Musica a tutto volume. Energica, di
quella abbastanza potente da far vibrare le tende della camera da letto. Hollywood Undead, sparati a un ritmo
talmente sostenuto da far credere di essere in bilico sull’orlo della morte.
Era così che gli piaceva. Oh sì, solo così poteva togliersi dalla testa tutto
ciò che aveva visto quella mattina fuori di casa.
Il computer portatile, attaccato alla
presa della corrente tramite il cavo di alimentazione, illuminava il viso di
Rick McField. Il ragazzo, sdraiato sul letto, aveva collegato le cuffiette del
suo iPod direttamente al portatile e adesso si stava gustando l’ultimo disco
degli HU con l’amaro in bocca. Non
poteva scaricarsi niente di nuovo, non poteva accedere a Facebook, non aveva modo di controllare la posta elettronica. Era
tagliato fuori, in parole povere. Come il resto della sua dannatissima città.
Google
non rispondeva alle sue insistenti suppliche di resurrezione, e alla stessa
maniera si comportavano i beneamati Youtube,
Blogger e iTunes. Una tremenda catastrofe, ma non pareva ancora del tutto
irrimediabile. Nel senso che non si trattava di un virus informatico,
dopotutto: non aveva bisogno di ripristinare il sistema, gli bastava aspettare
che internet tornasse in vita. Appena le linee fossero state ricollegate, non
ci sarebbero più stati problemi di connessione e la sua esistenza sarebbe
ritornata a essere com’era prima di quell’incomprensibile vicenda.
Il suo computer funzionava, perlomeno.
Aveva rimosso la batteria prima di collegare il portatile alla corrente di
casa. Gli avevano spiegato di fare così, quando l’aveva comperato giù al
negozio di Neighbour Street: in questo modo non rischiava di usurare la carica
della batteria troppo in fretta e di ridurne l’autonomia nel giro di qualche mese.
In quel computer aveva tutti i suoi film preferiti, le sue canzoni, i suoi
giochi. Tutti i dati più importanti della sua vita erano contenuti in
quell’hard disk da cinquecento giga, e finché continuava a sparargli musica
nelle orecchie andava tutto bene.
Quella mattina, a scuola, aveva
assistito a una scena terrificante. Le classi erano logicamente quasi del tutto
vuote, e un quarto dei professori non si era presentato a lezione negli ultimi
giorni. I genitori di Rick avevano insistito affinché non rimanesse a casa a
poltrire, e lui aveva protestato un po’, ma alla fine aveva ubbidito al comando
di mamma e papà. D’altronde, bisognava dire che in fin dei conti non aveva
scelta.
La scena più raccapricciante della sua
esistenza gli si era offerta quella mattina alle otto in punto, quando assieme
a un paio di compagni di classe era entrato in aula. Era stata addirittura
peggiore di quella volta in cui alcuni amici al campeggio avevano legato uno
scoiattolo e gli avevano infilato in bocca un petardo acceso. Il botto aveva
schizzato sangue da tutte le parti, persino sulla sua faccia. Ma entrando a
scuola quella mattina, mettendo piede tra quelle quattro pareti che lo
ospitavano cinque giorni su sette…
Trovare il prof di religione impiccato
sopra alla cattedra rovesciata non era stato molto carino. Specie perché aveva
gli occhi sbarrati, e perché la cintura per la quale era appeso oscillava
ancora…
Ad ogni modo, era acqua passata. I
suoi genitori avevano acconsentito a tenerlo a casa da scuola, e i pochi
professori rimasti avevano pregato anche gli altri di fare lo stesso. La
situazione era troppo drammatica per fingere che non stesse accadendo nulla.
Non era possibile chiudere gli occhi di fronte a una realtà simile. Era
semplicemente sbagliato.
D’un tratto il computer portatile di
Rick si spense e il viso illuminato del ragazzo sprofondò nell’oscurità.
LE
ANIME DI EGLON
PRIMA
STAGIONE
EPISODIO
24
INCONTRI
E SCONTRI
Erano le sette e cinque minuti, e Stan
cominciava a essere impaziente. Sogguardava di continuo l’orologio, e così
facendo si rendeva conto di attirare su di sé l’attenzione, ma allo stesso
tempo non poteva evitarselo. Jeff Turner aveva detto alle sette, dannazione, ed erano già passati cinque minuti. Stare
lì fermi in mezzo alla piazza del municipio non era una scelta troppo saggia, e
la pistola che teneva incollata all’inguine all’interno dei jeans gli dava
fastidio.
Robert aveva insistito per
accompagnarlo, e alla fine Stan aveva dovuto accettare. Anche e soprattutto
perché Sarah si sentisse più tranquilla. Christine e Michael erano sempre più
schivi, sempre più chiusi, e la situazione non piaceva a nessuno di loro. Era
meglio per i suoi figli che si trovasse una soluzione in fretta, e che sia lui
sia Robert ritornassero indietro sani e salvi. Così gli aveva detto Sarah prima
che uscissero, e, dopo aver scalzato la mattonella del seminterrato e aver
recuperato il revolver di Robert, Stan aveva acquisito sufficiente sicurezza da
risponderle di non preoccuparsi.
«Rispiegami che cosa stiamo
aspettando…» barbugliò Robert con fare annoiato, scrutando torvamente la piazza
deserta circostante. Le transenne erano state rimosse dalla mattina precedente,
e allo stesso modo la scalinata era stata resa agibile e i furgoni blindati
erano scomparsi. Due rivoluzionari armati piantonavano l’ingresso del
municipio; più in basso, in fondo ai gradini, altri tre uomini a viso scoperto
se ne stavano fermi con le mani impegnate a sorreggere voluminose mazze da
baseball. Dovevano essere gli uomini di Victor Johnson, valutò Stan tra sé e
sé, osservandoli attentamente e avvicinandosi a Robert per potergli parlare
sottovoce.
«I due tizi di ieri mattina, Robert.
Dobbiamo fare quattro chiacchiere con loro» rispose bisbigliando, come se non
gliel’avesse già detto una mezza dozzina di volte.
«Amichevoli?»
«Può darsi. Ma anche no. Quindi cerca
di tenere gli occhi aperti, okay?»
«Okay» acconsentì Robert, puntando lo
sguardo in direzione della facciata del municipio e riportandolo subito dopo a
posarsi sul marciapiede che separava la piazza dalla carreggiata di Main
Street.
Non sapeva con esattezza che cosa
sarebbe successo, quella mattina. Sapeva soltanto che Jeff e Frank gli
sembravano a posto, e che aveva voglia di fidarsi di loro. Aveva bisogno di fidarsi di loro, altrimenti
non avrebbe avuto alcuna speranza alla quale aggrapparsi. L’unico modo per
tenere Sarah, Christine e Michael al sicuro era impedire ai ribelli di
continuare a bloccare la città, e per fare questo dovevano riuscire a mettersi
in contatto con l’esercito. Non c’era altra strada.
Le
sette e dieci. Ma dove cazzo siete,
si può sapere?
Incominciava a innervosirsi. E se
fossero stati dalla parte dei rivoluzionari? Se Jeff e Frank fossero stati dei
doppiogiochisti e gli avessero detto di venire in piazza con la sua pistola per
poterlo incastrare?
Stan Payton iniziò a sudare freddo, ma
non si scompose. Non c’era più tempo per tirarsi indietro. Ormai aveva puntato,
e i soldi non si potevano più rimettere in tasca. Erano sul banco, in attesa
che le carte coperte venissero svelate.
Sono
proprio un coglione. Se mi beccano
con questa pistola è la fine, non solo per me e Robert, ma anche per Sarah e i
ragazzi. Ma ormai non me ne posso
andare. Sono qui, sto aspettando.
Dai, cazzo, dove siete?
Si sentì tamburellare una mano sulla
spalla e si voltò spazientito per dire a Robert una volta per tutte di finirla
di rompergli le palle, ma il volto che si trovò davanti lo fece sussultare. Era
l’espressione di plastica indecifrabile di una maschera colorata, e dietro i
fori degli occhi si poteva scorgere soltanto un’oscurità infinita.
«Ho bisogno di farti parlare con un
amico, Daniel. Ti dà fastidio?» lo interrogò il vicesceriffo Steve Corall,
sondandolo con occhi inquisitori.
«No, nessun fastidio…» rispose Daniel
Green, vagamente agitato. Le ragazze erano rimaste a casa, in attesa di
raggiungerlo in ospedale nel primo pomeriggio per parlare con il dottore che si
occupava del cugino di Rebecca. Così, lui era uscito da solo per incontrarsi
con il vicesceriffo Corall, che gli aveva comunicato ora e luogo
dell’appuntamento la mattina addietro, prima di sparire in mezzo alla folla
radunata nella piazza del municipio.
«Perfetto, allora. Vieni con me.
Dovrebbero arrivare altre persone, tra non molto.»
Si avviarono a passo sicuro lungo la
strada secondaria, attraversando Main Street in corrispondenza di un semaforo e
proseguendo verso la periferia, in direzione est.
«Che fine hanno fatto gli altri
poliziotti?» volle sapere Daniel. Parlò a bassa voce, consapevole del fatto che
la polizia di Eglon era in cima alla lista dei ricercati.
Il vicesceriffo Corall lo squadrò con
fare diffidente.
«Al mio gruppo è stato offerto asilo
da una persona molto importante. È da quest’uomo che stiamo andando adesso, per
parlargli. Non so che fine abbiano fatto gli altri. Noi ci siamo salvati in dodici,
durante la fuga. La notte dell’attacco eravamo diretti verso l’aeroporto,
subito dopo aver abbandonato la centrale occupata dai ribelli. Lì abbiamo
trovato un bel gruppetto di bastardi armati di mitragliatrice che hanno fatto
fuori metà dei nostri compagni. Ne abbiamo persi altri lungo la strada, prima
che una via di scampo si spalancasse improvvisamente in mezzo a un vicolo
sconosciuto» narrò sinteticamente Steve Corall, mantenendosi sul vago.
«Chi è quest’uomo che vi ha salvati?»
«Lo conoscerai tra qualche minuto, non
temere. Potrebbe farti qualche proposta interessante, quindi preparati a
rifletterci con molta attenzione. Penso che sia l’unico, ormai, a poter
decidere il destino della città.»
«Dev’essere un tipo davvero potente,
allora» considerò Daniel.
«Non puoi nemmeno immaginare quanto,
ragazzo.»
Svoltarono a destra e poi imboccarono
un viottolo piuttosto stretto di nuovo a destra. Daniel non ricordava di essere
passato molte volte per quella zona della città, ma allo stesso tempo riconobbe
che aveva qualcosa di famigliare. Come se appartenesse a qualche vecchio
ricordo parzialmente rimosso.
«Sai, mia figlia era a una festa, la
notte dell’attacco. È scomparsa assieme a tutti gli altri ragazzi che si
trovavano con lei. Non ne è rimasto nemmeno uno, indietro. Non so dove li
abbiano portati, ma spero che stiano bene. Michelle è tutto quello che mi
rimane, da quando sua madre se n’è andata. Non posso sopportare l’idea di
perdere anche lei.»
Daniel Green rimase in silenzio,
domandandosi che cosa rispondere. Non ci fu bisogno di aprire bocca, perché il
vicesceriffo riprese a parlare da solo dopo qualche secondo di pausa.
«Per questo non sono assolutamente
d’accordo con il nuovo sindaco, Daniel. Mi dispiace parlare male di tuo padre,
ma non posso che guardare con orrore alla sua proposta di appoggiare i ribelli.
Eglon non si schiererà mai dalla loro parte. Non tutta Eglon, perlomeno. E noi,
adesso, ci troviamo su quell’ala che ha deciso di opporsi al sindaco Green e
alla Rivoluzione.» Si bloccò tutto d’un tratto e si volse a guardarlo in viso,
penetrandogli ogni difesa con lo sguardo. «E tu, ragazzo? Che cosa ne pensi?
Hai avuto modo di riflettere su quello che ha detto tuo padre?»
Daniel si fermò assieme a lui e per
qualche istante sostenne il suo sguardo. Dopodiché, però, si vide obbligato ad
abbassare gli occhi e a posarli sulle punte delle proprie scarpe.
Aveva avuto modo di rifletterci
eccome, nelle ultime ore. Ci aveva pensato per tutta la notte, ed era arrivato
alla conclusione che a suo padre doveva essere successo qualcosa di terribile.
Thomas Green non era l’uomo che aveva parlato dalla sommità della scalinata del
municipio la mattina precedente. Non era l’uomo che si era rivolto alla piazza
di Eglon con quel ghigno beffardo, affiancato dal sorriso falso di Victor
Johnson. Thomas Green era tutt’altra persona, e Daniel intendeva scoprire che
cosa gli fosse accaduto. Sentiva il bisogno di sapere che fine avesse fatto
realmente suo padre.
«Credo di trovarmi anch’io dalla sua
parte, vicesceriffo Corall» mormorò titubante, e di nuovo sollevò gli occhi per
sostenere lo sguardo pesante del poliziotto e si sentì letteralmente
schiacciare sotto quelle pupille tremendamente sottili e spaventosamente
profonde.
«Allora direi che non c’è altro da
discutere. Puoi aprire, Dave!» chiamò con un tono di voce più alto,
rivolgendosi alla parete muta alle spalle di Daniel.
Una porta che prima il ragazzo non
aveva notato si spalancò sul muro scalcinato e rivelò una luce greve e
polverosa, che fuoriuscì per una ventina di centimetri. «Prego, entra pure»
soggiunse all’indirizzo del giovane, e Daniel senza farselo ripetere si
addentrò nella piccola apertura e passò accanto a un uomo tozzo e apparentemente
poco sveglio che gli indicò un corridoio semibuio.
La porticina si richiuse alle loro
spalle. Steve Corall lanciò un cenno affermativo al ragazzo e i due si
avviarono a passo incerto lungo il cunicolo sconosciuto, accompagnati da
sporadiche lampadine al neon che pendevano in maniera grezza dal soffitto per
mezzo di semplici cavi elettrici scoperti. Il tizio che aveva loro aperto,
Dave, non li seguì.
Il corridoio si snodava nella penombra
apparentemente all’infinito, senza porte né finestre. Daniel si chiese dove si
trovassero, esattamente, in quel momento. Erano sotto la città o si stavano muovendo
all’interno del pianterreno di un grandissimo edificio? Rispondere a questa
domanda era molto più difficile di quello che poteva sembrare, perché non gli pareva
di essersi abbassato rispetto a quando si trovava fuori sulla strada, ma ogni
tanto aveva come l’impressione che la pendenza del corridoio subisse lievi
variazioni.
In fondo, dopo qualche minuto di
silenziosa camminata, apparve il profilo di una stanza più ampia e illuminata.
«Come fanno a esserci tutte queste
luci, qui dentro? Mi pareva che la corrente fosse saltata in tutta la città…»
osservò Daniel, leggermente perplesso.
«Questo posto ha un suo generatore
autonomo alimentato a gasolio. Finché continua a esserci carburante, possiamo
tenere illuminati tutti gli ambienti che ci servono» spiegò il vicesceriffo con
un pizzico di indifferenza, quasi che la faccenda non lo riguardasse affatto.
«Vi siete rifugiati qui, allora, voi
poliziotti?» volle sapere Daniel, mentre il salone al termine del corridoio si
faceva sempre più vasto e vicino.
«Sì, proprio così. Siamo entrati da
quella stessa porta che ci siamo appena lasciati alle spalle, e i nostri
inseguitori hanno perso le nostre tracce. Se non fosse stato per il
proprietario di questo posto, non saremmo riusciti a cavarcela.»
Un altro passo e il corridoio stretto
e basso si tramutò in un ampio salone illuminato, all’interno del quale
prendevano posto lunghissimi tavoli sgombri e voluminosi bancali sui quali
erano accatastate pile di scatoloni chiusi.
«Che cos’è questo posto, esattamente?»
domandò Daniel Green, esterrefatto.
«Il mio garage, ragazzo» rispose una
voce lontana, seguita da un sonoro scalpiccio in avvicinamento. Daniel mise a
fuoco la figura distante che veniva verso di lui e intravide un sorriso famigliare,
che era certo di aver già incontrato prima di allora da qualche altra parte. «È
qui che tengo la mia roba, per evitare che gli sbirri me la soffino da sotto il
naso. Non è vero, vicesceriffo?»
Steve Corall rispose con un grugnito e
un cenno d’assenso. Dietro di lui, a poco a poco, si radunò un gruppetto di
poliziotti dall’aria fiera ma stanca. Era il suo gruppetto di sopravvissuti,
intuì Daniel. Contando lo stesso vicesceriffo erano esattamente dodici.
«Quindi tu sei il figlio di quel
bastardo del nuovo sindaco, eh?» riprese l’altro uomo, che ormai gli era
arrivato davanti e gli stava già porgendo la mano. «Daniel Green, giusto? Io mi
chiamo Joey Goode, molto piacere.»
«Dove andiamo, amico?» s’informò Phil,
guardandosi furtivamente attorno.
«Ve l’ho detto: vi devo portare dal
vicesceriffo Corall» ripeté tranquillamente Gregory Donington, controllando che
il ribelle all’angolo della strada fosse girato dall’altra parte e facendo
segno ai quattro agenti che lo seguivano di attraversare.
«È stato lui a chiedere quest’incontro?»
domandò Patrick Wieler, felice di sentire che il suo collega stava bene. Il
vecchio Steve, alla fine, se l’era cavata. Chissà quanti dei suoi uomini era
riuscito a salvare…
«Sì. Ma ci troveremo con altre due
persone, prima di raggiungerlo. Due amici del vicesceriffo che si sono offerti
di darci una mano.»
Jeremy rimase in silenzio. La faccenda
non gli piaceva troppo. Erano in cinque, e pareva inutile dire che davano
decisamente nell’occhio. Cinque uomini in giro per strada attiravano l’attenzione.
Erano tutti armati, perciò se fossero stati fermati da qualche rivoluzionario
non avrebbero avuto scampo. Non si sentiva a suo agio, in quella situazione.
Davvero per niente.
«Come li hai contattati?» volle sapere
Brian Jones, interessato.
«Anche questo ve l’ho già detto: ho
incontrato il vicesceriffo mentre venivo verso la piazza. L’ho riconosciuto
subito, perché qualche anno fa era venuto a interrogare mia moglie dopo che
aveva assistito a una rissa in un supermercato. Mentre procedevamo assieme, due
personaggi singolari gli si sono avvicinati e hanno confabulato un po’ con lui.
Dopodiché mi hanno chiesto di trovarvi e mi hanno detto che ci saremmo
rincontrati nel parco, stamattina alle sette e un quarto.»
«Capisco. Allora, che cosa hai in
mente? Pensi che i poliziotti di Corall abbiano armi a sufficienza per
organizzare una qualche sorta di controffensiva?»
«Francamente non lo so ancora. Non so
nemmeno in quanti siano. So solo che ci sono, e che stanno cercando di mettere
in piedi un piano d’attacco. Non vogliono starsene con le mani in mano ad
aspettare che intervenga l’Esercito: hanno intenzione di dare del filo da
torcere ai ribelli e di aiutare i soldati a entrare in città.»
«Dobbiamo trovare un modo per
contattare i militari, insomma» riassunse Brian Jones con fare pensieroso.
Jeremy lesse nella sua voce un pizzico di ironia, ma Gregory parve non
coglierlo.
«L’idea è quella. Dobbiamo
innanzitutto capire se qualcuno ha in mente un modo per riuscirci. Una volta intuito
come fare, le armi ci aiuteranno ad agire.»
Il gruppetto si inoltrò nel vialetto
di terra battuta che serpeggiava tra gli alberi del parco, zigzagando tra
panchine di legno marcio e cartelli che esprimevano divieto d’accesso ai
veicoli a motore, divieto di fumo, divieto di accendere fuochi e divieto di
campeggio.
«Eccoli là, i nostri uomini» annunciò
a bassa voce Greg dopo che ebbero superato l’ennesimo cestino della spazzatura
rovesciato.
«Sono loro?»
«Sì. Jeff e Frank, hanno detto di
chiamarsi. Ma i due tizi alle loro spalle non li conosco» confermò Greg,
esitante.
Jeremy si fermò di fronte agli
sconosciuti, di fianco ai propri compagni, e istintivamente portò la mano a
posarsi in corrispondenza del calcio della pistola.
«State aspettando qualcosa?» chiese
una voce impastata riecheggiando nella plastica della maschera.
Stan si sforzò di rimanere
impassibile, ma il cuore gli batteva paurosamente forte. Era un ritmo
concitato, come quello di una grossa campana in cima al più grande campanile
del mondo in un giorno di festa. Solo che non c’era niente di cui rallegrarsi,
in quel momento. Perché quel ribelle non voleva semplicemente sapere se
stessero aspettando qualcosa: esigeva di
saperlo, e il suo tono non lo nascondeva affatto.
«Aspettiamo due amici» spiegò Stan,
cercando di mantenere il tono di voce più normale possibile. Temeva che il
battito accelerato del suo cuore lo tradisse. Gli rimbombava nelle tempie
talmente forte da dargli l’impressione di essere udibile in tutta la piazza.
Come poteva non sentirlo, quell’uomo mascherato che gli stava davanti?
«A quest’ora della mattina?» indagò il
ribelle, poco convinto.
Ecco,
è finita. Se mi perquisisce trova
subito la pistola, e io e Robert finiamo impiccati lungo lo stesso lampione di
Main Street a cui hanno appeso quel poliziotto.
«Siamo tipi mattinieri. Ci piace
andare a camminare quando il sole è ancora basso e non fa troppo caldo» mentì
abilmente Stan, mantenendo un invidiabile controllo. Lanciò un mezzo sorriso al
rivoluzionario, proibendosi di gettare un’occhiata alla mitraglietta che portava
a tracolla. L’uomo annuì e si allontanò senza aggiungere altro, lasciandolo lì
con il suo sospiro di sollievo trattenuto.
«Stan?» lo chiamò Jeff Turner,
raggiungendolo trafelato. «Tutto bene?»
«Sì, diciamo che me la sono cavata» lo
rassicurò, sentendosi di colpo più tranquillo.
«Andiamo: arriveranno fra qualche
minuto nel parco» concluse Jeff, e i tre partirono e abbandonarono dietro di sé
la piazza deserta.
«Joey Goode? Il contrabbandiere?
Quello che gestisce l’intero giro d’affari della malavita di Eglon?» specificò
Daniel Green, lievemente scosso. Doveva ammettere di essere stato preso in contropiede:
non si aspettava che il vicesceriffo Corall collaborasse con un uomo del genere.
Era come vedere un lupo e un agnello gironzolare uno in groppa all’altro.
«In carne ed ossa, mio caro. E sono
qui per inginocchiarmi con tutti i miei crimini e le mie ricchezze di fronte a
te, l’unico ragazzo in grado di aiutarmi. Ho bisogno di te, Daniel. La città di
Eglon ha bisogno di te» scandì Joey Goode con fare cerimonioso, simulando un
inchino.
«Che cosa potresti mai volere da me?»
Goode si rialzò e lo squadrò con
estrema freddezza, producendo un sogghigno che gli fece venire i brividi.
Socchiuse le labbra e bisbigliò: «La testa di tuo padre, per esempio.»
«Signor Donington. Ha trovato le
persone che cercavamo, a quanto vedo» esordì Jeff Turner, spezzando il silenzio
calato sul parco.
«Credo che impiegheremmo più tempo di
quello che abbiamo a fare le dovute presentazioni, dunque ci conviene muoverci.
Questo non è un posto sicuro» intervenne Brian Jones, accennando ai due ribelli
posizionati un paio di alberi più in là.
«Nove uomini armati che si incontrano
in mezzo a un parco. Che cosa c’è di più sicuro, amico?» replicò Frank, accompagnando
le parole con una fugace strizzatina d’occhio.
«Credo che il mio collega abbia
ragione» sentenziò Gregory Donington, appoggiando l’affermazione di Brian.
«Non c’è nessun problema. Possiamo
parlare anche qui» insistette Frank, girandosi a guardare i due rivoluzionari
che nel frattempo li stavano osservando con circospezione.
«Se vengono qui e ci controllano è
finita!» ribatté Phil, distogliendo lo sguardo dalle maschere ora in rapido
avvicinamento.
«Non vedo l’ora, cazzo! Dai, venite,
datevi una mossa!» berciò Frank, voltandosi verso i ribelli e vociando al loro
indirizzo.
I due affrettarono il passo e
sollevarono i fucili automatici che avevano con sé, mettendosi quasi a correre
nella loro direzione. «Ehi, voi!» sbraitò uno, rimuovendo in un lampo la
sicura.
«Ma sei pazzo?!» gridò Patrick Wieler,
portandosi la mano alla fondina.
Frank estrasse dalla cintura una
grossa pistola di metallo cromato con un silenziatore all’estremità della canna
e la spianò senza tanti complimenti, premendo il grilletto quattro volte in una
successione spaventosamente veloce. I due rivoluzionari non ebbero nemmeno il
tempo di prendere la mira: crollarono a terra inermi sul vialetto di terra
battuta e non si mossero più, inchiodati al suolo come oggetti d’arredamento
sfasciati.
«Adesso possiamo parlare in tutta
tranquillità» asserì serenamente Jeff, e sorrise agli agenti rimasti
imbambolati davanti a lui.
Le sigarette che le aveva regalato
quel Joey, stava pensando Emily Cooper mentre attraversava la strada davanti
alla stazione ferroviaria di Eglon, erano davvero buone. Forse perché erano le
uniche rimaste in tutta la città, rifletté. Ma anche perché le erano state
donate con tanta gentilezza da arrivare quasi a commuoverla. Quel Joey Goode
era stato infinitamente elegante con lei, e, dopo che l’aveva portata nel suo
“garage”, Emily era arrivata a capire che in fondo in fondo non era davvero
male. Nessun fidanzato era mai stato cortese con lei quanto Joey Goode quella
notte, e stava iniziando a pensare che sarebbe andata a incontrarlo ancora.
Chissà, magari le sigarette potevano essere un’ottima scusa…
Quella che le penzolava dalle labbra
era quasi finita. Era dovuta uscire dall’hotel per prendere una boccata d’aria,
perché là dentro rischiava di soffocare. Una bella passeggiata mattutina poteva
essere davvero salutare. Visto che non aveva niente di meglio da fare, tanto
valeva approfittarne.
Uno sfrigolio la distolse dai propri
pensieri. Uno sciacquio distante, remoto, che sembrava avvicinarsi rapidamente
e crescere d’intensità. Era lo sferragliare di un animale quanto mai
improbabile, una gigantesca bestia di ferro che avanzava a folle velocità.
Rischiando di farsi investire da
un’auto che si bloccò a pochi centimetri dalle strisce pedonali, Emily Cooper
restò paralizzata in mezzo alla strada a guardare l’immenso treno che stava
frenando in prossimità della stazione di Eglon, arrestandosi con un acre
stridio metallico.
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