«Dove vai, vecchio?» gli chiese Terry
McCallister vedendolo avvicinarsi alla porta. Terry se ne stava seduto in
cucina, vicino alla finestra che dava sul giardino, a fumare in silenzio. Sonny
non aveva idea di dove si fosse procurato quelle sigarette, ma di sicuro ne doveva
avere parecchie, perché se ne faceva fuori almeno sei al giorno. Non sapeva
molto sul conto del padrone di casa, realizzò in quel momento, mentre stava per
oltrepassare la soglia e uscire. Ma, d’altro canto, poco importava. Se non
fosse stato per Terry, il buon vecchio Sonny sarebbe morto già da un pezzo.
«Vado a trovare un amico» rispose
Sonny, come se si trattasse di una faccenda banale. Come se andare a trovare un
amico, in una città ridotta nelle condizioni in cui versava Eglon, fosse
un’azione ancora normale.
«Cerca di tornare prima che scatti il
coprifuoco.»
«Quale coprifuoco?» sghignazzò Sonny,
e uscì di casa chiudendosi la porta alle spalle.
Chissà
come se la cava quel buono a nulla di Terence, pensò Sonny mentre
attraversava il cortile della casa di Terry e si allontanava imboccando il
marciapiede. Terence Duke era forse il figlio di buona donna più coriaceo e
testardo che Sonny avesse mai conosciuto. Aveva fatto il poliziotto per oltre
trent’anni, in servizio permanente a Eglon, e conosceva la città probabilmente
meglio di chiunque altro, sindaco, sceriffo o contrabbandiere che fosse. Se
c’era qualcuno che sapeva come uscire da quello schifo di situazione,
quell’uomo era sicuramente Terence Duke. Ed era proprio a lui che Sonny intendeva
rivolgersi, adesso, per chiedere consiglio su come muoversi.
Aveva trascorso fin troppi giorni
nell’inattività, chiuso nella casa di Terry a respirare il fumo micidiale
esalato dalle sue sigarette. Era ora di darsi un po’ da fare, di svegliarsi
fuori. Si sentiva stanco, sconfitto e sfiduciato, e queste sensazioni tutte
insieme non gli piacevano per niente. Aveva bisogno di riscattarsi, e l’unica
cosa da fare era mettersi al lavoro per porre fine a quel disastro.
Che
cosa potrà mai fare un vecchio contro tutta quella gente incazzata? Poco o
niente, si rispose automaticamente. Ma quando avesse recuperato anche Terence
allora sarebbero stati in due vecchi,
e forse avrebbero potuto fare qualcosina di più.
Con questi propositi in testa, Sonny
Dangerwood evitò accuratamente di passare per l’angolo della strada sorvegliato
da un ribelle con un mitra imbracciato e deviò verso un’altra direzione, raggiungendo
qualche minuto più tardi la facciata dell’abitazione di Terence Duke.
La porta era aperta, e il dettaglio
fece saltare subito il cuore in gola a Sonny. Non era normale che la porta di
Terence fosse aperta, perché l’ex poliziotto era sempre stato un maniaco della
sicurezza e non avrebbe mai
(e
sottolineo mai)
lasciato aperta la porta di casa, nemmeno se si fosse
piazzato appena al di là dell’uscio con un fucile in mano.
Si avvicinò con circospezione
all’entrata, guardandosi attorno per controllare che nessuno lo spiasse. Lanciò
un’occhiata alla cucina dalla finestra, ma non intravide nulla di anomalo. Si
diresse verso la soglia d’ingresso, preparandosi a scappare.
«Terence, sei in casa?» domandò, a
voce abbastanza alta. Attese una risposta che non arrivò. Quando fu stufo di
aspettare, spinse leggermente la porta per entrare e si bloccò sul gradino
d’accesso, sconvolto dall’immagine del vecchio amico riverso sulla moquette
lorda di sangue con il petto bucherellato.
LE
ANIME DI EGLON
PRIMA
STAGIONE
EPISODIO
26
NELLE
CASE FANTASMA
Fuori era finalmente sbucato qualche
timido raggio di sole e piano piano Melanie Winget sentiva di iniziare a
riprendersi dall’incidente. Aveva talmente tante bende e fasciature da non
riuscire nemmeno a contarle, ma non era ancora stata capace di capire che cosa
si fosse rotto e che cosa invece no. Il dolore che avvertiva, di giorno come di
notte, era generale. L’unica cosa di cui si sentiva abbastanza certa era che
non riusciva a muovere le gambe, e questo contribuiva a demoralizzarla.
Ma adesso era venuto fuori il sole,
no? Significava che un po’ di speranza era rimasta, dopotutto. Per lei come per
le sue gambe. Speranza per tutta la città, che da ciò che le avevano raccontato
stava vivendo una feroce crisi. Il suo dottore, quello con la maschera, le
aveva spiegato che cosa stava succedendo. Le aveva narrato della rivoluzione e
dei morti, della taglia sulle teste dei poliziotti che si erano opposti al
processo di cambiamento, dell’Esercito appostato fuori da Eglon. Quando era
saltata la corrente, un paio di giorni prima, le aveva detto di non
preoccuparsi, perché l’abitazione era munita di un generatore autonomo che
funzionava a gasolio. Meno di un’ora più tardi l’elettricità era tornata, e il
dottore era rientrato in camera con un tascabile e un’abatjour per lei, di modo
che si distraesse un po’ leggendo.
Gli antidolorifici la aiutavano a
mantenere il dolore al di sotto del limite di sopportazione, ma stava lo stesso
male. Aveva chiesto di averne un po’ di più, una sera in cui si sentiva
particolarmente stanca, e il medico le aveva pazientemente risposto che non era
possibile, perché le scorte di medicinali calavano a vista d’occhio e bisognava
aspettare che qualcuno riuscisse a fare rifornimento, prima di poterne
usufruire senza doverle razionare. Melanie aveva accettato con un cenno del
capo e aveva ribattuto che le andava bene anche un sonnifero. Il dottore aveva
annuito con un mezzo sorriso, e qualche minuto dopo Melanie navigava già sulle
placide acque del lago dei sogni.
Adesso, dopo un risveglio difficile e
sfocato, finalmente si intravedeva qualche barbaglio di sole. La stanza della
villetta nella quale l’avevano messa, le aveva illustrato il dottore, si
trovava nella periferia sud di Eglon. Una zona tranquilla, tutto sommato, dove
gli scontri non avevano ancora assunto l’intensità che si poteva registrare in
centro. Abbastanza lontana da Main Street da far sentire gli spari come
attutiti da un grosso materasso.
Melanie trascorreva le giornate a
leggere e a dormire, svegliandosi ogni tanto per mangiare qualche zuppa calda e
bere un sorso d’acqua. Non poteva muoversi, non poteva vedere la città. Poteva
soltanto immaginare quello che stava succedendo, e ricostruire le dinamiche
della rivoluzione attraverso i racconti del dottore. Certo, però, che davvero
non capiva perché i poliziotti se la fossero presa tanto con i ribelli.
Dopotutto, con lei erano stati davvero gentili. Dopo che l’Esercito aveva abbattuto
l’aereo di linea sul quale si trovava, come le aveva narrato il dottore, erano
stati loro a soccorrerla e a salvarle la vita. Perché allora la polizia di
Eglon non li appoggiava?
Peter Norton, nome che non era
naturalmente il suo, rientrò tardi nell’appartamento quella sera. Era stanco
morto perché aveva lavorato tutto il giorno. In poche ore avevano dovuto scaricare
tutti i vagoni del treno
(escluso
il quattro)
e ammassare l’intero contenuto nei cassoni dei furgoncini
blindati, che in un viavai senza sosta avevano smistato la merce in maniera svelta
ed efficace.
Adesso, tutto quello che desiderava
era farsi una doccia in santa pace e dimenticarsi del resto. Ceste le taniche
di carburante, ceste i generatori, ceste quell’accidenti di treno. Lo avevano
spostato a fare i lavori pesanti soltanto per colpa di quello stronzo di Jeremy
Barton, poliziotto ancora in libertà che gli era sfuggito da sotto il naso
prima che avesse tempo di premere il grilletto. Ma gliel’avrebbe fatta vedere
lui, se lo avesse beccato di nuovo. Oh sì, sissignore, gliel’avrebbe fatta
vedere eccome. Altro che premere il
grilletto: lo avrebbe torturato finché non fosse morto dal dolore, quel
bastardo.
Si levò di dosso il grembiule che
aveva indossato nella stazione ferroviaria per il trasferimento delle taniche
di gasolio e lo buttò nel cesto della biancheria sporca. Se ne sarebbero
occupate le donne. Sicuramente avrebbero saputo come far sparire quella macchia
d’olio che era schizzata dal tubetto misterioso che qualche deficiente aveva
lasciato sul retro di uno dei furgoncini. Ah, come avrebbero fatto senza le
donne? Erano loro che tenevano in piedi la baracca, alla fine dei conti. Gli
uomini uscivano a combattere con le maschere sul volto e le donne rimanevano in
casa a lavare il bucato, preparare da mangiare e lucidare le armi. Come ai bei vecchi tempi, pensò “Peter”
spostandosi in soggiorno.
Si passò una mano sul viso sudato e
improvvisamente i suoi sensi furono attratti da un rumore inaspettato, un
rumore che non avrebbe dovuto esserci e che invece percepiva distintamente.
A passi felpati, “Peter Norton” si
avvicinò alla porta chiusa che dava sulla camera da letto di uno dei tanti
ribelli che vivevano in quella stessa abitazione e si soffermò a pochi
centimetri dalla serratura, tendendo l’orecchio per ascoltare. Non c’era
dubbio: quelli erano gemiti. Erano i respiri concitati di una donna che
ansimava, e “Peter” capì immediatamente di chi doveva trattarsi.
Appoggiò la mano sulla porta e spinse
leggermente, aprendosi uno spiraglio.
Quel pomeriggio, alcune ore prima che
“Peter Norton” rientrasse in casa, Gerald McGale scese le scale con estrema
calma e attraversò con altrettanta tranquillità il breve corridoio che separava
la gradinata dalla zona che il capo aveva definito delle prigioni. Posò l’indice sul minuscolo ovale di vetro posto a
lato della porta scorrevole e questa si spalancò con uno sbuffo leggero,
permettendogli di passare.
Ricordava ancora il giorno in cui lui
e Maschera Blu avevano interrogato il pilota di Black Hawk catturato nella
notte del bombardamento. Lo ricordava come se fosse successo ieri, quando in
realtà era trascorsa quasi un’intera settimana. Il prigioniero, sul punto di
parlare, era morto in maniera inspiegabile. Non c’erano medici capaci di fare
un’autopsia, tra i rivoluzionari, così avevano dovuto gettare il cadavere in
una fossa e ricoprirlo senza sapere che cosa gli fosse accaduto.
Maschera Blu era di cattivo umore,
ultimamente, e non aveva più avuto il coraggio di domandargli che cosa ne
pensasse riguardo a quel pilota prigioniero. A conti fatti, la questione era
irrilevante. I loro alleati fuori dalla città avrebbero senz’altro scoperto, in
un modo o nell’altro, chi erano i mandanti dell’attacco, e la vendetta sarebbe
calata inesorabile. Per cui non aveva senso stare troppo a preoccuparsi.
La porta scorrevole alle sue spalle
ritornò al proprio posto con un altro sbuffo leggero. Gerald riprese a
camminare, stavolta più speditamente, e superò una mezza dozzina di corridoi
sigillati che si snodavano da quello principale prima di raggiungere
un’apertura a volta che lo fece entrare in un ampio salone scarsamente
illuminato.
«Volevi parlare con me?» domandò come
prima cosa, senza nemmeno aspettare che l’interlocutore si voltasse a
guardarlo.
«Sì. Siediti pure» rispose l’altro,
indicandogli una poltrona vuota. Gerald prese posto e si preparò ad ascoltare
quel che Maschera Blu aveva da dirgli, incrociando le braccia.
«Ho bisogno di un favore» incominciò
Maschera Blu dopo qualche attimo di esitazione, con quella sua voce
assolutamente priva d’accento e quel suo fare autoritario. «Devi disfarti di alcuni
corpi.»
«Poliziotti?»
«No, questa volta no. Sono nostri.»
Gerald scrutò attentamente la maschera
inespressiva del suo interlocutore, alla ricerca di una qualche smorfia che ne
tradisse la rabbia. Ma non stringeva nemmeno i pugni, il che significava che
non era per niente incazzato.
«Quanti?» s’informò, giusto per avere
un’idea del lavoro da sbrigare.
«Tre. Ammazzati al parco questa
mattina. I Sorveglianti non hanno visto nulla, e in questo momento gli uomini
di Johnson stanno interrogando un paio di civili. Sembra che sia stato notato
un gruppo di nove uomini muoversi nella periferia est della città. Forse qualcuno
di loro era armato.»
«Tre corpi. Dove li dovrei buttare,
stavolta?»
«Dove preferisci. Basta soltanto che
nessuno possa più recuperarli. Lo sai, mantenere segreta la loro identità è di fondamentale importanza» gli ricordò
Maschera Blu, come se Gerald lo avesse dimenticato.
«D’accordo. Li faccio sparire prima di
sera. Posso portarli all’inceneritore, così da cancellare definitivamente ogni
loro traccia.»
«Buona idea. Va’ subito, così ci
leviamo il pensiero.»
Gerald annuì e fece per alzarsi, ma
Maschera Blu lo fermò con un cenno della mano.
«Stamattina è arrivato il treno» disse
semplicemente, come se si trattasse di una notizia di poco conto. Gerald rimase
immobile ad aspettare che andasse avanti. «Sai che cosa significa, non è vero?»
«Sì. Significa che ha mandato un
messaggio.»
«Esatto. Dobbiamo prelevarlo dal fondo
del vagone quattro, ma per farlo è necessario aspettare che le altre carrozze vengano
scaricate. Stasera ti voglio in stazione alle undici e mezza precise. Penso di
riuscire a finire di sgombrare il vagone quattro per quell’ora. Preleviamo il
pacchetto e torniamo qui subito, okay?»
«Come esige la procedura» confermò
Gerald, ora lievemente irrequieto.
«Molto bene. Mi raccomando. Undici e
mezza, non più tardi. Prendiamo e andiamo, tutto qui» ribadì Maschera Blu, in
tono categorico.
«Senz’altro. Ora, se permetti, vado a
disfarmi di quei tre cadaveri» concluse Gerald, e detto questo si alzò e
abbandonò la stanza.
Gerald attraversò velocemente il
garage sotterraneo, passando davanti alle terrificanti sagome allineate di
alcuni carri armati, e raggiunse il furgoncino blindato nel quale Maschera Blu
solitamente caricava i corpi da far sparire. Aprì il portellone posteriore per
controllare che i cadaveri fossero lì dentro e osservò per qualche istante in
silenzio le loro maschere imperscrutabili. Richiuse, montò su nella cabina di
guida, mise in moto e partì.
Fuori c’era qualche sprazzo di sole.
Era a malapena tardo pomeriggio, e la situazione pareva tranquilla. Niente
spari nell’aria, niente odore di bruciato. I vigili del fuoco di Eglon avevano
fatto bene il loro lavoro la notte precedente, quando un pazzo che abitava a
Neighbour Street aveva appiccato un incendio alla propria casa. Non erano
riusciti a salvare né lui né la sua famiglia, ma se non altro avevano impedito
alle fiamme di propagarsi. Il che era già tanto, visto che le forniture d’acqua
e di energia elettrica erano state tagliate all’intera città.
Arrivò all’inceneritore pochi minuti
più tardi, entrò nel locale col furgoncino e chiuse dietro di sé la saracinesca.
L’edificio era collegato a uno dei generatori autonomi usati dai ribelli nelle
loro abitazioni, dunque poté accendere due file di luci al neon e mettersi al
lavoro con calma.
Sollevò il coperchio del tubo di
metallo collegato all’inceneritore e tornò verso il furgoncino per scaricare i
cadaveri. Li tirò giù per le braccia, tutti e tre, evitando accuratamente di
far sbattere loro la testa sul pavimento impolverato. In fin dei conti, erano
stati anche loro persone e meritavano dignità e rispetto alla pari dei vivi.
Erano Soldati della Rivoluzione, e
sarebbero stati cancellati da quell’inceneritore. Niente statue per loro,
niente fotografie sui libri di storia. Solo l’inceneritore. Era questo il
destino che li attendeva? Gerald spazzò via dalla propria mente il lugubre
interrogativo e si affrettò a trascinare i corpi verso il tubo collegato
all’inceneritore. Alzò il primo e lo adagiò sul bordo. Aveva la maschera verde
acqua, piena di finte alghe disegnate. Gliela tolse e la fece cadere nella
voragine sottostante. Percorse con lo sguardo il viso nudo del ribelle, un
ragazzo di una trentina d’anni con i tratti ispanici e un accenno di barba
ispida. Lo sollevò dalle caviglie e lo lasciò precipitare nel canale,
sentendolo atterrare dopo qualche istante su un anonimo mucchio di rifiuti.
Sapeva che non avrebbe dovuto guardare
sotto le loro maschere. Era proibito farlo, a tutti. Si trattava della prima
sacrosanta legge che era stata loro impartita quando avevano accettato di
prendere parte alla rivoluzione. Ma non poteva farne a meno, ecco tutto. Gli
sembrava sbagliato gettare quei corpi
nell’inceneritore senza averli prima guardati. Doveva riconoscere almeno quel
poco di umanità che era rimasta nelle loro vere
facce anche dopo morti, e che le maschere annullavano completamente.
Tirò su il secondo corpo e sogguardò
la maschera a righe oblique, verdi e blu. La levò dal viso del ribelle morto e
per un momento si sentì mancare la terra sotto i piedi.
Afferrò la testa del cadavere e se la
portò bene davanti agli occhi, per poter vedere meglio quel volto fin troppo
famigliare. Quello non era un ribelle. No, non lo era affatto, e le domande che
affollarono la mente di Gerald in quei pochi istanti furono un’infinità.
La faccia che stava osservando era
quella di un prigioniero che aveva interrogato pochi giorni prima assieme a
Maschera Blu. Era la faccia del pilota di quel Black Hawk americano abbattuto durante
il bombardamento notturno di Eglon.
Cathy, quella sera, stava leggendo
quando Gerald entrò in soggiorno con aria abbattuta. Aveva quasi finito la
serie di romanzi che lui le aveva suggerito, e aveva in proposito di dedicarsi
al più presto a un nuovo libro già individuato tra i vari titoli a
disposizione. Tirò su la testa per fissare gli occhi nei fori della maschera di
Gerald e si sentì di colpo più serena, come se fino a pochi secondi prima si
fosse trovata in pericolo e ora fosse stata portata al sicuro.
«Ciao, Cathy. Tutto bene?» la salutò,
sedendosi accanto a lei. La sua voce svelava un innegabile accenno di
inquietudine. Ma era così dolce…
Sì, ormai Cathy ne era sicura: si
stava innamorando di Gerald, e sentiva che anche lui iniziava a provare
qualcosa nei suoi confronti. Ma appartenevano a due realtà diverse, che non si
sarebbero mai e poi mai potute incontrare. Lui non era autorizzato a rivelarle
nemmeno il proprio nome. Eppure l’aveva fatto, giusto? Aveva accettato il
rischio e le aveva detto come si chiamava. Era una prova di enorme fiducia.
Aveva messo in un certo senso la propria vita, la propria identità nelle sue
mani, e questo piccolo particolare valeva davvero molto.
«Sì, qui è tutto okay. Una giornata
tranquilla, come al solito. Tu, invece? Stai bene?»
«Abbastanza» rispose Gerald, ma s’intuiva
perfettamente che non era vero. Doveva essere successo qualcosa di brutto quel
giorno, considerò Cathy fra sé e sé. Qualcosa di cui molto probabilmente non
avrebbe potuto parlare, perciò tanto valeva fare a meno di chiedere.
«Sono felice che tu sia di nuovo qui.
Sento la tua mancanza, quando stai via tutto il giorno» gli disse, e la
maschera di Gerald si volse verso di lei e improvvisamente scomparve.
Come attraverso l’oblò di una nave
precipitata in un’altra dimensione, Cathy vide Gerald afferrare i bordi della
propria maschera con le mani. Vide la maschera separarsi dal volto e a poco a
poco salire, fino a scoprire il mento, la bocca, il naso, gli occhi, la fronte,
i capelli castani e arruffati.
Cathy vide Gerald per la prima volta,
e non ebbe nemmeno il tempo di pensare che era un bell’uomo, perché già la
bocca di Gerald si era incollata alla sua e le loro lingue si stavano precipitosamente
abbracciando.
Da quanto tempo avesse desiderato
baciare Gerald, Cathy non riusciva nemmeno a calcolarlo. E lo stesso valeva per
lui, naturalmente, anche se non avrebbe mai avuto il coraggio di rivelarlo apertamente.
La verità è che la vita di Gerald era cambiata, da quando Cathy era entrata a
farne parte. Prima di venire a Eglon non aveva nessuna motivazione alla quale
aggrapparsi per continuare a vivere. Adesso, invece, aveva una ragione più che
valida per non morire, e cominciava a credere che forse era proprio questo il
significato dell’esistenza: avere qualcosa per cui sopravvivere. E per Gerald
quel qualcosa, ormai già da qualche tempo, si chiamava Cathy Holmes.
Lasciò cadere la maschera dal divano e
con le braccia circondò le spalle di Cathy, stringendola a sé. La donna gli si
avvinghiò e si fece sollevare senza opporre resistenza, senza separare le
labbra da quelle di Gerald.
La portò nella sua camera da letto,
tenendole le mani premute sul sedere per poterla sorreggere e accarezzare.
Chiuse la porta con un piede e quasi la lanciò sulle lenzuola, raggiungendola
con un balzo e riprendendo a baciarla. Afferrò la camicetta di Cathy e la
tolse, gettandola sul pavimento. Le sfilò i jeans e si lasciò levare i propri,
stendendosi sul letto sopra di lei e avvertendo finalmente il tepore intimo e
profumato della sua pelle a contatto con la propria.
Cathy finì di spogliarlo mentre lui le
sganciava il reggiseno e si fiondava a baciarla ancora. Gerald le abbassò
infine le mutandine e si soffermò ad accarezzarle i seni, posandovi le labbra
con delicatezza. Cathy lo lasciò fare, tenendosi aggrappata con le braccia alle
sue spalle e al suo collo.
Il ribelle la spostò un po’ più in là
e le percorse le gambe con i polpastrelli, trovandole incredibilmente lisce e
seducenti. Le fece allargare le cosce con estrema dolcezza e altrettanto con
calma si calò piano piano su di lei, dentro di lei, appoggiandole il viso sul
collo per poter respirare la sua pelle e ascoltare il suo respiro che cresceva
d’intensità.
Cathy ansimava, e Gerald la stringeva
sempre più forte contro di sé, quasi che cercasse disperatamente di fondersi
con lei e di saldare la propria pelle nella sua.
Fu in quel momento che la porta si
spalancò, e oltre la soglia buia comparve il profilo ombreggiato di una
maschera verde. La maschera che Gerald sapeva appartenere a un rivoluzionario
che si faceva chiamare Peter Norton.
Sonny Dangerwood stava percorrendo il
breve tratto di strada che separava la casa di Terence da quella di Terry,
quando la sua attenzione fu catturata dal rumore sferragliante di un garage che
si apriva. Volse il viso in quella direzione, distrattamente, con la testa
ancora occupata dall’immagine del corpo insanguinato del suo vecchio amico, e
localizzò immediatamente il garage incriminato. L’interno era completamente
buio, e Sonny fu costretto a coprirsi gli occhi con una mano per via del sole.
Era una zona di periferia, e le case
lì attorno avevano tutte quante i balconi chiusi e le porte sprangate, quasi
che gli abitanti le avessero recentemente abbandonate senza preavviso. Anche
l’abitazione con il garage spalancato si presentava come tutte le altre, con la
porta bloccata da assi di legno inchiodate ai lati e finestre nascoste dietro
spessi balconi scrostati. Ma il garage era appena stato aperto, il che
significava che doveva per forza abitarci qualcuno.
Come a conferma delle supposizioni di
Sonny, uno dei furgoncini blindati adoperati dai ribelli comparve sulla strada
e s’immise tranquillamente nel vialetto della casa, introducendosi senza fretta
nell’interno buio del garage aperto. Il motore fu spento e il portone si
richiuse, dando però a Sonny il tempo di intravedere un uomo con la maschera scendere
dal posto di guida.
Sonny si guardò attorno con
circospezione, lievemente disorientato.
«Ti chiedi anche tu che cosa succeda
nelle case fantasma, vero amico?» gli domandò improvvisamente una voce alle sue
spalle, facendolo sobbalzare. Si girò di scatto e si trovò davanti la faccia
deforme di Jason Paintree, che conosceva anche troppo bene.
«Case fantasma?» riuscì a ripetere
Sonny, mostrandosi spaesato.
«Sì, le case fantasma. Secondo te che
cosa fanno là dentro, eh? Torturano le persone e mangiano carne umana, oppure
dormono e scopano e giocano a carte come tutti noi?»
«Oh, cazzo» farfugliò “Peter Norton”
sulla soglia della camera di Gerald, con la mano ancora appiccicata al pomello
della porta.
Gerald si staccò velocemente
dall’abbraccio di Cathy; quest’ultima si affrettò ad afferrare un lembo delle
lenzuola e a coprirsi il corpo nudo, indietreggiando sul letto fino ad
appoggiare la schiena alla testiera gelida.
Il silenzio strinse in pugno la stanza
semibuia e i due ribelli rimasero immobili a guardarsi, confrontandosi e
cercando di capire che cosa pensasse l’altro. Fu Gerald il primo a prendere la
parola, dopo qualche minuto di stallo, in tono deciso e misurato: «Calma,
amico. È tutto okay.»
«Tutto okay? Non mi sembra proprio, amico» ribatté freddamente “Peter”, con
aria beffarda. «Non mi sembra okay per
niente. Ti sei tolto la maschera.»
«Sì, lo so. Ma è tutto a posto. Adesso
stiamo calmi, andiamo di là e ne parliamo un attimo.»
«Non c’è niente di cui parlare» lo
contraddisse “Peter”, scuotendo energicamente il capo in segno di diniego.
«Niente di niente. Ti sei tolto la maschera e hai mostrato il volto. Ti stavi
sbattendo una civile, e oltretutto lo facevi senza maschera! Scommetto che le hai anche detto il tuo nome!»
Il silenzio di Gerald fu più eloquente
di qualsiasi tentativo di risposta.
«Sì, hai ragione, parlerò molto
volentieri di questo. Ma non con te. Samuel Grey dev’essere informato della
cosa al più presto. Hai violato la procedura in tutti i sensi, hai messo in
pericolo la causa, hai rivelato la tua
fottutissima identità.» Fece un paio di passi in avanti, puntando il dito
contro Gerald. «Sei finito, amico. Out. Sai benissimo che Grey non tollera
queste cazzate. E quando lo verrà a sapere, allora sì che ti infilerà quella
cazzo di maschera nel…»
Ma non ebbe tempo di finire, perché la
sua voce fu troncata di netto dal rimbombo di uno sparo. E Gerald McGale, con
la pistola fumante stretta nella mano, lo osservò stramazzare sul pavimento.
Nessun commento:
Posta un commento