lunedì 7 settembre 2015

Le Anime di Eglon - Prima Stagione - Episodio 29

«William…» biascicò il comandante Smith varcando la soglia della tenda. Il suo vice stava sdraiato per terra e due paramedici gli si affaccendavano attorno. Rivolse al comandante un mezzo sorriso amaro e strinse i denti per sopportare il dolore. Gli stavano ricucendo una profonda lacerazione sulla gamba, e Smith pensò che dovesse fare un male d’inferno.
«Sono tutti morti, signore. Tutti tranne il soldato Davis. È riuscito a tornare e fare rapporto?» pigolò Gray, visibilmente sofferente.
«Sì, Tom è tornato. Mi ha già raccontato tutto. Come sei riuscito a fuggire dalla fattoria dei Gallagher?» volle sapere Smith, terribilmente preoccupato.
Quando Tom Davis gli aveva riferito quello che era successo, aveva creduto che il suo vice fosse morto. Gli dispiaceva di aver perduto William Gray, perché era un uomo leale, uno che sapeva il fatto suo. Senza di lui l’assedio alla città di Eglon sarebbe stato insostenibile. Invece, adesso, eccolo qui. Un po’ ammaccato, ma ancora vivo. A poche ore dal fallimento della missione, William Gray era riuscito a ritornare tutto intero al campo.
«Quando ho visto che la situazione si metteva male, e che tutti i miei uomini erano morti, mi sono fiondato in mezzo ai campi e ho cominciato a correre come non ho mai corso prima in vita mia. Non sapevo in che direzione stavo andando, mi sono limitato a continuare a correre.
«Dietro di me sentivo le raffiche degli spari farsi sempre più fievoli. Eppure, allo stesso tempo, ero certo che mi stessero inseguendo. Sapevo che non mi avrebbero lasciato andare così, senza perlomeno tentare di acciuffarmi.
«E poi, sapevo che il soldato Davis si trovava ancora all’interno della camionetta. Attirando la loro attenzione su di me, potevo permettergli di fuggire. Così, prima di sparire in mezzo ai campi, ho scaricato alle mie spalle la pistola d’ordinanza. Credo di averne beccato uno, prima di gettare a terra la pistola e pensare solo a correre. Ma non ne sono del tutto sicuro. Magari, è stata solo un’impressione.
«Ho continuato a correre per almeno due ore, anche se i muscoli delle gambe strillavano pietà, anche se l’aria faticava a entrarmi nei polmoni. Il rumore degli spari si è esaurito dopo mezz’ora, ma io ho continuato a correre. Perché sapevo che mi stavano inseguendo. Sapevo che mi avrebbero dato la caccia, questo era inevitabile.
«Ho raggiunto una fattoria al calar del sole. Non so a chi appartenesse, ma mi ci sono infilato dentro e ho trovato il soggiorno imbrattato di sangue. Erano passati di lì. E ci stavano ritornando per prendermi. Io non avevo più la mia pistola, e tutte le armi di riserva si trovavano nella camionetta. Ma avrei venduto cara la pelle. Sissignore, non mi sarei fatto prendere tanto facilmente.
«Mi sono nascosto dietro la porta d’ingresso e ho aspettato, con il coltello stretto nella mano. Loro sono arrivati dieci minuti dopo, a bordo di un furgone. Sono scesi in quattro e si sono sparpagliati per scovarmi e catturarmi. Il primo è entrato dalla porta principale: gli ho lasciato il tempo di superare la soglia e poi gli ho infilato il coltello nel collo. Aveva addosso una maschera.
«Avrei potuto aspettarli e farli fuori uno a uno, ma era troppo rischioso. Ho preso la pistola del ribelle morto e sono partito di corsa, cercando di orientarmi alla bell’e meglio con le stelle. Ma uno di quei bastardi mi ha visto ed è partito all’inseguimento. Ha sparato e mi ha preso la spalla. Il tempo di voltarmi e mi era addosso, ha sfoderato un coltello e me l’ha piantato nella gamba. L’ho buttato a terra e gli ho sottratto il coltello. Sono stato più veloce e preciso di lui, e gliel’ho conficcato nel petto. Poi l’ho lasciato lì e mi sono costretto a zoppicare fino al campo.»
«Adesso il vicecomandante deve riposare, signore…» lo avvisò uno dei dottori, iniettando del sonnifero nel braccio di Gray, il quale chiuse gli occhi e sprofondò in un sonno inquieto.
«Per quanto tempo dovrà stare a letto?» s’informò il comandante Smith, abbattuto.
«Non saprei dire, signore. Sembra sia stato lacerato soltanto un muscolo, ma dobbiamo ancora capire l’entità del danno. Forse non si potrà muovere per un po’.»
Il comandante Smith annuì gravemente e uscì dalla tenda del suo vice, sospirando.

LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 29
IL COMMANDO ALFA

C’erano soltanto due aggettivi capaci di descrivere l’immagine della città di Eglon che si poteva catturare dal punto di osservazione dell’accampamento allestito dall’Esercito: buia e barricata.
Le barriere attorno al centro abitato erano sottili, innalzate frettolosamente e quasi di sicuro facili da demolire, eppure servivano allo scopo. Proprio così, perché nessuno avrebbe osato muovere un attacco contro di esse. Troppi civili all’interno. Troppa gente che non c’entrava nulla, e che per questo semplice motivo non meritava di morire.
Il comandante Smith era stato informato del treno soltanto un’ora dopo che il convoglio aveva superato le barricate. Nessuno se n’era reso conto in tempo per fermarlo, e soltanto un uomo di vedetta l’aveva intravisto scomparire al di là delle barriere che circondavano il perimetro della città.
Un colpo basso, aveva considerato il comandante Smith quando gli era stata riportata la notizia. Allo stesso tempo, però, era anche abbastanza felice di quel treno: se non altro, la popolazione non sarebbe morta di fame e di sete. Era assai probabile che quel treno contenesse rifornimenti di ogni genere. Accanto alle munizioni, dunque, dovevano esserci cibo, acqua e medicinali. E poi, magari, anche carburante e generatori d’elettricità. In questo modo avrebbero assicurato il funzionamento dell’ospedale e di qualche altro punto nevralgico di sopravvivenza.
Tutto ciò rendeva la situazione quantomeno ambigua. I ribelli stavano cercando di mantenere in vita la popolazione per avere una sorta di assicurazione, naturalmente. Un salvavita che li preservasse da qualsiasi iniziativa violenta. Finché tenevano in ostaggio decine di migliaia di cittadini, potevano giocare senza temere di scorgere neanche l’ombra di una pallottola da parte dell’Esercito statunitense.
Erano astuti, bisognava riconoscerlo. Ma la battaglia era appena cominciata. Finora, il tempo trascorso dalla conquista di Eglon era servito a organizzare un piano d’attacco, a consultare le alte sfere e a scegliere l’azione più conveniente ed efficace. Adesso, però, le cose stavano per cambiare. Perché il Presidente degli Stati Uniti aveva approvato il progetto presentato dal Segretario della Difesa, e due azioni d’attacco sarebbero state avviate a poche ore di distanza per corrodere simultaneamente il sistema ribelle dall’interno e dall’esterno.
Quando i rivoluzionari si fossero trovati a combattere su due fronti, le loro difese sarebbero crollate e l’Esercito avrebbe colto l’occasione per entrare in città e occupare i quartieri uno dopo l’altro.
Era solo questione di poche ore, in fondo. La telefonata di quel pomeriggio lo aveva informato dell’imminente arrivo del Commando Alfa.

«È quello il palazzo?» volle sapere Greg Donington, senza indicare ma semplicemente lanciando un cenno della testa in direzione dell’edificio.
Stan annuì, cupo. Non era di buonumore quella mattina, perché Sarah lo aveva pregato di non uscire e gli aveva detto che i suoi figli avevano bisogno di lui in casa per sentirsi più sicuri. Robert le aveva risposto che sarebbe rimasto lui a proteggerli, e Sarah prima di ritornare in cucina aveva scoccato a Stan una delle sue tipiche occhiatacce, un segnale più che chiaro. Le parole nascoste in quello sguardo erano evidentemente: ecco perché adesso c’è lui in questa casa, mentre tu vivi tutto solo in un appartamento a Little Rock.
Aveva incassato il colpo ed era uscito senza aggiungere altro. I poliziotti e gli agenti dell’FBI avevano bisogno di lui, in quel momento. O, perlomeno, voleva continuare a illudersi che fosse così. In realtà, era probabilmente lui ad avere bisogno di sentirsi utile, quasi indispensabile. Solo così poteva tirare avanti e non mollare la presa, impedendo che il filo si spezzasse.
«Okay, il nostro obiettivo oggi sarà esaminarlo e capire quali sono i punti deboli. Ci occorrono le planimetrie dell’edificio, le disposizioni degli uffici e l’esatta ubicazione del jammer. Dobbiamo scoprire in quali punti sono state disposte le guardie e, soprattutto, quante sono» proseguì Gregory, ragionando in fretta.
«Teniamo in considerazione almeno un paio di cecchini, posizionati su due ali differenti del palazzo per tenere sotto controllo la zona e assicurarsi che non incombano minacce» intervenne Brian Jones, pensoso. «Questo ci lascia presupporre che oltre ai cecchini ci possano essere almeno altri due uomini che si spartiscono i turni per verificare che il dispositivo rimanga costantemente in funzione.»
«Facciamo anche tre, considerando l’eventualità che insorga qualche problema inaspettato» rettificò Greg, sottovoce.
Stan osservò la strada. C’era poca gente in giro, quella mattina. Erano usciti solo loro tre per evitare di dare nell’occhio. Il vicesceriffo Wieler e l’agente Barton erano rimasti indietro, a un isolato di distanza, ad aspettarli. Sarebbero venuti anche loro, in seguito, a controllare quale fosse il palazzo per prepararsi all’assalto imminente.
«Il problema è che non possiamo averne la certezza. Potrebbero esserci anche altri uomini appostati all’ingresso. Anzi, è molto probabile. Quei jammer sono la chiave di tutta l’operazione. Non credo lascino entrare chiunque all’interno del palazzo» valutò Brian, leggermente seccato.
«C’è solo un modo per scoprirlo…» farfugliò Stan, e spinse Gregory dietro la parete di un’edicola chiusa per sfilarsi la pistola dalla cintura e consegnargliela furtivamente. «Me la restituirai quando esco, d’accordo?»
Gregory Donington annuì perplesso e Stan Payton si allontanò a passo sicuro e si incamminò verso il palazzo, testa bassa e mani affondate nelle tasche.
Sì, forse Sarah aveva ragione. Forse Michael e Christine avevano davvero bisogno di lui, della sua presenza. Ma anche Eglon aveva bisogno di lui, e per proteggere i suoi figli la cosa migliore che poteva fare era rendere la città più sicura. Giusto?
Il palazzo degli affari, il cui indirizzo era stato riportato da Jeff Turner nel foglietto spiegazzato che ora Stan conservava nel cappotto, si innalzava davanti a lui, come un antico monolito di pietra eretto nell’era dell’umanità moderna. Le finestre, disposte in maniera geometrica e regolare su linee ben definite, rispecchiavano un cielo bigio e spumoso, integralmente intessuto di nuvole.
La porta d’ingresso era semplice, squadrata, senza decorazioni né abbellimenti. Si apriva così, banalmente, al centro della facciata principale. Era una porta a vetri, e dietro di essa sembrava non esserci anima viva.
Finalmente un po’ di titubanza cominciò a farsi largo nell’animo di Stan, ma lui fu veloce ad afferrarla e seppellirla più in profondità, di modo che non tornasse a disturbarlo tanto presto un’altra volta.
Si fermò sotto i sensori di movimento della porta a vetri ed essa non si mosse di un millimetro. Immobile, impassibile, lo fronteggiò con impressionante solidità e gli rimandò la sua stessa immagine, quasi che lo prendesse in giro e gli intimasse di girare sui tacchi e sparire.
Ma Stan non si scollò dalla sua posizione. Avvicinò le mani a coppa alla superficie di vetro e vi appoggiò il viso, scrutando l’interno con attenzione. La visione dell’ingresso del palazzo diede ragione alla sua prima impressione: non c’era nessuno lì dentro a fare la guardia. La gradinata di pietra che si alzava esattamente di fronte alla porta d’entrata scompariva subito nell’oscurità.
Il palazzo, nel complesso, dava l’idea di essere vuoto e abbandonato. Quasi che nessuno ci avesse più messo piede dalla notte dell’attacco. E, d’altro canto, la maggior parte dei palazzi di Eglon si trovava in quello stesso stato: dopo che la città era stata presa, poche persone avevano avuto il coraggio di uscire la mattina per recarsi in ufficio. Così gli edifici erano stati chiusi, in attesa di nuovi sviluppi, perché tanto nessuno aveva più voglia di lavorare, ora che la stessa sopravvivenza era stata messa in discussione.
«Che cosa ci fa lei qui?» sibilò d’un tratto una voce alle sue spalle. Stan sobbalzò e si girò di scatto, sollevando le mani in segno di resa. Un rivoluzionario con la mitraglietta a tracolla lo osservava attraverso le lenti di un paio di occhiali da sole. Il resto del volto era coperto dal frontino di un berretto dei Red Sox e da una bandana nera bene annodata. Cercò di sfoderare la sua migliore espressione disorientata e ci riuscì piuttosto bene, mostrandosi innocuo.
«Mi scusi, non voglio guai. Stavo solo passando a salutare un amico. Non credevo che anche questo palazzo fosse chiuso, visto che è giorno di lavoro» tartagliò, fingendosi spaesato.
«Quasi tutti i dipendenti hanno preferito rimanere a casa, nonostante le nostre rassicurazioni. Evidentemente, il suo amico ha fatto lo stesso» giudicò il ribelle, molto tranquillamente.
«Sì, a quanto pare è così. Chiedo scusa, ma senza telefoni non è possibile sapere dove si trova la gente. Per questo sono venuto a cercarlo innanzitutto qui. Sa, oggi è il suo compleanno. Volevo fargli gli auguri.»
«Lo raggiunga a casa sua, allora. Questo palazzo è stato requisito dai Soldati della Rivoluzione, nessuno degli ex dipendenti è più autorizzato a entrarci.»
«Capisco. E il proprietario?»
«Il proprietario ne è al corrente. Lo abbiamo informato della confisca, e gli abbiamo garantito che gli sarà restituito senza danni quando avremo finito di servircene. Ma questi non sono affari suoi, signore. Adesso se ne vada, prima che le venga voglia di ficcare il naso in faccende troppo più grandi di lei.»
«Arrivederci» salutò Stan rispettosamente, e si avviò di nuovo verso i due agenti dell’FBI che lo aspettavano in fondo alla strada. Dopo pochi passi girò la testa e vide il ribelle che gli aveva appena parlato rivolgere un cenno d’assenso in direzione della facciata del palazzo. Stava comunicando con qualcuno, e stava probabilmente confermando che era tutto a posto. Il che significava che era lui a dover fare la guardia al palazzo. Lo teneva d’occhio da fuori, così da impedire alla gente di ficcare il naso in faccende troppo grandi.
Occorreva reperire maggiori informazioni su quel palazzo al più presto, prima che a Eglon succedesse qualcos’altro di terribile.

«Piano, dottore» lo ammonì Maschera Blu, mentre Larry Mason gli ricuciva il taglio sulla fronte con fare meticoloso. Era stata dura convincere il ribelle a togliersi la maschera per farsi medicare la ferita. Anche se gli aveva garantito che il tutto sarebbe stato svolto in una stanza chiusa, soltanto loro due, uno di fronte all’altro, comunque Maschera Blu non aveva fatto altro che sollevare obiezioni.
Alla fine, però, ciò che contava era il risultato. E anche se teneva un asciugamano premuto sulla faccia per non farsi vedere, il rivoluzionario aveva acconsentito a scoprire la fronte affinché il dottor Mason gli applicasse i sei punti necessari a riattaccare i lembi di pelle separati.
«Qui il colpo è stato inferto con una certa decisione. Avete avuto una scaramuccia con qualche cittadino?» mormorò Larry Mason, senza perdere la concentrazione. Si era fatto fuori un buon terzo della bottiglia di bourbon nascosta nel cruscotto dell’auto, prima di mettere piede in ospedale quella mattina, e l’effetto era già svanito dopo sole due ore. Gliene serviva dell’altro, e alla svelta. Anche se iniziava a preoccuparsi del modo in cui la sua scorta di casa calava a vista d’occhio.
«Facciamo finta che sia così. Lei che cosa ne pensa, dottore?» ribatté giocosamente Maschera Blu, simulando il tono di chi è seriamente curioso.
«Penso che sia meglio non saperlo, a dirla tutta» confessò, tentennante.
«In effetti, hai proprio ragione. Stai facendo un buon lavoro con quella cicatrice. E anche con i nostri feriti. Le croci sulla facciata dell’ospedale, per adesso, sono soltanto due…»
Larry Mason deglutì a vuoto. Ricordava molto bene la minaccia che pendeva sulla sua testa, come la lama scintillante di una ghigliottina tenuta ferma da un pezzetto di filo interdentale. E rammentava altrettanto bene anche la seconda vittima ribelle spirata nel suo ospedale, all’interno della sala operatoria, circa tre giorni addietro. Due pallottole in pieno petto. Era riuscito a estrarne una, ma l’altra, chissà come, si era infilata in profondità e non voleva saperne di farsi agguantare… Quella notte aveva bevuto parecchio. Sia prima dell’intervento, sia dopo. E quando i ribelli erano venuti a prelevare il cadavere…
«Non ti preoccupare. Otto morti sono ancora molti. Quante settimane ti ci vogliono, solitamente, per accumularne così tanti in sala operatoria?» seguitò Maschera Blu, quasi in tono di sfida.
«Ecco fatto. Con tutto il rispetto, di solito la gente non va in giro armata a puntare la pistola contro chiunque. Voi siete un po’ più… vivaci, si potrebbe dire. E per questo tendete a finire in sala operatoria un po’ più spesso, statisticamente parlando.»
«Mi pare una buona risposta» commentò asciutto il ribelle, e si alzò per rimettersi la maschera.
«Grazie» borbottò il dottor Larry Mason, mentre dentro la sua testa tutto ciò che desiderava era poter appoggiare le labbra ancora per qualche istante alla bottiglia di bourbon custodita dal cruscotto della sua automobile nel parcheggio.
«Figurati. Le medicine sono state messe al sicuro, spero» cambiò discorso Maschera Blu, riacquisendo il suo abituale tono di comando.
«Certamente. Appena sono arrivate abbiamo provveduto ad allestire una stanza apposta per loro. Rimarranno sottochiave venticinque ore su ventiquattro, e ogni utilizzo dovrà essere supervisionato da me.»
«Avete bisogno di un uomo per tenere sorvegliata quella stanza?» domandò allora Maschera Blu, in maniera così ovvia e diretta da far quasi rabbrividire il suo interlocutore.
Un uomo per tenere sorvegliata la stanza… Che cosa si aspettano, una banda armata di predoni del deserto pronta a fare irruzione in un ospedale per qualche scatoletta di compresse?
La sola idea di avere uno di quegli uomini mascherati in ospedale, con una mitragliatrice in mano, gli faceva accapponare la pelle.
«No, non credo che ci sia necessità di sorvegliare così accuratamente quella stanza. Le chiavi sono soltanto due, una custodita nel mio camice e l’altra nelle mani del capoinfermiere. Non ritengo di dover prendere altre precauzioni, a meno che…»
«Okay, il mio guardiano sarà qui tra un’ora al massimo» lo interruppe risolutamente Maschera Blu, con un cenno della mano che zittì il medico. «Si presenterà a te personalmente, e tu lo accompagnerai fino alla stanza e gli farai vedere l’interno. Deciderà lui come allestire il sistema di sicurezza. Lascia pure che faccia ciò che vuole, se ne intende.»
E, detto questo, il ribelle si voltò dall’altra parte e se ne andò, lasciando Larry Mason impantanato al centro del corridoio con la bocca impregnata dal sapore di un bourbon fantasma.

«Zero Quattro, dammi un’analisi del punto d’attacco» mormorò l’uomo che stava alla testa del gruppo. Sette figure in tutto, indossavano speciali corazze nere e imbracciavano fucili muniti di silenziatore. Avanzavano nella semioscurità del crepuscolo, con il sole alle spalle e il favore delle tenebre incombenti, muovendosi alla stregua di orride creature della notte.
Il soldato appena chiamato in causa sollevò i binocoli a rilevazione termica e sogguardò il tratto di barricata direttamente di fronte a sé, sporgendosi di qualche centimetro dal cespuglio dietro il quale stava nascosto. «Cinque elementi. Tre appostati presso le feritoie, due in posizione arretrata.»
«Procediamo» ordinò il capogruppo, e i sette soldati speciali si sdraiarono sulla pancia e presero a strisciare con impressionante agilità in direzione di una depressione sul terreno poco distante.
Inginocchiati, si affrettarono a consultare gli apparecchi a disposizione.
«Zero Due, relazionami lo stato delle comunicazioni.»
«Il segnale è debole, signore. Si fa sempre più flebile a mano a mano che proseguiamo verso le barricate. Credo che adoperino dispositivi perturbatori a lungo raggio. Un’attrezzatura piuttosto costosa, ma senz’altro accessibile per un’organizzazione criminale degna di questo nome.»
«D’accordo. Da qui in avanti, lasciamo perdere le comunicazioni. Ricordate la missione, soldati: dentro e fuori. Dev’essere come una sveltina» rammentò loro il comandante, e gli altri sei membri della squadra annuirono in silenzio e si prepararono ad avanzare.
«Zero Cinque, ho bisogno della tua mira. Dal momento in cui accediamo all’ultima fascia sicura, dietro quella sporgenza, rimuovi i tre bersagli posizionati al di là delle feritoie. Zero Sei, tu devi fornire a Zero Cinque fuoco di copertura nel caso in cui i due bersagli arretrati sostituiscano quelli abbattuti. Non perdete di vista l’obbiettivo: dobbiamo entrare in città senza far troppo rumore. Se facciamo saltare subito la copertura, falliamo prima ancora di tentare.»
Ancora una volta le parole del capogruppo furono seguite da un tacito cenno d’assenso.
«D’accordo, allora: cominciamo.»
Il drappello di soldati speciali si mosse come un manipolo di ombre nelle luci morbide del crepuscolo alle porte di Eglon. I sette uomini si appostarono dietro la sporgenza che avrebbe fatto loro da scudo, quindi Zero Cinque e Zero Sei si piazzarono di lato e sollevarono i fucili muniti di silenziatore. Zero Cinque prese la mira attentamente, con rapidità, ma allo stesso tempo senza troppa fretta. Doveva andare a colpo sicuro, con tutti e tre i bersagli. L’aveva già fatto altre dozzine di volte, in passato. Nella sua mente si figurò che la situazione rappresentasse un’esercitazione come un’altra.
I tre proiettili sparati fuori dall’arma del soldato Zero Cinque andarono a segno quasi in contemporanea. Gli uomini mascherati al di là della barricata stramazzarono al suolo dietro le feritoie, colpiti mortalmente.
Zero Sei aggiustò la mira con il suo fucile e controllò le tracce di attività oltre la barriera. Due macchie di calore stavano correndo in direzione dei nemici abbattuti. Se si fossero esposte a sufficienza, non avrebbe avuto difficoltà a freddarle prima che lanciassero l’allarme.
Avanti, piccole, entrate nel mirino…
Puff, puff. Due sputi nell’aria, come biglie di vetro lasciate cadere sulla sabbia, e i nuovi bersagli appena agganciati smisero immediatamente di essere un potenziale problema.
Zero Quattro si spostò di fianco ai compagni, forte della loro copertura, e nascose gli occhi dietro le lenti dei binocoli a rilevazione termica. Un cenno affermativo del capo segnalò alla squadra che la zona era definitivamente pulita.
Senza bisogno di dire altro, simultaneamente i sette soldati speciali sgusciarono fuori dal loro riparo e sgattaiolarono furtivi in direzione della barricata, intanto che gli ultimi raggi del tramonto morivano soffocati dall’orizzonte.
Zero Uno, comandante della squadra, estrasse dalla cintura una fune metallica munita di rampino e se la girò rapidamente intorno alla vita, annodandone l’estremità. Mentre i suoi soldati lo imitavano, lanciò il rampino in direzione della sommità della barriera e con uno strattone verificò che si fosse agganciato al bordo superiore. Saggiò la resistenza dell’appiglio, quindi puntò un piede contro la barricata e sollevò subito di seguito anche l’altro, iniziando a camminare in verticale verso l’alto.
A poco a poco i sette soldati speciali scalarono la parete della barricata, giungendo in cima e calandosi fulminei dall’altra parte.
«Zero Due, Zero Tre, fate sparire i corpi dei nemici sotto quel veicolo. Zero Quattro, voglio un rilevamento completo dell’attività nell’area. Zero Sette, consulta la mappa e segnala un punto di raccolta sicuro entro mezzo miglio da qui» mitragliò Zero Uno con il suo tono di voce tagliente, facendo segno ai soldati rimasti di coprire i compagni impegnati.
I cadaveri dei cinque ribelli ammazzati furono nascosti in fretta e furia sotto uno dei furgoni blindati neri. Zero Quattro comunicò laconicamente che la zona era sgombra e Zero Sette individuò il punto di raccolta più adatto e guidò il gruppo all’interno di un vicolo scuro, fermandosi di fronte alla facciata della bottega chiusa di un barbiere. Impiegò poco meno di quattordici secondi a forzare la serratura della porta, quindi fece entrare rapidamente gli altri membri della squadra e li seguì, richiudendosi l’uscio alle spalle.
«Zero Due, una verifica dello stato delle comunicazioni. Zero Sei, perlustra il rifugio e allestisci una postazione di sorveglianza per garantire la sicurezza dell’edificio. Zero Tre, accendi la luce.»
Zero Tre si avvicinò all’interruttore posto sulla parete a lato della porta e lo premette. Nessuna lampadina si rianimò. Zero Due fece eco ai tentativi di richiamare la corrente con la sua voce pacata: «Segnale assente, su tutte le frequenze potenzialmente utilizzabili.»
Zero Uno annuì compiaciuto.
«Signore, l’edificio è sicuro. L’unica via d’accesso è rappresentata dalla porta principale. La terremo costantemente sorvegliata, seguendo i turni standard predefiniti. C’è poi una finestra, ma essendo posta sulla facciata frontale accanto alla porta non rappresenta alcun pericolo. La cantina non offre alcuno sbocco verso l’esterno, così come la soffitta. Siamo in una botte di ferro.»
«Molto bene, molto bene» commentò asciutto Zero Uno, avvicinandosi una sedia e lasciandosi cadere pesantemente su di essa. «Possiamo concederci un paio d’ore di riposo. Dopodiché ci metteremo al lavoro per compiere il nostro dovere e assicurare la buona riuscita dell’operazione.
«Ce l’abbiamo fatta, Commando Alfa: siamo penetrati nella città barricata di Eglon. Ci troviamo nel gigantesco ventre della balena assieme a tutti gli altri pesciolini. Da qui in poi, siamo soli.»

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