Camminava
solo per la strada. A testa alta, per la prima volta dopo tanto tempo.
Camminava
sotto la pioggia, lasciandosi trascinare dalle sue stesse gambe che andavano
per conto proprio.
Camminava
molleggiato, con i suoi pantaloni rossi e la sua canottiera bianca, i muscoli
solidi e rivestiti di tatuaggi, i rasta che gli tamburellavano piacevolmente
sulla schiena sotto il frontino del berretto da baseball rovesciato
all’indietro.
Camminava là
fuori per la prima volta completamente solo, e ascoltava il tintinnio delle
catene che portava al collo e il ticchettio della pioggia sull’asfalto e sulle
pozzanghere.
La gente lo
guardava. Non troppo bene, ma non gli importava un granché. Lo guardavano
passare e lo guardavano male. Ma loro non potevano capire.
A dire il
vero, nessuno poteva capire. Nessuno al
mondo.
Cerco io stesso di capire l’uomo che sono,
si ripeteva mentalmente. E intanto camminava per la strada, con gli occhiali da
sole e i muscoli in vista, bagnati dalla pioggia. I tatuaggi neri sulla pelle
scura, sulle braccia, sul collo, sul viso.
Si tolse gli
occhiali scuri, di modo che la gente potesse vedere anche i tatuaggi che si era
fatto fare sulle palpebre. Poi quelli sulle nocche delle dita, sui polsi…
Accanto al metallo tintinnante dei suoi anelli e dei bracciali, che creava
musica con le catene al collo e con la pioggia.
Il suo era un
incedere possente. Si sentiva forte, e cosa ancora più importante si sentiva vivo.
Sorrideva al
vuoto davanti a sé, a quella strada che si snodava all’infinito verso il mondo.
Camminava su quella strada, in direzione dell’oceano, in direzione del nulla
più assoluto.
Sei anni di
galera, cazzo. Sei anni della sua vita buttati nel cesso assieme a mezzo chilo
di cocaina pura, in attesa che il giudice tirasse lo sciacquone e che i
poliziotti che gli avevano messo le manette addosso si spartissero il bottino
sequestrato. Ma adesso era fuori, e per la prima volta camminava solo e
dannatamente libero lungo una strada
qualunque, verso una direzione sconosciuta.
Aveva della
musica in testa, e i suoi passi ne ricalcavano il ritmo. Era un crescendo
sempre più frenetico, fatto di note impalpabili, veloci, sottili e leggere.
Note fantasma, in una mattinata spettrale di pioggia con le nuvole che avevano
annegato il sole.
Sei anni
dietro le sbarre, circondato da persone il cui unico desiderio della giornata
era vedere del sangue sul pavimento della mensa o del cortile. Meglio su tutti
e due, se ce n’era l’occasione.
Quanti denti
aveva rotto. E quanti ematomi aveva dovuto nascondere, per evitare di scoprire
un punto del quale gli altri avrebbero potuto approfittare per piegarlo e poi
spezzarlo. Non l’aveva mai data vinta a nessuno di loro. Si era prolungato la
pena di due anni, a furia di scazzottate. Ma quelle erano inevitabili, e comunque
ne era sempre uscito vincitore. E si era guadagnato il rispetto, un valore
molto importante da quelle parti. Forse l’unico che contasse davvero qualcosa
fuori dal mondo reale.
Si fermò
sotto un semaforo con la luce rossa accesa e si guardò intorno. Guardò l’auto
di pattuglia che veniva avanti lentamente, nella sua direzione, e si fermava a
pochi passi da lui. Incrociò lo sguardo del poliziotto seduto dalla parte del
passeggero, e si riconobbero a vicenda.
Sorrise e dai
pantaloni rossi estrasse una mitraglietta Uzi con il caricatore già inserito.
Il volto del
poliziotto fu deformato da una tremenda espressione d’orrore.
Scaricò
cinque colpi contro il suo finestrino, e vide schizzare il sangue all’interno
dell’abitacolo. Quindi scese dal marciapiede e si spostò verso il centro della
corsia, sparando altri dieci colpi al parabrezza in corrispondenza del sedile
del guidatore.
Si girò
dall’altra parte e vide la gente che correva e gridava. Non potevano capire.
Nessuno di loro poteva, così decise di premere il grilletto ancora. E di
puntare la bocca da fuoco dell’Uzi in direzione della folla urlante, esaurendo
il caricatore contro bersagli mobili in fuga.
La frenesia
della musica era aumentata. Il ritmo era quello di una dolce sinfonia. Gli
spari, le urla, la pioggia, il tintinnio delle catene al collo, tutto faceva
parte di quella musica, e stabilì di conservare l’ultimo colpo per sé. Quando
fosse giunto il momento, l’avrebbe usato. Ma nel frattempo…
Uau! davvero un bellissimo racconto! e complimenti per lo stile!
RispondiEliminaGrazie mille!
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