«Hanno caricato i furgoni con le
casse, ma non li hanno fatti partire subito. Sono ancora là, spenti, in attesa
di un qualche segnale. Forse vogliono aspettare che sia notte fonda per
smistare tutte quelle batterie. Non sono riuscita a scoprire quali siano le
loro destinazioni, ma dalla segretezza delle operazioni posso affermare con
certezza che si tratta di un affare piuttosto importante» concluse Emily, terminando
la sua narrazione con un seducente sorriso d’importanza.
«Ben fatto. Davvero brava, Emily» si
complimentò Joey con sincerità, accendendole la sigaretta che si era appena
portata alle labbra. «Mi avevano già detto del cibo, del carburante e dei
medicinali, ma di quelle batterie non sapevo davvero nulla. È un’informazione
piuttosto preziosa.»
«Lieta di avertela fornita» rispose
tranquillamente Emily, osservandolo e sentendosi stranamente a proprio agio.
Ormai aveva capito che Joey Goode non era un uomo che si sarebbe potuto
definire perbene, ma non le
importava. Che fosse un criminale, uno spacciatore oppure un contrabbandiere,
Joey Goode per lei era innanzitutto un uomo elegante e gentile, e tutto il
resto, messo a confronto con questa verità, perdeva immancabilmente di
significato.
«Steve, ho bisogno di una mano!» tuonò
Joey, e il vicesceriffo Corall comparve sulla soglia del salottino come un cane
fedele attirato da un osso o, meglio ancora, da un biscotto.
«Ci sono. Dimmi tutto.»
«Raggiungi Jeff Turner e andate con la
sua auto nei pressi della stazione ferroviaria. Ho bisogno che seguiate uno dei
furgoncini blindati che usciranno di lì durante la notte e che mi diciate con esattezza
dove si va a fermare e in quali punti della città distribuisce il carico.»
«Un carico di armi?»
«No. Qualcosa di molto più utile,
suppongo. Qualcosa che tengono molto in considerazione, dunque è meglio
scoprire dove va a finire. Mi raccomando: non fatevi beccare.»
«Senz’altro» confermò il vicesceriffo,
e abbandonò in fretta il salottino per sparire in direzione dei garage.
«A cosa pensi che servano quelle
batterie?» volle sapere Emily, soffiando fuori fumo attraverso le labbra
bagnate di rossetto. Il suo viso illuminato dalle candele era davvero bello,
considerò Joey guardandola. Tutto sommato, la totale assenza di energia
elettrica non era poi così male. Il viso di Emily Cooper appariva molto più
sensuale quando veniva rischiarato soltanto dalle fiammelle tremolanti delle
candele, e di questo doveva essere grato all’Esercito e alla compagnia
elettrica che si erano messi d’accordo per far precipitare nel buio l’intera
Eglon.
«Non ne ho la minima idea. Di’ un po’,
bella… Hai un ragazzo, fuori di qui?» le chiese direttamente, senza tanti giri
di parole.
Emily arrossì e distolse lo sguardo
per un secondo, schiacciando il mozzicone di sigaretta sul posacenere e
rialzando gli occhi dopo un attimo di esitazione. «Ce l’avevo. Ma adesso mi sa che
sono di nuovo libera.»
«Interessante» mormorò Joey,
sorridendole. «Allora immagino che non gli dispiacerà…»
«Di che cosa?»
«Di questo.» E senza aggiungere altro
le si avvicinò e la baciò, posando le proprie labbra sulle sue e cercando senza
indugio la sua lingua per provarne il sapore. Inutile dire che la trovò assolutamente
squisita.
LE
ANIME DI EGLON
PRIMA
STAGIONE
EPISODIO
27
IL
VAGONE QUATTRO
Non appena Robert ebbe richiuso la
porta di casa dietro di sé, Sarah comparve nell’ingresso con le lacrime agli
occhi e si fiondò su di lui, abbracciandolo. Stan si fece da parte, per non
essere d’intralcio, e rimase a guardarli imbambolato con l’espressione gelosa
del terzo incomodo.
«Oddio, state bene! Non sapete quello
che è successo!» gridò Sarah, ma la sua voce era strozzata e le parole uscirono
come un balbettio tremolante e incerto.
«Calmati, tesoro. Calma. Cos’è
successo? Tu e i ragazzi state bene?» s’informò Robert, cercando di rasserenare
la compagna.
«No! Cioè, sì… Ma non avete idea di
quanto è stato difficile! Sono venuti per i controlli! Sono venuti qui dentro e
hanno rovistato dappertutto! Lo sapevate che dovevano venire, lo sapevate, hanno
già rastrellato i quartieri attorno e si dice che abbiano imprigionato delle
persone, ucciso degli agenti… Cristo, Robert! Sono venuti in casa nostra e
hanno rovistato dappertutto!»
Sarah era decisamente troppo agitata,
ma Stan aveva già capito che cosa doveva essere accaduto. Un brivido veloce gli
attraversò la schiena salendo dal basso e diramandosi lungo le spalle, estinguendosi
all’altezza dei gomiti. I ribelli erano entrati in casa a cercare delle armi.
«Ci sediamo un attimo e poi ci
racconti tutto, va bene?» la rassicurò Robert, con un tono di voce
incredibilmente solido e pacato. «Dove sono Michael e Christine?»
«Di sopra. Li ho mandati a letto,
appena è venuto buio. Ho detto loro di chiudere a chiave la porta. Hanno una
torcia, nel caso in cui a uno dei due occorra di andare al bagno…»
«Bene. Su, vieni di là in cucina.
Parliamone.»
Presero posto attorno al tavolo della
cucina, in silenzio, e Sarah si concesse un bel respiro e incominciò a esporre
i fatti con una maggiore padronanza di sé, dando prova di un saldo autocontrollo.
«Poco dopo che ve ne siete andati…
Penso sia passata una mezz’ora, suppergiù… Qualcuno ha bussato alla porta. Sono
andata ad aprire, e appena ho visto quei tre teschi appostati sulla soglia di
casa ho tirato un urlo. La mia prima reazione è stata cercare di chiudere la
porta, ma uno dei tre uomini con la maschera l’ha bloccata con una mano e mi ha
detto gentilmente che volevano solo entrare per dare un’occhiata. Le pistole
che tenevano in mano non erano affatto finte, e questo me l’hanno fatto capire
all’istante. Mi sono fatta da parte e li ho lasciati entrare.
«Mi hanno chiesto in quanti eravamo.
Ho risposto quattro, senza pensarci. Io e i bambini, e il mio compagno che non
era in casa. Mi sono dimenticata di te, Stan» spiegò, con un mezzo sorriso di
scuse. Stan alzò le spalle e le fece segno di andare avanti. «Hanno voluto
vedere Michael e Christine. Erano spaventati, ma li ho fatti scendere
ugualmente. Mi hanno chiesto se avessi qualcosa da dichiarare, e io ho risposto
di no. “Ora facciamo dei controlli”, mi hanno detto. “E poi togliamo il disturbo”.
«Hanno rovistato in giro per tutta la
casa. Nelle credenze della cucina, tra i cuscini del divano, sotto i materassi
e negli armadi, giù nel seminterrato…»
«Se fossimo stati qui avrebbero
trovato la pistola. Fortunatamente, eravamo fuori» valutò Stan, amaramente
scioccato dalla verità della propria osservazione. Se lui e Robert non fossero
usciti, quella mattina, forse anche Sarah e i ragazzi avrebbero passato dei
guai.
«Te ne devi liberare, Stan. Te ne devi
liberare immediatamente» replicò Sarah in tono asciutto, con una leggera
venatura in sottofondo che aveva un che di petulante.
Stan cercò l’aiuto di Robert, ma
quest’ultimo scosse la testa.
«Sarah ha ragione, Stan. È troppo
pericoloso. E, oltretutto, non ci servirà a niente. Hai visto là sotto, in quel
deposito. Cosa credi che ci fosse negli scatoloni accatastati su quei bancali?
Un sacco di poliziotti sono ancora in libertà, e ognuno di loro ha la propria
arma. Noi non siamo poliziotti, Stan. Lasciamo sbrigare la faccenda a chi di
competenza. Lasciamo che i poliziotti facciano il loro lavoro e limitiamoci a
occuparci del nostro.»
Stan incassò il colpo e ci rifletté
sopra per qualche istante, senza muoversi. Infine sollevò la testa e annuì
gravemente, dichiarandosi sconfitto. «D’accordo. Farò sparire quella pistola.»
«Cristo…» farfugliò Cathy, coprendosi
la bocca con una mano.
Gerald si voltò a guardarla e lesse la
paura nei suoi occhi. Abbassò la pistola ancora fumante e la riappoggiò sulla
sedia che stava ai piedi del letto. L’aveva lasciata lì quando era entrato
nella stanza assieme a Cathy. Prima di farsi spogliare, aveva nascosto la
pistola sotto la maglietta e si era abbandonato tra le braccia della giovane
donna. Adesso, quella stessa pistola aveva appena posto fine all’esistenza del
ribelle che si faceva chiamare “Peter Norton”.
«Tutto bene?» le domandò, ancora con
il respiro affannato.
«Credo di sì» borbottò Cathy,
visibilmente scossa. Il suo corpo nudo era nascosto dalle pieghe delle lenzuola
e i capelli sciolti le ricadevano sulle spalle scoperte, scendendo in direzione
del seno. Ripensando alla sua pelle levigata, alle sue cosce tiepide e ai suoi
gemiti nell’orecchio, Gerald si sentì invadere da una nuova ondata di desiderio
inarrestabile. Aveva ancora voglia di lei. Voglia di finire quello che aveva
cominciato, di ritornare da Cathy e di farsi circondare nuovamente dalle sue
gambe. Si stava così bene, addosso a lei…
«Non pensavo sarebbe tornato così
presto. Ero convinto che sarebbero rimasti fuori per un’altra mezz’ora a
lavorare su quel treno» confidò, come per giustificarsi con se stesso.
Cathy non rispose. Si limitò a puntare
gli occhi verso la parete di fronte e a tirarsi un po’ più su il lembo delle
lenzuola.
Gerald abbassò lo sguardo sul corpo
immobile di “Peter Norton” e sulla pozzanghera di sangue che lentamente si
stava allargando sotto di lui, sul parquet lucido. «Adesso devo farlo sparire.
Se mi scoprissero, potrebbero uccidermi» considerò quasi tra sé e sé, e dopo
essersi infilato i jeans appena recuperati dal pavimento sparì oltre la porta e
riapparve pochi secondi dopo con un secchio d’acqua e uno straccio.
Cathy non si mosse. Paralizzata, in
quella posa da Venere pronta a farsi ritrarre dal migliore dei pittori della
storia, guardò Gerald sollevare il cadavere del ribelle ammazzato e trascinarlo
velocemente verso l’armadio. Le ante si aprirono con un modesto cigolio e il
morto finì scaraventato all’interno. Le ante si richiusero con lo stesso
cigolio di prima e Gerald si tastò la faccia con aria preoccupata.
«Sono ancora senza maschera» notò, con
un briciolo di inquietudine. Oltrepassò per la seconda volta la soglia della
camera da letto e rientrò poco dopo, stavolta con il viso coperto dall’onnipresente
maschera che Cathy aveva sempre associato al suo nome e alla sua voce.
Si inginocchiò sul pavimento della
stanza e nella penombra incominciò a passare lo strofinaccio umido sulla
macchia di sangue lasciata da “Peter”, tirandolo su ogni tanto per immergerlo
nel secchio e strizzarlo prima di ripetere l’operazione. Andò avanti così per
qualche minuto, nel silenzio infranto solamente dallo sciacquio ipnotico
dell’acqua insanguinata nel secchio.
Quando ebbe finito di pulire il
parquet, Gerald si alzò e andò a riaprire l’armadio per infilarci dentro il
secchio e lo strofinaccio lordi di sangue. Serrò le ante cigolanti per l’ultima
volta e si girò a guardare Cathy attraverso i fori della maschera.
«Dobbiamo andare via, Cathy» disse
finalmente, buttando fuori le parole come un sospiro piuttosto scomodo.
«Dove?» balbettò lei, spiazzata.
«Non lo so. Ma non possiamo restare
qui. Si accorgeranno presto dell’assenza di “Peter”. E non posso accettare
l’idea di mettere in pericolo anche te.»
Cathy si guardò le unghie con falso
interesse, pensando a che cosa rispondere. Socchiuse le labbra e sussurrò:
«Potresti far sparire il corpo. Prenderlo e portarlo via, da qualche parte.»
«Ci sono troppe persone, lungo i
corridoi fuori da questo appartamento. I garage sono troppo lontani per
riuscire a raggiungerli con un cadavere senza dare nell’occhio. E poi, qualcuno
potrebbe aver sentito lo sparo. Anzi, è molto probabile che qualcuno lo abbia
sentito. Ci conviene sparire prima che vengano a cercare il responsabile.»
«Pensi che ti lasceranno portarmi
fuori di qui?» gli domandò allora Cathy, e Gerald le sorrise.
«Sono io, qui, a decidere chi entra e
chi esce. Oltretutto, pensavo di andarmene già da questo pomeriggio. Ho
scoperto delle cose che avrei preferito non sapere. E adesso tutto quello che
voglio è allontanarmi il più possibile da questo posto.»
Cathy lo studiò con aria interrogativa
e Gerald liquidò la discussione con un’alzata di spalle, rivolgendole uno
sguardo grave. «Credo che qualcuno stia cercando di estromettermi. E l’unico modo
per buttarmi fuori dal gioco, a questo punto, è uccidermi. Con il cadavere che
tengo nell’armadio avrebbero il pretesto giusto per poterlo fare.»
«Allora semplicemente scompariamo in
mezzo alla città?»
«No. Non subito, almeno. Prima devo
passare in un posto.»
«Per prendere qualcun altro?»
«No» bisbigliò con fare stranamente
assente. «Devo capire fino a che punto sono stato ingannato. Perché forse non è
stato l’Esercito a compiere il bombardamento notturno che ha gettato nel panico
l’intera città, e probabilmente il mio superiore lo sapeva fin dall’inizio.»
«E chi è stato, allora?» volle sapere
Cathy, la voce strozzata.
Gerald rivolse gli occhi verso di lei,
ma era come se non riuscisse a vederla. Il suo sguardo passò oltre,
conficcandosi nella parete alle sue spalle. Il ribelle annuì tra sé e sé e
lentamente pronunciò: «Sono stati i nostri alleati.»
«Di chi parli?»
«Parlo delle truppe che sono rimaste
fuori dalla città» spiegò Gerald, ancora pensieroso. «I Soldati che hanno
conquistato la campagna circostante, quelli schierati a Little Rock e quelli
nascosti a Pine Bluff, quelli che controllano le operazioni da Washington, da
New York, da Atlanta… Gli Alleati, insomma. Gli uomini che hanno mandato il
treno pieno di rifornimenti giunto a Eglon stamattina» illustrò, e Cathy si
sentì rabbrividire.
«Vuoi dire che non è una questione
isolata?»
«Isolata?» ripeté Gerald, producendo
un’amara risatina sarcastica. «Oh no, questa Rivoluzione non è affatto isolata.
Esistono dei progetti. Delle fasi, scandite da procedure rigorose. Adesso siamo
soltanto alla Fase Uno. Presto avrà inizio la Fase Due, e allora sì che il
nostro messaggio sarà lanciato come si deve al resto del mondo.»
Cathy si scoprì spaventata.
Improvvisamente, non desiderava più sapere nient’altro. Lottava contro la
propria curiosità, perché le cose che Gerald le stava raccontando erano a dir
poco terrificanti. Ma allo stesso tempo sentiva di aver bisogno di risposte.
Almeno alle domande più impellenti, quelle che maggiormente premevano per
uscire dalla sua testa confusa.
«Che cosa dobbiamo fare? Dove possiamo
andare, per uscire da questa situazione?»
Gerald la guardò come alienato,
cercando di formulare una frase di senso compiuto. Ci pensò su per un tempo che
parve infinito, e dopo diversi minuti di silenzio si decise e affermò con una
certa sicurezza: «Il luogo più sicuro, ora come ora, è proprio Eglon.»
Cathy annuì, si scostò di dosso le
lenzuola e iniziò a vestirsi rapidamente, indossando gli slip, il reggiseno, i
jeans e la maglietta, recuperando l’elastico per i capelli che le era caduto
mentre Gerald la spogliava con tanta incontenibile passione.
Di là qualcuno aprì la porta
dell’appartamento ed entrò, attraversando in silenzio il soggiorno deserto.
Gerald, appostato dietro la porta con la mano sull’impugnatura della pistola,
attese trepidante che il nuovo arrivato s’infilasse in una delle camere e
quando sentì chiudersi una seconda porta tirò un lieve sospiro di sollievo.
«Sei pronta?»
«Sì.»
«Okay, andiamo» annunciò il ribelle
sottovoce. Spalancò la porta che dava sul soggiorno e attraversò rapidamente il
salone, seguito da Cathy. La giovane donna si soffermò un istante davanti alla
libreria e Gerald si voltò a guardarla con un mezzo sorriso malinconico.
«Prendo questi tre qui, se non ti
dispiace» lo avvisò Cathy, mostrandogli i libri che aveva raccolto. Gerald
annuì e aprì la porta d’ingresso dell’appartamento, facendo uscire Cathy nel
corridoio esterno e seguendola senza aggiungere altro.
Alle undici e trenta di quella stessa
sera la stazione ferroviaria di Eglon era quanto mai silenziosa. Si respirava un’aria
rarefatta, quasi che una grossa parte dell’ossigeno fosse stata aspirata via
con un’enorme tubo di gomma. I lampioni spenti e le case buie conferivano allo
scenario un senso di irrealtà, quasi che tutta quella zona della città fosse
sprofondata in un mondo oscuro e surreale.
Steve Corall e Jeff Turner
aspettavano, seduti nella loro auto parcheggiata a lato della strada, con il
motore spento e le palpebre sempre più pesanti. C’erano altre vetture sistemate
in fila accanto al marciapiede. Nessuno avrebbe notato la loro presenza, il
vicesceriffo Corall ne era certo. Eppure, una strana sensazione di disagio non
lo lasciava in pace da quando erano arrivati. Era come se il suo sesto senso
gli dicesse che sarebbe successo qualcosa di imprevisto prima della fine della
nottata.
«A che cosa pensi?» gli domandò Jeff,
dopo aver consultato per l’ennesima volta l’orologio da polso.
«A mia figlia. Non so ancora dove possa
essere, e non stiamo facendo progressi in quella direzione. Non abbiamo idea di
dove siano finiti i ragazzi che la notte dell’attacco si trovavano a quella
maledettissima festa.»
Jeff era al corrente della faccenda, e
finora aveva preferito non parlarne. Adesso, però, si sentiva in dovere di
rincuorare il vicesceriffo. Era giusto, dopotutto. Lui stava cercando di fare
il possibile per appoggiare la strategia di Goode, e a Jeff sembrava logico
iniziare a pensare a un modo per accontentare anche le sue necessità. «La
ritroveremo» disse con tranquillità, e intravide il profilo di Steve Corall
annuire nelle tenebre.
«So che è ancora viva, e che sta bene.
La tengono prigioniera in una delle strutture che hanno occupato. Lo sento.
Vorrei poter irrompere in quel posto e salvarla. In questo preciso istante, se
solo sapessi dove la tengono.»
«Non sarai da solo, Steve. Quando
scopriremo dove tengono i ragazzi metteremo la loro liberazione in cima alla
lista delle priorità. Irromperemo tutti assieme in quell’edificio. Noi, i tuoi
poliziotti e gli uomini di Goode. Tua figlia sarà lì ad aspettarci.»
«Lo spero tanto… Guarda. Un’auto.»
Jeff si girò a controllare la strada e
scorse il muso del veicolo procedere lentamente nella loro direzione. I fari
dell’automobile avanzavano a rilento, come occhi indagatori intenti a sondare
l’oscurità della notte, quasi che il conducente stesse decidendo se
parcheggiare o meno. La sua prima reazione fu di accostare le dita all’impugnatura
della pistola che teneva infilata nella cintura. La macchina si fermò, indugiò
ancora per qualche istante e infine s’infilò tra due vetture posizionate
davanti all’ingresso della stazione.
Dalla parte del guidatore scese un
ribelle con una maschera sulla faccia, il cappuccio calato sulla fronte e una
pistola stretta in pugno. La porta della stazione si aprì e due uomini a volto
coperto lo lasciarono passare senza nemmeno accertarsi della sua identità.
Nella mente di Jeff Turner, in quel
preciso istante, scattò qualcosa. Ma dovette reprimere immediatamente la nuova
idea, perché più avanti si aprì una delle saracinesche poste sulla facciata
della stazione e ne uscì un furgoncino blindato nero.
«Eccolo. Dobbiamo seguirlo» lo avvisò
Steve Corall, teso come la pelle di un tamburo tribale.
Jeff mise in moto l’auto tenendo i
fari spenti e si preparò a pedinare il veicolo ribelle.
Gerald McGale entrò con circospezione
nella stazione ferroviaria di Eglon e i due rivoluzionari appostati dietro la
porta lo lasciarono passare con un cenno del capo.
Richiamando a sé tutta la sicurezza
che i mesi di addestramento gli avevano conferito, Gerald avanzò nel salone
d’attesa della stazione, completamente buio, e si avviò in direzione dei
binari, verso quella piccola zona illuminata da potenti riflettori. Si scorgeva
la sagoma lunga e sinuosa del treno, con i vagoni aperti e numerati che
esponevano il loro interno vuoto. Sulla destra riuscì a intravedere una colonna
di furgoncini blindati. Probabilmente, rifletté, in quei mezzi dovevano già essere
state caricate tutte le casse di batterie. I trasporti sarebbero partiti a
orari differenti, con destinazioni differenti, e senza incontrare alcun
ostacolo avrebbero distribuito la merce per poi fare ritorno nei garage
sotterranei.
Maschera Blu era in piedi di fronte al
vagone numero quattro. Se ne stava a braccia conserte, a contemplare la
carrozza aperta che nelle ultime ore era stata pazientemente svuotata da una
squadra speciale vincolata al silenzio. Il contenuto di quel vagone era forse
il più importante dell’intero treno, e mantenere il segreto era essenziale. Per
far andare avanti la rivoluzione, nessuno doveva sapere di quelle batterie.
Così come nessuno, al di fuori di un ristretto gruppo di uomini fedeli, doveva
sapere in quali luoghi sarebbero finite.
«Sono qui» annunciò, nascondendo la
pistola nella cintura e affiancandosi a Maschera Blu. Quest’ultimo si volse a
sogguardarlo un istante e gli lanciò un muto cenno d’intesa. Non c’era bisogno
di parlare. Non in quel momento, almeno, perché l’ultimo segreto del vagone
quattro stava per essere svelato. E gli unici a vederlo
(gli
unici autorizzati a vederlo)
sarebbero stati proprio loro due.
«È giunto il momento. È tempo di
scoprire se la Fase Due deve essere avviata stanotte» proclamò Maschera Blu
sottovoce, con aria meditabonda.
«Sei agitato?» gli domandò, in tono
distaccato. Stava sudando freddo. Non doveva tradire le emozioni. Non doveva
fargli capire che quel pomeriggio, all’inceneritore, aveva guardato sotto le
maschere e aveva trovato il volto del prigioniero morto. Non doveva
assolutamente farsi scoprire, altrimenti il suo viaggio si sarebbe concluso lì,
in quell’istante, quella notte stessa.
«Un po’ sì, lo ammetto. Spero
soprattutto che la Fase Due sia stata ritardata di qualche giorno ancora.»
«Perché mai?» volle sapere, sorpreso
dall’affermazione del suo interlocutore.
«Perché non siamo ancora pronti. Eglon non è pronta, e questo mi
spaventa. Non abbiamo finito di organizzare gli ultimi preparativi, non siamo
in grado di intraprendere l’operazione come si deve. Ci occorre più tempo, ecco
tutto. Soltanto qualche giorno ancora.»
Gerald non replicò. Capiva la
situazione, e forse Maschera Blu aveva ragione. In fondo, la Fase Due avrebbe
decisamente cambiato le carte in tavola. Le avrebbe prese e rimescolate per
formare un nuovo mazzo, e la partita si sarebbe combattuta in maniera diversa.
Nessuna garanzia di vittoria, questa volta. E un obiettivo molto più delicato
da conquistare.
«Su, coraggio» si ridestò finalmente
Maschera Blu, sciogliendo le braccia incrociate e salendo sul vagone quattro
ormai sgombro. «Vediamo quali sono gli ordini.»
Gerald lo imitò e Maschera Blu sfoderò
una torcia e l’accese, puntandola sul fondo della carrozza e facendola correre
tra una scanalatura e l’altra. Riconobbe immediatamente il minuscolo foro praticato
nel metallo all’altezza dei piedi di Gerald e gli disse di spostarsi. Con un
piede di porco fece pressione sulla scanalatura dell’assicella metallica
contrassegnata, e questa venne via con incredibile facilità, ricadendo di lato
e rivelando uno scomparto segreto rettangolare. All’interno, adagiata con cura
nel nascondiglio, c’era una busta sigillata.
«Ci siamo. Ecco il momento della
verità, amico mio» sentenziò Maschera Blu, raccogliendo da terra la busta e
posando le dita sul sigillo in ceralacca. Nessun simbolo impresso, nessun segno
di riconoscimento. Bene. Era quella giusta. Erano i nuovi ordini.
Gerald osservò il compagno rompere il
sigillo e aprire la busta. Maschera Blu infilò due dita all’interno e le
ritrasse con un foglietto di carta bianca ripiegato e una bustina più piccola.
Gerald si sentì sussultare. Il cuore
gli batteva all’impazzata e l’agitazione stava lievitando. Si era quasi dimenticato
del volto del prigioniero nascosto dietro la maschera lasciata cadere
nell’inceneritore, così come di Cathy che lo aspettava in auto e del cadavere
di “Peter Norton” chiuso nell’armadio della sua camera. Per un momento, tutte
queste realtà scomparvero e l’unica cosa che rimase fu quel biglietto piegato
con maniacale accuratezza.
Per prima cosa, Maschera Blu aprì la
bustina bianca più piccola e ne fece cadere il contenuto sul palmo della
propria mano: una chiave lucida, minuscola, che s’infilò in tasca
silenziosamente. Quindi fu il turno del biglietto, che venne illuminato dalla
torcia di Maschera Blu sotto gli occhi avidi di Gerald. Il messaggio, scritto
in corsivo in una grafia minuta e ordinata, recitava poche semplici parole: Avvio della Fase Due previsto fra due
settimane esatte. Contingenti pronti,
rinforzi in arrivo. L’Esercito sta
preparando un reparto speciale per l’assalto a Eglon. Respingete il Commando Alfa e provvedete a mantenere in vita la
popolazione. Sterminate i poliziotti
prima che riescano a mettere in piedi un’offensiva.
Maschera Blu sollevò gli occhi dal
biglietto e scrutò attentamente la maschera impassibile di Gerald. Fu questione
di un attimo, perché il pugno in pieno stomaco arrivò quasi subito. Maschera
Blu si piegò in due sul biglietto che reggeva in mano e la pistola di Gerald fu
veloce a puntarsi sulla sua tempia, tenendolo sotto tiro.
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