Camminava
solo per la strada. A testa alta, per la prima volta dopo tanto tempo.
Camminava
sotto la pioggia, lasciandosi trascinare dalle sue stesse gambe che andavano
per conto proprio.
Camminava
molleggiato, con i suoi pantaloni rossi e la sua canottiera bianca, i muscoli
solidi e rivestiti di tatuaggi, i rasta che gli tamburellavano piacevolmente
sulla schiena sotto il frontino del berretto da baseball rovesciato
all’indietro.
Camminava là
fuori per la prima volta completamente solo, e ascoltava il tintinnio delle
catene che portava al collo e il ticchettio della pioggia sull’asfalto e sulle
pozzanghere.
La gente lo
guardava. Non troppo bene, ma non gli importava un granché. Lo guardavano
passare e lo guardavano male. Ma loro non potevano capire.
A dire il
vero, nessuno poteva capire. Nessuno al
mondo.
Cerco io stesso di capire l’uomo che sono,
si ripeteva mentalmente. E intanto camminava per la strada, con gli occhiali da
sole e i muscoli in vista, bagnati dalla pioggia. I tatuaggi neri sulla pelle
scura, sulle braccia, sul collo, sul viso.
Si tolse gli
occhiali scuri, di modo che la gente potesse vedere anche i tatuaggi che si era
fatto fare sulle palpebre. Poi quelli sulle nocche delle dita, sui polsi…
Accanto al metallo tintinnante dei suoi anelli e dei bracciali, che creava
musica con le catene al collo e con la pioggia.
Il suo era un
incedere possente. Si sentiva forte, e cosa ancora più importante si sentiva vivo.
Sorrideva al
vuoto davanti a sé, a quella strada che si snodava all’infinito verso il mondo.
Camminava su quella strada, in direzione dell’oceano, in direzione del nulla
più assoluto.