lunedì 28 settembre 2015

Le Anime di Eglon - Prima Stagione - Episodio 32

Una colonna di furgoncini blindati neri passò per Neighbour Street a tutta velocità, oltrepassando Stan Payton, che aspettava di attraversare la strada, e procedendo senza indugio verso Main Street.
La città stava per sprofondare un’altra volta nell’oscurità. L’energia elettrica era stata ripristinata soltanto nei punti chiave di Eglon, grazie ad alcuni generatori arrivati con il treno della settimana precedente. Così, l’ospedale e il supermercato dei Goldbert erano illuminati ventiquattro ore su ventiquattro, mentre le strade, subito dopo il tramonto, affondavano nelle tenebre più terrificanti che i cittadini di Eglon avessero mai avuto modo di sperimentare.
La giornata era stata incredibilmente densa di vicende importanti. Dopo l’assalto al ponte da parte dell’Esercito degli Stati Uniti, con il conseguente fallimento dell’attacco e la ritirata dei militari sotto i colpi dei mortai, era venuta l’ora delle esecuzioni.
Dei circa cinquanta soldati rimasti intrappolati in città, sedici avevano gettato le armi e giurato fedeltà ai ribelli, gli altri si erano fatti ammazzare e gettare nel fiume Arkansas. I sopravvissuti erano stati scortati nei pressi di un incrocio lungo Main Street, dove le sette unità speciali del Commando Alfa stavano per subire la pena di morte. Ma il comandante di questi ultimi aveva barattato con un’informazione la salvezza dei compagni, e alla fine era stato l’unico a venire giustiziato. Un ribelle aveva afferrato le estremità della corda che gli chiudeva il cappuccio sulla testa e aveva tirato, strangolando il militare. Poi Maschera Blu aveva dichiarato che i sei soldati scelti sarebbero stati rinchiusi in altrettante celle di massima sicurezza, e che anche i sedici soldati dell’esercito regolare avrebbero fatto la stessa fine: non ci si poteva fidare alla cieca di persone che avevano rinnegato il proprio Paese con tanta leggerezza, aveva spiegato, perciò era meglio saperli dietro le sbarre.
Ripensando a tutte queste cose assieme, al rumore degli spari che avevano lacerato il silenzio dell’alba e ai volti dei soldati condannati a una prigionia senza prospettive, Stan si sentì rabbrividire.
Ma aveva una missione da compiere, adesso, e doveva essere lucido. Quindi avrebbe fatto meglio a levarsi dalla testa tutti questi pensieri e concentrarsi sull’obiettivo.
Mente sveglia, cuore pronto, occhi spalancati. Dopo quest’operazione devo ritornare da Sarah, Michael e Christine. Non posso permettermi di morire qui, stanotte. Devo tornare da loro.
La sua famiglia non sapeva cosa stesse facendo. Aveva detto a Robert che sarebbe uscito a prendere una boccata d’aria, e l’uomo non aveva battuto ciglio. Dal suo sguardo si capiva che aveva intuito le reali intenzioni di Stan, ma preferiva fingere di non sapere nulla. «Buona fortuna» aveva sussurrato, e poi era rientrato in cucina per aiutare Sarah a preparare la cena.
Stan attraversò la strada sulle strisce pedonali, riuscendo a malapena a distinguere i profili dei lampioni, delle panchine e dei cestini per le immondizie, nonché quelli degli edifici e dei cartelli stradali. Era difficile muoversi a Eglon di notte, ultimamente. Nonostante questo, da quando l’elettricità era scomparsa c’era più movimento. Spacciatori, venditori di merce di contrabbando, gente curiosa che gironzolava con le mani in tasca. Ribelli mascherati che se ne fregavano di queste persone e si limitavano a controllare che l’ordine generale fosse comunque rispettato.
«Sono qui. Andiamo» annunciò sottovoce ai tre uomini che lo aspettavano in fondo al marciapiede. Greg Donington, Brian Jones e Jeremy Barton confermarono con un muto cenno d’assenso. Sollevarono il braccio per avvisare il vicesceriffo Wieler e gli altri quattro poliziotti dell’inizio dell’operazione. Infine, con molta calma, si avviarono verso il palazzo buio nel quale Jeff Turner, poche sere prima, aveva visto entrare alcuni rivoluzionari con delle casse piene di batterie.

LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 32
RIPRISTINO DEL SEGNALE

Emily lo osservava con un po’ d’ansia negli occhi mentre lui inseriva il caricatore nella pistola e faceva scomparire l’arma all’interno della fondina legata alla vita. «Sei sicuro di quello che intendi fare?» gli domandò per l’ennesima volta, ancora troppo poco convinta.
«Assolutamente sì, baby. Dobbiamo mandare un messaggio forte e chiaro, far vedere che non pieghiamo la testa di fronte a nessuno. Non ci sono capi, qui. Il sindaco di Eglon è andato all’altro mondo lo scorso dieci settembre, e da allora nessuno ha eletto il suo sostituto» ribadì Joey con fermezza, contrapponendo un’espressione fiera allo sguardo inquieto di Emily.
«E vuoi porre rimedio con un altro attentato? La morte di Thomas Green non aiuterà i cittadini di Eglon a uscire da questo caos, Joey! Servirà solo a gettare su di loro altra confusione.»
«Devo correre il rischio, dolcezza. Green ha mostrato alla popolazione che si può ottenere il favore dei ribelli collaborando con loro, e questo atteggiamento non deve dilagare. Se vogliamo bloccare la rivoluzione e liberare la città, dobbiamo innanzitutto estirpare questa mentalità bacata.»
«Ma a che prezzo? Farete un’incursione davanti al municipio, armati, a bordo di automobili rubate, e sparerete al sindaco davanti a decine e decine di testimoni! Potreste non farcela a ritornare indietro…» pigolò Emily, questa volta con gli occhi lucidi.
«Anche questo è un rischio che devo correre. Quello che sto per fare andrà a esclusivo vantaggio della città di Eglon. Mi dispiace, Emily, ma non conosco altri modi. Questa è l’unica strada che vedo» concluse Joey Goode, e si avvicinò per baciarla. La giovane donna lo lasciò fare e rispose debolmente al bacio. Quindi si separarono e l’uomo abbandonò la stanza per raggiungere il garage.

Jeremy aveva paura. Era una paura infondata, certo, ma pur sempre di paura si trattava. Un brutto presentimento che lo ossessionava da quella mattina, germogliato e sbocciato dentro di lui prima ancora delle gocce di pioggia e del successivo assalto fallito al ponte. Una voce interiore gli diceva che stava per capitare loro qualcosa di terribile. Ma ogni volta che interrogava se stesso per cercare di capire cosa volesse dire, quella voce si ammutoliva e qualsiasi indizio veniva cancellato.
Eppure, nonostante tutto, sapeva che quel cupo presagio si sarebbe trasformato in certezza. Stavano andando incontro a qualcosa di tremendo e non se ne rendevano neppure conto.
«Come ti senti?» gli domandò improvvisamente Brian, notando il suo stato d’animo. Camminavano affiancati lungo il marciapiede che conduceva verso il palazzo del jammer. Ognuno di loro era impegnato a far sì che le armi non si vedessero e, allo stesso tempo, a tenere a bada i propri pensieri. Avevano con sé abbastanza munizioni da bloccare l’avanzata di un intero plotone, e d’altro canto non sapevano nemmeno quanti ribelli avrebbero incontrato in quell’edificio chiuso. Stavano per condurre un attacco alla cieca, e questo a Jeremy non piaceva affatto.
«Abbastanza teso» confessò il poliziotto, senza sbilanciarsi troppo. Lui e Stan erano in compagnia di due agenti dell’FBI, accidenti, avrebbe dovuto sentirsi tranquillo. Invece…
«Ti capisco. Sai, non mi sentivo così da quando mi sono infiltrato nel duemiladue in una base militare in Afghanistan. Laggiù credevo che mi avrebbero beccato e scuoiato praticamente subito. Non mi davo più di mezz’ora di vita, e ora eccomi qui.»
«Sei stato fortunato una volta. Non è detto che ti ricapiti. Anche io sono stato fortunato, la notte in cui i ribelli hanno conquistato la città. Non fosse stato per te, mi avrebbero freddato in quel vicolo stretto e scuro e nessuno avrebbe mai più saputo nulla di me.»
«Ma non è andata così, giusto?» replicò Brian Jones con un sorriso, e Jeremy si sentì magicamente più calmo. Era vero, in quell’occasione era stato salvato sull’orlo del precipizio. Chi gli diceva che quella notte non sarebbe filato tutto quanto liscio come previsto?
«Coraggio, ragazzi. Entreremo in quel palazzo e disattiveremo quel maledettissimo jammer!» esclamò Stan sottovoce, tentando, con successo, di risollevare gli animi.
«E poi partirà la telefonata al Segretario della Difesa» soggiunse Greg Donington, risoluto. «Gli diremo che un bombardamento aereo non è necessario, che possiamo creare un ottimo diversivo dall’interno per permettere all’Esercito di penetrare in città. Ci occorrono soltanto una data e un luogo di partenza, e da lì potremo arginare la ribellione e troncarla di netto.»
«Contatterò immediatamente la sede dell’FBI a Little Rock per spiegare che i rivoluzionari adoperano questi jammer per bloccare il segnale. Magari saranno in grado di localizzarli e neutralizzarli. Devo ricordarmi anche di dire loro che ci sono numerosi prigionieri, e che la base principale sembra essere la Eglon Tower. Un attacco aereo contro di essa potrebbe rivelarsi utile» proseguì Brian.
«Ci occorrono rinforzi e rifornimenti. Soprattutto armi, se vogliamo collaborare alla liberazione dall’interno» rifletté Stan ad alta voce. Mentre completava la frase comparve sullo sfondo del cielo scuro il profilo del palazzo verso il quale erano diretti. Si fermarono di scatto e, paralizzati, sollevarono la testa per percorrerne con lo sguardo le linee dure e precise. Sembrava un blocco di pietra squadrato da uno scultore meticoloso. L’autore doveva essere un amante della geometria tridimensionale, pensò Stan Payton tra sé e sé.
Dovevano entrare in quell’edificio, adesso, e combinare un macello. Sarebbe stata la notte più lunga della sua vita, forse addirittura più lunga di quella in cui la città di Eglon era stata occupata dai carri armati dei ribelli.
Ma sarebbe stata la loro notte, stavolta, e nessun uomo mascherato avrebbe potuto ostacolarli.

I carri armati erano fermi. Fermi. Aggettivo che pareva assumere una sua concretezza, di fronte a quella visione di mezzi corazzati in attesa di essere schierati.
Il garage sotterraneo era avvolto dall’oscurità, ma qualche faro posizionato a macchia di leopardo illuminava le sagome dei carri armati ammantati di panico e silenzio.
Ce n’erano almeno una ventina, là sotto. E ogni notte aumentavano. Non aveva ancora capito con esattezza come mai l’uomo con la maschera blu e la voce gentile la accompagnasse laggiù ogni notte a vedere i carri armati, ma francamente non le interessava poi così tanto saperlo.
L’unica cosa che capiva, dando prova a se stessa di una certa lucidità mentale, era che si trovava sotto terra ormai da un po’. Anzi, a dire il vero non era mai uscita da sotto terra nelle ultime settimane. Più precisamente, da quando un tizio di nome Samuel Grey l’aveva incontrata nel suo ufficio in municipio. Le sembrava che quella mattina fosse accaduto qualcosa di strano, qualcosa che avesse a che fare con il sindaco Donaldston. Ma forse era troppo fatta per ricordare davvero qualcosa di coerente. Non avrebbe dovuto accettare tutta quella roba che le avevano proposto di ingerire… D’altro canto, le veniva concessa piena libertà di scelta. Solo che poi lei faceva le scelte sbagliate, così come aveva sempre fatto per tutta la sua vita, e così…
Be’, pazienza. Ormai è fatta, mi trovo qui sotto e anche questa notte l’uomo con la maschera blu mi ha portata nel garage dei carri armati. Chissà se c’è qualche motivo, o se in realtà si tratta solamente di una farsa.
«Vieni, Nancy» la richiamò l’uomo con la maschera blu, che la osservava a braccia conserte.
«Un attimo ancora» protestò Nancy Vaugher, contemplando per l’ennesima volta l’immagine potente e in un certo qual modo seducente di quella moltitudine di carri armati intruppati.
Ecco un’altra cosa che sapeva: sapeva che lì sotto con lei vivevano moltissime altre persone. Non era sola, e questo rappresentava senz’altro una consolazione non da poco. C’erano intere sale illuminate e ventilate a loro disposizione, e potevano sfruttarle quanto e quando volevano. Poi c’erano i dormitori e le mense, il tutto controllato dagli occhi vigili dei Guardiani e rigorosamente senza porte. Non ci si poteva chiudere a chiave neppure in bagno, figurarsi dentro una stanza qualsiasi… Però andava tutto bene, per ora. Vivevano lì dentro da giorni, e le cose funzionavano. Qualche volta alcuni sostenevano di avere nostalgia dell’esterno, ma nel complesso si erano tutti quanti bene o male abituati. Soprattutto i ragazzi più giovani, come quella tipa carina e simpatica che si chiamava Michelle Corall…
«Nancy, dobbiamo andare. Seguimi. Ti porto a vedere gli elicotteri, adesso» la richiamò all’ordine l’uomo con la maschera blu, e la donna si volse e lo seguì ubbidiente.

Il vicesceriffo Steve Corall era stato messo alla guida della macchina di Jeff Turner per la missione. Alla vettura era stata rimossa la targa. Stavano procedendo con un’andatura piuttosto blanda lungo Main Street, e presto sarebbero passati davanti al municipio dove Daniel Green doveva essere già impegnato a conversare con il padre.
Steve Corall seguiva l’automobile di Joey Goode, guidata da uno dei suoi uomini. In quel veicolo, assieme a Goode, c’erano Frank e un altro suo scagnozzo. Il vicesceriffo era stato perciò lasciato in compagnia di Jeff Turner e di due poliziotti.
Nel covo erano rimasti ad aspettarli gli altri poliziotti e il resto degli uomini di Goode. Avevano l’ordine di aiutarli a portare dentro Thomas Green senza che nessuno se ne accorgesse, ma ormai Corall dubitava fortemente che Green sarebbe arrivato vivo fino al covo di Goode. Quasi sicuramente sarebbe morto negli istanti a venire, là sulla piazza antistante il municipio, falciato da un inaspettato proiettile in testa.
Era inevitabile che andasse a finire così. Lo sapeva lui, lo sapevano Jeff e Frank, lo sapeva Goode e lo sapevano gli uomini che li accompagnavano. Lo presagiva Daniel Green e forse, a questo punto, iniziava a intuirlo persino il sindaco. Tutto, però, era ancora da vedere.

«Papà…» lo chiamò, avanzando. Thomas Green lo fissò allibito, gettando a terra la sigaretta e correndo giù dalla scalinata del municipio per abbracciarlo. Daniel si lasciò circondare dalle braccia del padre, ma non rispose alla stretta. Rimase immobile, con le mani infilate nelle tasche, pensando che Joey Goode non aveva detto niente su come avrebbero fatto a caricarli in auto. Ma, dopotutto, non era importante ciò che Goode aveva intenzione di fare. L’unica cosa veramente importante per lui, in quel momento, era capire perché suo padre fosse passato dalla parte sbagliata.
«Daniel… Come sono contento di rivederti! Betty come sta? Sta bene? E tu?»
Bersagliato da quelle domande, Daniel non poté impedirsi di sciogliere bruscamente l’abbraccio e fissare con viso duro il genitore, sondandone l’espressione preoccupata con crudele distacco.
«Che cosa stai facendo, papà?»
«Come sarebbe a dire?» domandò Thomas Green, sorpreso. Era palesemente imbarazzato, e non lo nascose. Daniel andò subito a piantare il coltello più a fondo.
«Come hai potuto fare una cosa del genere alla tua città? Come puoi stare dalla parte degli uomini che hanno ucciso il sindaco Donaldston? John era tuo amico, papà! Non posso crederci.»
Thomas Green chinò il capo, colpito ma non affondato. Daniel si sentì all’improvviso carico di una forza distruttiva che non aveva mai percepito prima dentro di sé, e decise di punto in bianco di sfogarla e vedere come sarebbe andata a finire.
«Che cosa penserebbe la mamma se fosse qui? Lei è là fuori, preoccupata per noi, e tu stai collaborando a tenerla lontana!» gridò, lasciandosi invadere dal sapore amaro della rabbia.
«Io… Daniel… Non devi pensare che…» balbettò il sindaco Green, messo in difficoltà. Ora la sua faccia era diventata un miscuglio di emozioni contraddittorie e indecifrabili. Voleva dire qualcosa, era chiaro come volesse esprimere quelle emozioni che gli sconvolgevano il volto, ma non ci riusciva. Sembrava la grottesca caricatura di un ragazzino affetto da gravi disturbi psichici.
«Non so più che cosa dire, sindaco Green. Non so come comportarmi di fronte a tutto questo. Cerco di capirne il motivo, ma non ci riesco. Non mi capacito di come tu ti sia schierato dalla loro parte, dalla parte di questi uomini che fanno soffrire la cittadinanza che tu dovresti proteggere
«…non ho scelta, Daniel…!» sibilò finalmente Thomas Green, scoppiando in lacrime. Il ragazzo indietreggiò di un passo, scioccato dalla reazione. Guardava suo padre singhiozzare e non capiva più nulla, si sentiva come un alieno precipitato in un pianeta di una galassia infinitamente lontana. «Credi davvero che lo volessi fare? Credi che io possa decidere che cosa fare, qui? Ti sbagli di grosso, Daniel. La situazione è molto, molto più complicata di quanto tu creda!»
«Che cosa stai dicendo?» sussurrò il giovane, spaesato.
«Sto dicendo che…»
Ma le parole di Thomas Green furono sovrastate dal rumore di due auto in rapido avvicinamento. Daniel si voltò giusto in tempo per scorgere i fari delle due vetture che slittavano nel buio, accompagnati dal fischio delle gomme che stridevano sulla pavimentazione della piazza. Le portiere si aprirono e vomitarono fuori sei uomini armati che circondarono rapidamente padre e figlio.
«Chi sono queste persone?» farfugliò il sindaco Green, terrorizzato. Un uomo con la pistola spianata gli si avvicinò con un sorriso. Era Joey Goode, e Thomas Green parve riconoscerlo all’istante.
Il vicesceriffo Steve Corall, dal posto di guida di una delle due macchine, vide una mezza dozzina di silhouette sfrecciare giù dai gradini del municipio e correre verso di loro come forsennate. Partirono i primi colpi. I due poliziotti con Frank e Jeff Turner risposero prontamente al fuoco e uno degli uomini del sindaco cadde a terra ferito.
«Dobbiamo levarci dalle palle!» tuonò Frank, sparando ripetutamente in direzione della facciata scura del municipio.
«Joey, prendi il sindaco e filiamocela!» confermò Jeff Turner, iniziando a retrocedere.
Ma Joey Goode se ne stava fermo davanti al sindaco Green. I due si fronteggiavano in uno spietato duello di sguardi dal quale Daniel fu immediatamente escluso.
«Thomas Green. Era da un pezzo che ti volevo avere per le mani. Finalmente, l’occasione si presenta propizia» mormorò Goode con fare esageratamente teatrale, puntando la pistola contro il viso del rivale.
«No, non sparargli!» urlò Daniel, rendendosi conto di quello che stava per succedere e lanciandosi contro l’aggressore. Ma ormai era troppo tardi. Il colpo partì e centrò il sindaco Green in pieno petto, un istante prima che Goode finisse a terra e che uno dei poliziotti di Corall venisse raggiunto da quattro proiettili di fila.
«Via!!» ribadì Jeff Turner sputando l’ultima pallottola del suo caricatore, quindi si girò verso l’auto e vi si tuffò dentro, imitato dai compagni. Joey Goode si rialzò da terra in fretta e afferrò Daniel Green per un braccio, trascinandolo via dal corpo del padre al quale si era disperatamente avvinghiato e scaraventandolo senza tanti complimenti nella propria vettura.
Le portiere si richiusero pesantemente e le due macchine partirono sgommando, inseguite dagli ultimi spari degli uomini del sindaco che riecheggiavano nelle tenebre notturne. Dietro di sé lasciarono soltanto un poliziotto morto e il corpo di Thomas Green, agonizzante, disteso in una pozzanghera di sangue nero.

«D’accordo: al mio segnale lo raggiungiamo alle spalle, gli tappiamo la bocca e lo trasciniamo tra gli edifici. Poi da lì gli spariamo» illustrò brevemente il vicesceriffo Wieler, sogghignando.
«Lascia perdere quest’operazione macchinosa. Me ne occupo io» lo contrariò Gregory Donington, facendo loro cenno di stare in disparte e avanzando lungo il marciapiede da solo. Gli altri rimasero a osservarlo con un pizzico d’ansia, aspettando che qualcuno lo aggredisse e lo tramortisse da un momento all’altro. Ma non accadde nulla di tutto ciò, e Greg sgattaiolò piano alle spalle del ribelle che sorvegliava il palazzo dall’esterno e gli piombò addosso in un attimo, afferrandogli la testa con entrambe le mani e spezzandogli il collo con un unico strattone secco.
Basito, Stan lo seguì mentre si ritirava silenzioso, a passi felpati, trascinandosi dietro il corpo del ribelle ammazzato. La sua abilità doveva derivare per forza di cose da una certa dose di esperienza, pensò, e si disse che Greg Donington non lavorava di sicuro come impiegato d’ufficio per l’FBI.
«Il primo problema è risolto. Passiamo a occuparci degli altri, che ne dite?»

Emily Cooper stava per ritornare nella stanza di Joey quando il rimbombo di uno sparo giunse inatteso alle sue orecchie e la paralizzò.
Un brivido veloce suonò un intero spartito per pianoforte sulla sua schiena, mentre il suo cervello si metteva in moto e lavorava come un pazzo per cercare di capire che cosa diavolo stesse succedendo. Non ci mise molto a realizzare di essere in pericolo: bastò il secondo sparo, immediatamente seguito al primo, a farle intuire che nel covo di Goode qualcosa non andava.
Si appiattì contro la parete del corridoio e cercò di calmare i battiti forsennati del cuore. Respirò adagio, inalando aria che già sapeva di bruciato e soffiandola fuori a poco a poco.
Qualcuno era penetrato nel rifugio di Joey. Questa certezza non impiegò molto tempo a scandirsi all’interno della sua scatola cranica, facendo piazza pulita di tutti gli altri pensieri sconclusionati e suggerendole freddamente di scappare.
Sì, ma dove?
C’erano vie di fuga? Muoversi significava trasformarsi in un bersaglio appetibile, e forse era meglio nascondersi e aspettare che passasse. Ma se davvero i ribelli avevano scovato il rifugio e lo stavano attaccando, allora significava che si sarebbero assicurati di non lasciare indietro niente e nessuno: avrebbero dato fuoco all’intera baracca, filandosela prima di scaldarsi troppo il fondoschiena.
Si proiettò nella camera da letto di Joey e aprì il cassetto della scrivania, prelevandone una pistola. Non sapeva se fosse carica, e soprattutto non aveva idea di come usarla, ma la strinse lo stesso tra le dita come un’insperata ancora di salvezza e partì di corsa lungo il corridoio, mentre le pareti risuonavano di dozzine e dozzine di spari.

«Sei pronto, Stan?» volle sapere Brian Jones, con un’espressione talmente rilassata da dare quasi fastidio.
Stan annuì debolmente, ascoltando le tempie che pulsavano paurosamente e controllando con la coda dell’occhio per l’ennesima volta che il silenziatore fosse stato agganciato bene alla pistola.
I due poliziotti appiccicati alla vetrata stavano lavorando con incredibile controllo e pazienza. Sarebbero rimasti a fare da palo finché gli altri non fossero tornati, e forse era per questo motivo che si sentivano così tranquilli. Stan, al contrario, era un fascio di nervi irrigiditi.
«Raggiungiamo le scale e saliamo. Possono trovarsi in qualsiasi ufficio, perciò ci conviene partire dall’alto e scendere un piano per volta. In questo modo, se non altro, avremo la certezza di aver setacciato per bene tutto il palazzo» biascicò Jeremy Barton, concentrato. Anche lui pareva avere il cuore in gola, ma doveva essere più bravo di Stan a dominare la propria angoscia.
«Dentro!» concluse Greg Donington spianando la pistola munita di silenziatore, e il gruppo si intrufolò attraverso l’apertura scavata nel vetro e si tuffò nell’oscurità.

«Ehi Phil. Di’ un po’, con che razza di torce sono usciti quel Jones, il vicesceriffo e Jeremy?» domandò una voce dal pianterreno, quella di Craig. Era di turno lui quella sera, alla finestra accanto alla porta d’ingresso. Faceva sempre più freddo e avevano dovuto stabilire un cambio di guardia ogni ora per evitare che durante la notte qualcuno si addormentasse e lo si ritrovasse congelato la mattina dopo. Presto sarebbe stato necessario trovare un altro rifugio, ma per adesso il vicesceriffo Wieler era in missione e la questione del nuovo riparo slittava in secondo piano.
Phil si avvicinò con circospezione a una delle finestre del piano superiore, alle quali avevano applicato dei grossi pannelli di cartone per proteggersi almeno un po’ dall’aria gelida notturna, e scostando la copertura buttò fuori un’occhiata indifferente.
Individuò subito i sei fasci di luce che oltrepassavano rapidamente la linea del cancello e si avvicinavano al fabbricato. Dapprima storse il naso, pensando che stavano tornando troppo presto e che questo poteva significare solo un fallimento. Poi arricciò le labbra e aggrottò le sopracciglia con fare rabbuiato, perché notò altre sei torce accese poco più avanti, lungo il marciapiede…
«Oh cazzo!» berciò, e il primo sparo rimbombò nella notte, ponendo fine alla vita di Craig.
«Che cos’è stato?» sbraitò un altro poliziotto, alzandosi da terra e affacciandosi a una delle finestre del primo piano. Mise fuori la testa e scrutò torvamente la fila di torce che avanzava nel buio, prima di sentire l’ultimo latrato di fucile della sua esistenza, che gli spappolò la faccia.
«Via, via!» tuonò Phil, recuperando una doppietta appoggiata alla parete e controllando che la pistola si trovasse al suo posto nella fondina. Quattro poliziotti gli si affiancarono e lo seguirono in direzione delle scale, verso una discesa che procedeva nei meandri dell’inferno.
Fuori si scatenò il caos e le mitragliatrici incominciarono a strillare, martellando l’intonaco e crivellando di colpi i muri della vecchia fabbrica abbandonata, alla quale erano già state appiccate le fiamme.

Il corridoio del quarto piano era parzialmente illuminato e Jeremy se ne accorse all’istante, appena ebbe superato l’ultimo gradino della rampa. Indicò al resto del gruppo la porta dalla quale trapelava un filo di luce fioca, e in silenzio convenne con gli altri che era il caso di andare a controllare. Dopotutto, era meglio risparmiare tempo, se se ne presentava l’occasione.
Lasciarono così perdere i piani superiori, almeno per il momento, e si avvicinarono con circospezione alla soglia dell’ufficio incriminato. Il bagliore che ne scaturiva doveva essere emanato da una qualche sorta di lampada o torcia tascabile. Probabilmente i ribelli incaricati di sorvegliare il jammer se l’erano portata dietro per vedersi in viso mentre chiacchieravano o giocavano a carte nel vano sforzo di ingannare un po’ il tempo.
Jeremy lasciò che il vicesceriffo e gli altri due colleghi si occupassero della retroguardia e proseguì cauto, con l’arma stretta tra le dita contratte di entrambe le mani. Al suo fianco c’erano Stan Payton, Brian Jones e Gregory Donington, anche loro armati. In totale erano in sette. Ma sarebbero stati sufficienti ad affrontare ciò che li aspettava al di là di quella porta socchiusa?
Fece finalmente segno agli altri di fermarsi e si abbassò sulle ginocchia, portando gli occhi all’altezza della serratura e cercando, nel contempo, di dominare il sudore gelato che gli colava sulla fronte e il battito del cuore che minacciava di inchiodarlo a terra con un infarto non richiesto. Spiò dalla fessura della porta, aspettandosi quasi di vedere una tribù aliena intenta a divorare un ibrido tra un cucciolo di cane e un essere umano, e tutto quello che riuscì a scorgere fu un ufficio spartano con due sedie appoggiate a una scrivania. Sull’angolo in fondo a destra c’erano quattro casse, una di fianco all’altra. Quella più vicina sembrava aperta, e sopra il coperchio c’era una confezione di batterie Duracell già scartata.
Spostò lo sguardo sulla scrivania e vide che sul ripiano di legno graffiato c’era un piccolo aggeggio di metallo, una sorta di scatola da scarpe con una lucina verde in cima e un paio di antenne che si lanciavano verso l’alto. Dava l’impressione di essere una di quelle vecchie radioline che usavano nei primi film a colori, o uno dei più antiquati modelli di cellulare in commercio. Doveva essere il jammer, rifletté. E allora registrò la presenza dei due uomini spaparanzati sulle sedie addossate alla scrivania semisgombra.
«Sono due. Dritti di fronte a noi» sussurrò piano. Greg e Stan, a turno, sogguardarono l’interno dell’ufficio attraverso lo spiraglio di luce e annuirono. Fu Stan ad assestare un calcio alla porta, e non appena il passaggio fu libero le pistole di Gregory Donington e Brian Jones produssero un leggero sbuffo di vento che fece crollare esanimi i due ribelli sugli schienali delle poltrone, con le macchie di sangue che nel frattempo si allargavano sul tessuto delle magliette.
Stan si lanciò sul dispositivo di disturbo del segnale e cercò convulsamente il tasto di accensione. Lo individuò, e con un sospiro soddisfatto pigiò OFF.
La lucina verde divenne rossa. Brian Jones sfoderò il cellulare dalla tasca dei pantaloni e lo osservò con riverenza, sogghignando vittorioso. «C’è campo» mormorò, e il sorriso contagiò tutti.

«Signore, il dispositivo di disturbo del Settore Tredici si è spento» dichiarò prontamente un uomo con il volto coperto da una maschera ocra. Non si voltò per pronunciare quelle parole, né tantomeno si sognò di staccare gli occhi dallo schermo del computer o le dita dalla tastiera.
«Bene, come da copione» riconobbe Maschera Blu, avvicinandosi a un secondo monitor e sfiorandolo con un dito. Il video si illuminò e rivelò un semplice punto interrogativo: ACTIVATE? Più in basso c’erano due pulsanti colorati: su quello verde c’era scritto YES, su quello rosso NO. Maschera Blu appoggiò il polpastrello sul rettangolo verde disegnato dal monitor e tornò a sedersi con noncuranza, incrociando le braccia sul petto.

«Oddio…» gracchiò il vicesceriffo Patrick Wieler, osservando l’orizzonte dalla vetrata dell’ufficio. Stan e Jeremy lo raggiunsero di corsa mentre Greg e Brian attendevano che qualcuno, all’altro capo della linea, rispondesse alle loro telefonate d’emergenza.
I tre uomini in piedi dietro la finestra udirono quasi immediatamente il fragore dell’esplosione, ma prima i loro sguardi furono accecati e ammutoliti dalla vampata di fiamme che distrusse la cima della Eglon Tower, producendo un’onda d’urto tale da far scoppiare tutti i vetri degli edifici circostanti.
Stan si volse quasi di scatto, realizzando, mentre ruotava il collo, che la luce della lampada accesa sulla scrivania era stata repentinamente inghiottita dalle tenebre. Cercò affannosamente la lucina rossa del jammer disattivato, ma non la individuò. E dopo qualche istante capì che anche i cellulari di Greg e Brian si erano spenti di colpo, cessando improvvisamente di vivere.
Si girò un’altra volta verso l’esterno e tornò a contemplare in silenzio il globo di fuoco che avviluppava la sommità della Eglon Tower, ricadendo in un pozzo di pensieri senza via d’uscita.Gli di

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