Sabato mattina, finalmente. Quant’è bello il sabato mattina, quando si
porta dietro la consapevolezza che un’altra settimana è finita? Impossibile
rispondere a questa domanda. Impossibile quantificare la bellezza assoluta del
sabato mattina. Specie di quel sabato
mattina in particolare, che si prospettava sereno e invitante.
«Erika! Come stai, amore?» la riscosse
la voce di Brittany, delineandosi nell’aria come il tocco magico di un angelo
sospeso.
Erika si voltò e vide l’amica venire
avanti con un ampio sorriso. Si fermò ad aspettare che la raggiungesse e si
scambiarono un bacio sulle guance, abbracciandosi.
«Tesoro, sono felice di rivederti.
Oggi è proprio una bella giornata, vero?» disse Erika, inalando il profumo
della compagna di classe e lasciando che per qualche istante le coccolasse i
sensi, abbandonandosi nella sua fragranza inconsistente.
«Sì, sono d’accordo» approvò Brittany,
separandosi dall’abbraccio e studiando la migliore amica con i suoi occhi
espressivi. Aveva gli occhi azzurri, Brittany. Di quella particolare tonalità
di azzurro che il cielo assume soltanto quando è completamente sgombro. I
capelli, biondo chiaro, le ricadevano sciolti sulle spalle e la pelle perfetta,
liscia come la superficie di un foglio di carta appena pressato, si distendeva
in un sorriso assolutamente disarmante.
Brittany squadrò l’amica, che aveva
una lunga chioma bruna e occhi di un marrone incredibilmente profondo, quasi
surreale. Anche la pelle di Erika era perfetta, valutò mentre la esaminava da
vicino, e il suo corpo era snello e slanciato.
«Niente compiti e niente
interrogazioni stamattina, giusto?» domandò ancora Erika, affiancandosi
all’amica e avviandosi con lei in direzione del liceo, che si trovava lungo
Main Street a circa due isolati di distanza dal municipio di Eglon.
«No, teoricamente no» confermò
Brittany, sempre raggiante. Si volse a guardare in viso l’amica e i loro occhi
si scambiarono sussurri di una complicità inestimabile, che nessun altro al di
fuori di loro sarebbe riuscito a cogliere. Si misero entrambe a ridacchiare e
si tennero giocosamente per mano, andando avanti per il marciapiede con estrema
calma.
«Stasera che si fa?» riprese Brittany,
mentre facevano il loro ingresso nel corridoio centrale del liceo, lasciandosi
circondare da una fiumana di studenti in movimento.
«Devo fare da autista a mia sorella.
Vuole andare alla festa di Tila Berkovich, e io la devo per forza accompagnare
fino a là. Poi però sono libera» illustrò Erika.
«Beh, direi che uscire è escluso: sono
troppo stanca, per questa settimana è meglio fare una cosa tranquilla… Vieni da
me dopo aver mollato giù tua sorella e ci spariamo un film?» propose Brittany,
lanciando una strizzatina d’occhio all’amica.
«Se è un horror ci sto!» accettò
felice Erika, rispondendo con un sorriso d’intesa.
«Oro! Direi che siamo d’accordo,
allora. Ti aspetto per le nove, nove e mezza al massimo. Ci buttiamo a letto in
camera mia e ci guardiamo l’horror» concluse Brittany, scuotendo la cascata di
capelli biondi e puntando i suoi occhi – scorci di cielo sgombro – in quelli
marroni della compagna di classe. «Una serata tranquilla, come piace a noi.»
«Esatto» confermò Erika, ed entrarono
assieme in classe.
Ancora non lo potevano sapere,
naturalmente, ma non sarebbe stata affatto una serata tranquilla. Anzi.
LE
ANIME DI EGLON
PRIMA
STAGIONE
EPISODIO
23
AMANTI
SEGRETE
«Tesoro, ci sei?»
«Sono sotto casa tua, piccola» rispose
Erika ridacchiando, infilandosi in tasca il telefonino e parcheggiando nel
vialetto d’ingresso dell’abitazione di Brittany. Sua sorella era alla festa di
Tila, che con ogni probabilità non si sarebbe conclusa prima delle due. Questo
le garantiva almeno cinque ore di relax assieme alla sua migliore amica, prima
di doverla andare a riprendere al campo da baseball facendosi strada tra
automobili parcheggiate in doppia fila e ragazzini sbronzi intenti a vomitare
dietro le siepi o, in alcuni casi, direttamente sul marciapiede.
Spense la macchina e rimase un minuto
seduta dietro il volante per radunare i pensieri e risistemarli nel primo
cassetto della sua scrivania mentale. Li avrebbe ripresi in esame più tardi, una
volta tornata a casa. Niente pensieri, quella sera: erano lei e Brittany,
inseparabili amiche fin dai tempi delle elementari, e voleva solo trascorrere
qualche ora piacevole assieme prima di andare a dormire.
La giornata, alla fine, era stata molto
più stressante del previsto. Quella mattina era scoppiata una bomba in
municipio, o almeno così aveva sentito dire. Le pareva di aver udito
l’esplosione, durante la lezione di storia, ma non ne era del tutto sicura. Era
talmente concentrata nel prendere appunti che quasi non ci aveva fatto caso. Si
mormorava che il sindaco fosse morto, e questo spiegava la presenza di dozzine
e dozzine di poliziotti lungo Main Street intorno all’una, quando era uscita da
scuola. L’evento non l’aveva toccata più di tanto: si era limitato a sfiorarla,
passando oltre. Suo padre era amico del sindaco Donaldston, che era venuto
qualche volta a cena a casa loro con la moglie e il figlio. Nulla di particolare.
Era una persona che Erika giudicava okay, ma a essere del tutto sincera non le
era mai stato troppo simpatico.
Una luce si accese sulla facciata
dell’abitazione di Brittany e il volto della ragazza comparve oltre il vetro
della finestra incriminata, soffiando un sorriso limpido in direzione della
vettura parcheggiata. Erika si decise a scendere e salutò l’amica con un cenno
della mano, richiudendo pesantemente la portiera dietro di sé.
Non era troppo freddo. Tutto sommato,
si stava bene. Si posizionò di fronte alla porta e attese che la compagna di
classe arrivasse ad aprirle. Brittany spalancò l’entrata pochi secondi dopo, in
vestitino e pantofole, e la accolse in casa con un ampio sorriso, precedendola
in direzione della camera da letto.
«Che cosa guardiamo stasera, Britt?»
«Roba nuova, amore. Ancora horror, ma
stavolta cambiamo» restò sul vago la giovane, introducendosi con Erika nella
stanzetta spaziosa ma intima nella quale prendeva posto il suo letto a una
piazza e mezza già spostato davanti allo schermo al plasma.
«Di che cosa si tratta?»
«Invece del solito film, ho pensato di
iniziare a guardare una serie televisiva. Ben fatta, naturalmente. Ti piacerà,
piccola, ne sono convinta. Si chiama The
Walking Dead.»
«Zombie?» azzardò Erika, intuendo
l’argomento dal titolo.
«Esatto: zombie. Ma come non li hai mai
visti prima» rettificò Brittany, facendole l’occhiolino e accendendo il lettore
DVD collegato al televisore.
«Mi hai incuriosita abbastanza» ammise
Erika ridacchiando, togliendosi le scarpe e buttandosi sul letto. Brittany la
raggiunse e sistemò i cuscini per poter tenere la testa sollevata in direzione
dello schermo, quindi si sdraiò accanto all’amica, facendo partire il video.
«Tua sorella?» domandò Brittany, mentre
osservavano il protagonista camminare con aria spaesata in mezzo a una strada
affollata di automobili semidistrutte.
«È alla festa della Berkovich. Dovrò
andarla a prendere verso le due, credo…»
«Perfetto: così abbiamo il tempo di
guardarci i primi tre episodi» commentò Brittany, stringendosi attorno al
braccio della compagna di classe che rise sommessamente.
Il protagonista richiamò l’attenzione
di una bambina bionda che si allontanava tra i rottami delle automobili piene
di cadaveri. Le promise che non le avrebbe fatto del male. La ragazzina si voltò
lentamente, mostrando una faccia pallida e spruzzata di sangue, in parte
devastata da un morso. Erika afferrò istintivamente la mano dell’amica e la
strinse nella propria.
Brittany sorrise in silenzio. La mano
di Erika appariva fredda, nel tepore della sua. Piegò leggermente la testa di
lato sul cuscino per osservare l’espressione tesa e spaventata dell’amica, e
nel guardarla i capelli dorati le ricaddero in parte sul viso.
Iniziò la sigla di apertura ed Erika si
voltò verso la compagna, trovando i suoi occhi, azzurri come un cielo eccezionalmente
sgombro, già puntati nei propri.
Si chiese perché Brittany la stesse
guardando. Nello stesso momento in cui si poneva questa domanda, si accorse che
il cuore le batteva forte. Era strano. Una sensazione strana, che non le sembrava
di aver mai provato prima. Anzi no, non era del tutto vero: non si trattava di
una sensazione completamente sconosciuta, realizzò dopo qualche istante di
riflessione. L’aveva già provata altre volte. E tutti i ricordi che in qualche
modo contenessero quella sensazione erano legati direttamente a Brittany, ai
suoi occhi e ai suoi sorrisi.
Ma
che cosa significa?
«Sai, sono felice di passare il sabato
sera con te. Sei la mia migliore amica, piccola» sussurrò Brittany, mentre al
di là del letto si consumava la sigla di apertura del primo episodio di The Walking Dead. Ormai non erano più
interessate alle immagini che scorrevano sullo schermo, né tantomeno ai suoni e
ai dialoghi che permeavano la stanza. L’esistenza, in quei minuti di statica contemplazione,
si limitò ai loro sguardi intessuti e alle loro parole mute, al loro abbraccio
di sensi che ben presto si tramutò in un abbraccio fisico.
Fu Erika la prima a spostarsi. Lasciò
andare la mano di Brittany, si girò sul letto verso l’amica e la abbracciò,
stringendola a sé con forza. Le bisbigliò nell’orecchio: «Anche tu sei la mia
migliore amica, Britt. E anch’io sono felice di essere qui con te.»
E perché adesso il cuore le batteva
così all’impazzata? Che cosa significava? Sentiva anche i battiti del cuore
dell’amica, che le martellavano il petto attraverso la maglietta. Sentiva il
calore e il profumo di Brittany addosso, il loro corpi che lentamente si
intrecciavano in quell’abbraccio di affetto infinito che stava a poco a poco
fondendo i loro respiri e i loro sentimenti.
(perché
fai così, Britt?)
Erika sentiva il seno di Brittany
premere contro il proprio, nonostante le rispettive magliette opponessero
strenua resistenza. Percepì chiaramente una delle gambe dell’amica circondarle
il fianco nell’abbraccio, e si lasciò stringere con più energia.
Non ce la faceva più. Si sentiva
scoppiare, e non sapeva perché. Era come se un’improvvisa onda d’urto stesse
per irrompere dal suo petto, potente e magica come un fuoco che scaturiva
direttamente da una distesa di ghiaccio perenne. Si lasciò inebriare da
quell’inedita sensazione di abbandono e finalmente ogni barriera si sciolse.
Come un via libera improvviso, qualcosa nella sua anima si frantumò. Dai cocci
di quell’essenza distrutta, Erika aspirò tutta l’emozione repressa che fino ad
allora aveva tenuto celata e posò un bacio sulla pelle sottile e delicata del
collo di Brittany, scostandole i bei capelli biondi con le dita.
Un altro bacio sul collo, salendo verso
il mento. Un altro, e poi un altro ancora, come una serie inesauribile di passi
che conducevano verso una meta tanto sconosciuta quanto profondamente desiderata.
Brittany rimase immobile ad aspettarla,
con gli occhi azzurri spalancati e puntati su di lei, mentre Erika con i suoi
baci risaliva il profilo del viso della compagna, abbandonando il collo e
raggiungendo pian piano il mento, spostandosi furtiva sull’orlo delle labbra,
soffermandosi presso di esse, scambiando il suo respiro con quello della
migliore amica e… le loro bocche si ritrovarono a essere incollate, come per
incanto, e a scambiarsi calore di una qualità decisamente diversa.
La lingua di Brittany sfiorò le labbra
di Erika e trovò un varco per poter passare oltre. Nell’abbraccio senza tempo
che si stava consumando su quel letto illuminato dalle immagini dello schermo
televisivo, Erika e Brittany continuarono a baciarsi prolungando la sensazione
all’infinito, a poco a poco svestendosi e sperimentando l’una il sapore
dell’altra.
Quando si svegliò di soprassalto,
Brittany si rese conto che l’aria era cambiata. Aveva la testa appoggiata sul
petto di Erika, nell’incavo tra i suoi seni per metà scoperti, e i capelli
distesi a raggiera sulla pelle liscia e profumata della migliore amica. Il
respiro di Erika, sommesso e regolare, la faceva sollevare e abbassare a un
ritmo lento e suadente, quasi ipnotico.
C’era odore di bruciato nella stanza, e
il fioco bagliore proveniente dallo schermo televisivo si adagiava sui loro
corpi seminudi come un impalpabile velo di polvere sui mobili di una casa abbandonata
da poco.
Brittany tirò su la testa adagio,
cercando di focalizzarsi sulla sveglia posizionata sul comodino accanto al
braccio di Erika, ma non riuscì a leggere l’ora. Uno sbadiglio salì impellente
e fu obbligata a spalancare la bocca per farlo uscire, liberandolo. La vista le
si appannò leggermente. Con gli occhi umidi andò nuovamente alla ricerca della
sveglia e riuscì a mettere a fuoco, non senza una certa difficoltà: le dieci e
mezza. No, un attimo… L’una e mezza!
Oh
Cristo, ci siamo addormentate!
«Erika! Erika, svegliati tesoro!»
chiamò sottovoce, scuotendo dolcemente la compagna addormentata lì accanto.
Erika aprì gli occhi esitante, sbadigliando sonoramente, e le sorrise con fare
dolce e accomodante.
«Che cosa c’è?»
«Ci siamo addormentate! È l’una e
mezza!»
«Non importa. Non è un problema. Mia
sorella non uscirà dalla festa prima delle due, piccola…» la tranquillizzò la
ragazza, mettendosi a sedere con la schiena appoggiata ai cuscini. Si guardò un
seno scoperto e parve rimanere un attimo a pensarci su, come se non ricordasse.
Quindi sollevò la testa e sorrise maliziosamente all’amica, sistemandosi il
reggiseno e recuperando la maglietta dal pavimento.
«Controlla lo stesso, amore. Non vorrei
farti prendere parole dai tuoi» insistette Brittany, preoccupata.
Erika ridacchiò e la guardò con
amorevole divertimento, mormorando: «Se sapessero com’è andata la serata, non prenderei
soltanto parole…»
Brittany sorrise. Era vero. I genitori
di Erika erano molto religiosi, e lei lo sapeva. L’ultima volta che era stata a
cena da loro si era vista costretta a improvvisare una preghiera assolutamente
sconosciuta, prima di poter infilare la forchetta nelle lasagne fumanti, e si
era sentita lievemente fuori posto. Fortunatamente, Erika le era venuta
incontro recitando a voce più alta per coprire i suoi borbottii sconnessi. La
vicenda era stata fonte di risate e occhiate d’intesa tra loro due per almeno
un paio di settimane.
Erika si sporse in direzione del
comodino e afferrò il cellulare, portandoselo davanti agli occhi per verificare
che la sorella non le avesse inviato qualche messaggio. Ne trovò uno in
memoria, uno soltanto, inviato pochi minuti dopo che l’aveva lasciata nel
parcheggio sovraffollato del campo da baseball: “Vienimi pure a prendere verso
le tre, se per te non è un problema.” Scrisse rapidamente “Ok” e inviò,
lasciando ricadere il telefonino tra le pieghe delle coperte. «Tutto a posto»
confermò. «La sorellina ci lascia un’ora in più.»
«Forse allora ci conviene ritentare di
guardare quell’episodio…» propose Brittany, accennando al lettore DVD ancora acceso.
Il cellulare di Erika produsse un
trillo inaspettato, che fece sobbalzare tutt’e due. La ragazza lo recuperò
sbuffando e controllò lo schermo, che la avvisava semplicemente del fatto che
il messaggio non era stato inviato.
«Messaggio non inviato. Non c’è campo»
spiegò, rivolgendosi all’amica con fare interrogativo.
«Niente campo? Strano, qui il mio
prende sempre bene» alzò le spalle Brittany.
«Eppure… Aspetta, vado a vedere se
avvicinandomi alla finestra cambia qualcosa.» Si alzò e si incamminò scalza in
direzione dello scorcio di vetro che dava sull’esterno, mentre Brittany rinveniva
il suo cellulare accanto al televisore e lo riaccendeva.
«Ehi, neanche il mio prende. Mi sa che
c’è qualche problema di segnale, non mi era mai successo in camera mia prima
d’ora…»
«Britt… Vieni qui a vedere…» gloglottò
Erika in tono funereo. Sembrava decisamente angosciata,
e la sua voce fece preoccupare Brittany, che mollò subito il telefonino e si
fiondò davanti alla finestra accanto all’amica.
«Che cosa…?»
Le parole si sciolsero nell’aria,
rimanendo presenti ma perdendo consistenza, come una singola goccia di latte
precipitata in una tazza di caffè. D’altronde, di fronte a uno spettacolo
simile qualsiasi parola avrebbe immediatamente perso ogni significato. Non
aveva senso parlare, quando le immagini stesse erano sufficienti a generare il
più forte effetto possibile. Non aveva proprio senso. E, infatti, Erika e
Brittany rimasero in silenzio, accostate al vetro, e inconsapevolmente si cercarono
e si afferrarono, prendendosi per mano e stringendo quanto più possibile.
L’oscurità, lambita dal fuoco da ogni
parte, non era che una vuota cornice di fronte allo scenario che si offriva ai
loro occhi inorriditi.
«Devo assolutamente recuperare mia
sorella, Britt!» strillò Erika, finendo di rivestirsi rapidamente e intascando
le chiavi della macchina.
«Vengo con te» decise Brittany,
inappellabile. Erika la squadrò malamente e quando l’amica le sorrise non poté
fare altro che cedere, accettando la condizione.
Due minuti e mezzo più tardi si
trovavano in auto. Erika girò la chiave e avviò il motore, Brittany chiuse la
portiera e seguì la manovra di retromarcia dallo specchietto centrale.
Rimpianse il calore delle coperte e del corpo nudo di Erika premuto contro il
suo. Questo le rendeva molto di più che semplici amiche, ragionò Brittany
mentre la compagna di classe si immetteva nella via laterale, accelerando
paurosamente. Questo le rendeva amanti.
Amanti segrete, si corresse Brittany tra
sé e sé. L’idea non le dispiaceva, solo che suonava così strana…
Non ricordava di aver mai provato nulla
di particolarmente intenso per Erika. Allo stesso tempo, però, sapeva anche di
amarla da sempre. Era come se fossero state amanti fin dal loro primo incontro,
senza nemmeno rendersene conto. La verità era che ogni minuto era stato
intenso, nel loro fitto e univoco rapporto di amicizia, per questo motivo
nessun istante si era configurato come più speciale degli altri. Ecco perché
non ricordava nulla di intenso: perché tutto, dall’inizio alla fine, era stato
amore intenso.
«Britt, se è successo qualcosa a mia
sorella i miei non me lo perdoneranno mai…» farfugliò Erika, visibilmente
scossa ed evidentemente impaurita. C’era un’ansia corposa, definita, nella voce
di Erika, ed era rappresentata dal timore che i suoi genitori la odiassero per
quello che aveva fatto. Che stesse provando del rimorso? Brittany se lo chiese,
ma liquidò la domanda con un invisibile cenno di diniego: no, era solo
spaventata. D’altro canto, non era l’unica.
«Non ti preoccupare, piccola. Pensa a
guidare.»
Guardò fuori dal finestrino e notò
alcune persone che correvano lungo il marciapiede. Decine di visi erano
affacciati alle finestre delle abitazioni che sfilavano di lato. Passando di
fianco a uno svincolo intravide un furgone blindato parcheggiato in mezzo alla
carreggiata e circondato da uomini incappucciati che parevano imbracciare delle
armi.
Ma
che cosa sta succedendo? È scoppiata la guerra? Siamo sotto attacco?
Non osava parlare, per paura di
deconcentrare l’amica
(amante)
alla guida. Ma una serie inarrestabile di domande le
invase la testa con impeto sovrumano, cancellando ogni possibilità di
razionalizzare ciò che vedeva e alimentando fiamme di pensieri sempre più cupi
e sempre più pessimistici.
Dai,
piccola. Manca poco. Prendiamo tua sorella e torniamo a casa.
Non mi piace tutta questa gente per
strada. Le auto ferme, le persone che
corrono, le urla, gli spari in lontananza…
Erika frenò bruscamente e svoltò a
sinistra, infilandosi nel parcheggio gonfio di automobili spente del campo da
baseball e bloccando la vettura a pochi passi dal cancello spalancato,
lasciando il motore acceso e tirando il freno a mano.
«Che cosa vuoi fare?» volle sapere
Brittany, agitata.
«Scendo e vado a vedere dov’è mia
sorella» disse Erika con aria irrequieta, smontando dalla macchina e avviandosi
in direzione del campo da baseball che già da lì si vedeva essere completamente
deserto.
Povera
piccola, pensò Brittany. Non c’è
nessuno, qui. Sono spariti tutti.
Scese e raggiunse l’amica, che si era
paralizzata sulla linea del cancello aperto. Il campo da baseball era
illuminato da un chiarore debole e soffuso. C’erano rifiuti d’ogni genere sul
tappeto erboso, e più in là trovava posto il tavolo sul quale erano stati
piazzati il computer e la consolle del disc jockey della festa. Le casse,
disposte attorno a un consistente quadrato di terreno, erano immobili come
vecchie reliquie di un passato cancellato. Una era stata capovolta e giaceva
all’insù sull’erba calpestata, come un oggetto lasciato cadere nella foga di
una fuga improvvisa.
«Che cosa è successo, qui?» biascicò
Erika, rassegnata.
«Proprio non lo so» rispose Brittany,
osservando con crescente inquietudine i segni di cingoli sull’erba del campo,
che partivano dal parcheggio e si inoltravano per diversi metri. Sembravano
essere stati lasciati da un carro armato. Ma non era logico pensare che un
carro armato fosse entrato nel campo da baseball della città di Eglon, giusto?
Non lo era per niente.
«State cercando i ragazzi che c’erano
qui?» domandò loro una voce stridente, innalzandosi a inquinare il silenzio da
un angolo della siepe alle loro spalle. Erika e Brittany si voltarono di
scatto, terrorizzate, e si presero per mano indietreggiando. Un uomo seduto a
terra si alzò in piedi lentamente e le squadrò con un sorriso falso e deforme.
Sembrava avere la faccia consumata da una malattia, forse da un cancro. Gli
occhi, due minuscole fessure nere sul viso gonfio, sogghignavano alla pari
delle labbra tese. «Non devono essere andati lontani. Se li sono portati via
con i loro furgoni blindati, sapete? Sono partiti con i loro furgoncini e il
loro carro armato, e credo che non faranno più ritorno.»
Fu in quel momento che Brittany lo
riconobbe: non poteva che essere Jason Paintree, il senzatetto che spesso
incrociavano al parco dopo essere uscite da scuola. Suo padre, un giorno, le
aveva raccontato che per colpa del tumore che gli aveva rosicchiato la faccia
quando era giovane non era mai riuscito a inserirsi bene nella società. Abitava
ai margini di Eglon, chiedendo l’elemosina per comprarsi da bere e facendosi
ospitare dal parroco nelle serate d’inverno più rigide. D’estate dormiva sulle
panchine del parco, in primavera e in autunno trovava posto in qualche vicolo,
di fianco ai cassonetti. Non era mai riuscito a trovarsi un lavoro, per ben due
motivi, aveva spiegato il padre di Brittany alla figlia quella volta in cui il
discorso era saltato fuori: per la sua bruttezza e per il suo carattere
difficile.
«Lei come fa a saperlo?» singhiozzò
Erika, allarmata.
«Perché li ho visti, ragazzina. Li ho
visti arrivare con il loro carro armato e i loro furgoncini blindati, li ho
visti puntare le armi sui ragazzi e farli salire con la forza. Li hanno portati
via, vi dico. Via, verso Main Street. Verso una delle case fantasma» borbottò
Jason Paintree, in tono malfermo e poco chiaro.
«Case fantasma?» ripeté Brittany,
credendo di aver capito male.
«Sì, case fantasma. È quello che ho
detto, mi pare» ribatté Jason con fare ostile, lasciando libero sfogo alla sua
voce tremendamente stridente.
«Di che cosa si tratta? Dove sono?»
Jason Paintree ridacchiò
sommessamente. Si interruppe e dopo pochi secondi riprese con maggiore enfasi, iniziando
a ridere a crepapelle e piegandosi in due.
«Questo qui è pazzo…» balbettò Erika,
sconvolta.
«Andiamo via» concluse Brittany,
riprendendo la mano della compagna e trascinandola con sé verso l’automobile
ancora accesa.
Stavano per montare in macchina,
quando la risata fragorosa di Jason Paintree fu troncata di netto da un accesso
di tosse che parve essere sul punto di soffocarlo. L’uomo si calmò, piano
piano, e si girò a guardarle con fare solenne, senza smettere di sogghignare
con quella bocca storta e quegli occhietti infossati nella faccia deforme.
«Volete sapere dove sono le case
fantasma, ragazzine? Sono sotto terra,
ecco dove sono. Sotto terra! È là che tengono i carri armati! È là che tengono
le bombe, le pistole, i fucili, le mitragliatrici! È da là che sono partiti, ed
è là che hanno portato i ragazzi che c’erano qui! Tutti nelle case fantasma,
signorine! Tutti giù nelle case fantasma!»
Ricominciò a ridere e a tossire concitatamente.
Erika e Brittany salirono in auto e
ripartirono, abbandonando volentieri il campo da baseball deserto.
Nell’abitacolo, per tutto il viaggio di ritorno, la voce stridula di Jason
Paintree continuò a riecheggiare lugubre: sotto
terra…
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