitensi attraversare la breccia dall’altra
parte del ponte e creare un gruppo solido e compatto, schierandosi in una formazione
difensiva che presto si sarebbe tramutata in un’offensiva brillante.
Ma i ribelli ancora non sparavano, e
questo gli fece avvertire un brivido lungo tutta la schiena.
Perché i nemici non premevano i
grilletti? Perché quelle maschere stavano immobili, impassibili, con le loro
espressioni grottesche fissate sul manipolo di militari sempre più numeroso?
Perché non facevano niente per fermarli, dannazione? Per quale assurdo motivo
non si decidevano a imbottigliarli sul ponte?
La risposta arrivò quasi subito, e fu
così cupa e dirompente da far credere a Tom Davis, per la durata di un minuto,
che fosse solo un orribile incubo.
Poi, dopo la tremenda esplosione, il
fumo nero iniziò a diradarsi e rivelò l’impensabile orrore scatenato dalla
detonazione. Il ponte, da una riva all’altra del fiume, non esisteva più. Era
saltato in aria, si era frantumato ed era crollato nell’acqua, trascinandosi
dietro le carcasse delle auto e i militari che lo percorrevano con le armi
imbracciate. Al di là di quel placido serpente azzurro chiamato Arkansas, i
soldati che avevano già attraversato il ponte si ritrovarono tagliati fuori.
E il capo dei ribelli, attraverso un
megafono, urlò un solo ordine: «Fuoco!»
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