lunedì 8 dicembre 2014

Le Anime di Eglon - Prima Stagione - Episodio 10

«Sei uno stronzo, lo sai?» mormorò Katie imbronciata.
«Lo so, grazie» farfugliò Chris altrettanto corrucciato.
«La tua ragazza ha l’influenza e tu vai alla festa di quella sgualdrina di Tila senza di lei. Bravo. Proprio bravo» commentò la giovane in tono sarcastico, parlando al cellulare mentre se ne stava sdraiata nella penombra della camera da letto in un qualunque sabato pomeriggio che avrebbe preferito trascorrere fuori in compagnia del fidanzato.
«Tesoro, lo sai che ci vado solo perché ci vanno i ragazzi. Se non me l’avessero chiesto, starei a casa. Ma è sabato sera, cucciola, e ho voglia di uscire un po’» si difese Chris, abbastanza malamente.
«Be’, vieni qui da me allora!» ribatté piagnucolante Katie, scossa da un inaspettato brivido di freddo.
«Mia madre non vuole, lo sai. Dice che non mi devo ammalare. Ho già perso fin troppi giorni di scuola, l’anno scorso…»
«Non mi importa. Sempre meglio che andare a farti corteggiare da quella… là…» concluse Katie, evitando minuziosamente di chiamarla con un termine assai più diretto e volgare di sgualdrina perché sapeva che a Chris non andava di sentirle dire certe parole.
«Amore, sarà solo una festa come un’altra. Tila nemmeno verrà a salutarmi, impegnata come sarà con tutta la gente che ha invitato. Probabilmente penserà che ci sia anche tu, da qualche parte, a spiarmi.»
«Fidati, non è così. Non perderà l’occasione…» replicò Katie giocherellando con una ciocca di capelli. Accidenti se faceva freddo. Anche sotto le coperte continuava a tremare. Eppure era sudata. Colpa della febbre, se aveva i brividi. Quando aveva preso l’ultima tachipirina? Le conveniva farsi portare un termometro e, se la temperatura era salita, prendere qualcos’altro per tenerla a bada.
«E con questo?» ribatté Chris indifferente. «Il fatto che possa o meno venire a corteggiarmi non cambia nulla: lei non mi interessa! Lo sai che amo te…»
«…lo so…» cedette Katie. Quella conversazione stava andando troppo per le lunghe. Si sentiva stanca, e aveva voglia di misurarsi la febbre, prendere una tachipirina e abbandonarsi tra le coperte in un bel sonno profondo.
«E allora qual è il problema, se ci vado?» riprese Chris.
Katie sospirò. «Fai quello che vuoi. Tanto lo faresti comunque. Va’ pure, se ci tieni tanto. Non mi importa. Ora, se permetti, ho bisogno di dormire.»
«Okay piccola. Riposati. Se domani stai meglio ti vengo a trovare, va bene?»
«Hmhm» annuì Katie svogliatamente. Non ne poteva più. Voleva solo chiudere gli occhi e lasciare che la mente naufragasse in mezzo a un arcipelago di sogni. Tutto il resto perdeva di valore, scoloriva, addirittura, messo a confronto con questo desiderio.
«D’accordo. A presto tesoro. Ti amo» la salutò Chris amorevolmente.
«Lo so. Ciao» finì Katie, e spense il cellulare, allontanandolo da sé.
Fu l’ultima volta in cui Katie e Chris si parlarono. Esclusi i pochi sms che si mandarono quella sera, fu anche l’ultima volta che si sentirono.

LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 10
LA FESTA

La serata non era del tutto limpida. C’era qualche banco di nuvole che pascolava mollemente in cielo, simile a un gregge di pecore che si fossero ruzzolate nella fuliggine. L’aria, nel complesso, non era troppo fredda. C’era un po’ di vento debole lievemente tiepido. Per il resto, sembrava che l’estate si godesse i suoi ultimi giorni prima di dover essere ineluttabilmente costretta a cedere il passo all’abito variopinto dell’autunno.
Chris distolse lo sguardo dall’orizzonte e osservò gli edifici che sfilavano fuori dal finestrino, lungo uno dei due lati di Neighbour Street. Il vento gli scompigliava i capelli ricci e gli occhi gli bruciavano un pochino. Accanto a lui c’era il suo amico Stuart che guidava. Dietro, sui sedili posteriori, Jason e Gary discutevano animatamente su quale delle loro compagne di classe delle medie fosse diventata, col passare degli anni, la più “gnocca” in assoluto. A contendersi il titolo c’erano Michelle Corall, figlia del vicesceriffo Steve Corall, e, naturalmente, l’immancabile Tila Berkovich, che con la sua terza di reggiseno e i suoi fianchi ondulati attirava gli sguardi dei ragazzi come una calamita fatta cadere in una cassetta degli attrezzi.
Alla fine vinse la seconda, quando Gary mise a tacere Jason con un’affermazione che avrebbe fatto arrossire persino un regista di film a luci rosse.
D’altro canto, si stavano per l’appunto recando alla festa organizzata da Tila Berkovich. Suo padre era un imprenditore, lavorava nel campo dell’edilizia. La sua ditta era in aperta competizione con quella di Peter Green, il quale però, essendo fratello del vicesindaco, si guadagnava la maggior parte degli appalti in città (lo testimoniava il recente lavoro di ristrutturazione del municipio). Ma il padre di Tila faceva comunque affari d’oro all’esterno, tra Little Rock, Pine Bluff e qualche volta Memphis. Senza il suo giro d’affari non avrebbe potuto organizzare alla figlia una festa in grande stile come quella alla quale si stavano recando.
Pochi genitori, a Eglon, potevano permettersi di affittare un intero campo da baseball e un’agenzia di catering ogni anno. Luke Berkovich era tra questi.
Il campo da baseball in cui giocava l’anonima squadra della città di Eglon si trovava sulla Valleybeach Avenue, a mezzo isolato circa dall’incrocio con Neighbour Street. Il parcheggio era piuttosto ampio, malgrado il seguito della squadra locale fosse di assai modeste dimensioni, ma quando Chris e i suoi amici vi giunsero la sera di sabato dieci settembre, intorno alle nove e mezzo, la maggioranza dei posti macchina era già stata occupata.
Restavano un paio di buchi in fondo, poco prima della siepe che separava il parcheggio dal rettangolo d’asfalto del distributore di benzina di Bruce Rodgers. Stuart vi si infilò con una certa disinvoltura, e i quattro scesero dall’auto e si diressero verso il cancello spalancato, dal quale traboccavano nel parcheggio le cremose vibrazioni della musica da discoteca.

Katie Simons si rigirò tra le coperte e di colpo ebbe come la netta sensazione di stare per cadere.
Si risvegliò di soprassalto e si rese conto di essere finita sull’orlo del materasso. Essendosi avvoltolata nel piumone, le lenzuola le si erano attorcigliate addosso e le avevano impedito di precipitare sul pavimento e spaccarsi un braccio, una gamba o un’anca.
Si riportò al centro del letto ansimando leggermente e si tranquillizzò.
Non si sentiva più la febbre. Il freddo era passato, i brividi anche. Era a casa da venerdì, ma aveva incominciato a stare male giovedì pomeriggio e adesso, finalmente, iniziava a sentirsi meglio. Anche se, come diceva sua mamma, prendersi un giorno in più per precauzione era sempre cosa saggia. Tra l’altro era domenica, sicché non aveva fretta di uscire a sbrigare le faccende lasciate indietro prima del weekend.
Si strofinò pigramente gli occhi e si tirò su a sedere. Un giramento di testa la colse impreparata e le si conficcò giusto al centro degli occhi, come un piolo di legno affondato nel cuore di un vampiro dormiente per impedirgli di succhiare ancora sangue da giovani vittime innocenti. Tornò a sdraiarsi e si coprì la fronte sudata con una mano, cercando di valutare grossomodo la propria temperatura.
Che fine aveva fatto il termometro? Probabilmente era ancora sul comodino dal pomeriggio precedente, ma ad essere sincera non aveva molta voglia alzarsi a controllare. Che stesse pure lì. Non c’era bisogno di misurarsela immediatamente, la febbre. Quasi sicuramente era scesa dalla sera addietro, ma Katie sapeva benissimo che l’apice si raggiungeva solitamente nelle ore pomeridiane, subito dopo pranzo, per cui era inutile stare tanto a preoccuparsi.
Era domenica e poteva prendersi tutto il tempo che le occorreva per rimettersi in forma.
Visto e considerato che la sera prima il suo ragazzo, Chris, era andato alla festa di Tila senza di lei, e che per questo motivo avevano ovviamente litigato, non c’era bisogno di preoccuparsi neppure per lui. Non sarebbe venuto a trovarla, almeno per quel giorno, così lei poteva riprendersi con calma e stare a letto a rilassarsi. Non doversi mettere in piedi per fare la doccia e indossare qualcosa che non fosse il suo pigiama le era di immenso conforto, ora come ora.
Si massaggiò fiaccamente le palpebre e riaprì gli occhi adagio, senza forzarli. Fuori doveva essere una giornata nuvolosa, a giudicare dalla luce grigia che trapelava attraverso i forellini sulle persiane.
L’ennesima domenica di tempo instabile, si disse Katie ritentando di mettersi a sedere e stavolta riuscendoci senza patire troppo dolore alla testa. Pazienza. Le commemorazioni per l’undici settembre ci sarebbero state comunque, e la gente avrebbe ascoltato trepidante il discorso del Presidente, chi pendendo dalle sue labbra e chi sperando che incespicasse con le parole e facesse una figuraccia. Era sempre così, tutte le volte.
Sogguardò svogliatamente l’orologio appeso alla parete, le cui lancette erano a malapena distinguibili nella penombra della stanza. Segnava le undici e trentacinque. Aveva dormito parecchio, ma d’altronde era riuscita a prendere sonno piuttosto tardi perché…
Già, perché? Bella domanda, questa qui. Non ricordava assolutamente nulla di ciò che era successo la sera prima. Rammentò che stava inviando un messaggio a Chris, quando il cellulare aveva smesso di prendere, e che mamma e papà erano usciti a prendersi un gelato e le avevano assicurato che sarebbero ritornati subito per controllare che stesse bene. Aveva preso la sua tachipirina e la temperatura era calata. Non c’era motivo di stare a preoccuparsi troppo per qualche linea di febbre.
E poi che cos’è successo? Qualcosa di strano, mi pare, prima che mi buttassi a letto e mi addormentassi. Perché quando ho preso sonno non ero tranquilla. Ero agitata, irrequieta, ero spaventata, e ora non ricordo più per quale motivo lo fossi…
(il segnale è tornato?)
Ottimo punto interrogativo. Gli venisse un accidente se lo sapeva. Era presumibile che il telefonino prendesse di nuovo, quella mattina, ma non lo poteva dire con certezza. Il fatto che improvvisamente il segnale si fosse ammutolito era alquanto insolito, e alle volte c’era da preoccuparsi molto di più per delle banalità come questa che non per…
Per che cosa? Ecco, ci risiamo. Di nuovo lo stesso vuoto. Come faccio a non ricordarmi che cos’è successo ieri sera? Ero qui, ed ero incazzata a morte con Chris perché lui se la spassava alla festa di Tila mentre io me ne stavo sotto le coperte a tremare per il freddo, e ho pensato che era meglio, se il cellulare non prendeva più, perché così non gli avrei risposto e si sarebbe sentito in colpa, e che oggi non sarebbe venuto a trovarmi perché in centro ci sarebbe stata parecchia confusione per via della commemorazione e…
(carri armati)
Carri armati? Che stupidaggine era mai questa? Un pensiero demenziale, senza alcun dubbio, perché una città piccola e tranquilla come Eglon, in Arkansas, non aveva mai visto in tutta la sua vita nemmeno l’ombra di un carro armato, sicché era impensabile che
(l’aeroporto e tutto quel fuoco)
un mezzo corazzato dell’esercito fosse effettivamente transitato per Main Street durante la scorsa notte. Doveva esserselo sognata, al massimo. Era normale che la mattina, appena svegli, la mente riproponesse senza preavviso qualche collegamento con il sogno da poco esaurito. Qualche volta le capitava, e non significava che ciò che aveva sognato appartenesse davvero alla realtà. Per un brandello di istante lo pensava, certo, ma poi la sicurezza vacillava e si sgretolava immediatamente dopo, dimostrando in maniera innegabile la propria inconsistenza.
Solo che stavolta era… diverso. Perché si sentiva confusa e tremendamente instabile. Come se qualcosa al di fuori della sua comprensione le avesse di colpo sconvolto la vita, ribaltandola come una scialuppa di salvataggio investita dai flutti di una tempesta senza precedenti.
Il ricordo di tutto quello che era successo durante la scorsa notte non si limitò a scivolarle addosso: precipitò su di lei, lasciandola spiazzata, e in mezzo secondo seppe esattamente perché si sentiva così e che cosa aveva visto dalla finestra della sua camera durante le ore di buio che avevano preceduto l’alba dell’undici settembre.

La musica faceva tremare i vestiti di Chris da quanto era alta. Ma lui ballava lo stesso, in mezzo alla calca, in un concentrato spesso e denso di corpi che si sfioravano e si muovevano a ritmo con i tuoni che traboccavano dalle casse. Il terreno sotto i loro piedi non sembrava soltanto essere sul punto di cedere alle percosse delle suole delle loro scarpe: dava addirittura l’impressione di volersi ritirare.
Era pieno di ragazze e ragazzi che si lanciavano in folli balli automatici, e Chris avvertiva la strana sensazione di non riuscire a respirare ma di avere comunque i polmoni più liberi che mai. Stava sudando, ma non gli importava. Di fianco a lui c’erano i suoi amici Stuart, Jason e Gary. Jason era riuscito a strappare un ballo a Michelle Corall, mentre Stuart aveva appena avvicinato Tila Berkovich per farle gli auguri. Le gridò nell’orecchio, e Tila rise e gli posò un bacio sulla guancia.
Poi la ragazza si girò a guardare Chris e tra i due si instaurò un contatto di sguardi.
Il ritmo gli pulsava nella testa. Non c’era modo di levarselo dalla mente per la maniera in cui martellava con insistenza, e le vene scaricavano sangue seguendo le sue regole, nessuna via per riuscire a fermare questa insensata danza fatale.
Aveva bevuto. Solo un po’. D’accordo, qualcosa di più. Ma non era troppo su di giri. Girava semplicemente tutto quanto tranne lui. E tutto sommato andava bene così. I suoi piedi erano per terra e non si sarebbero staccati dal suolo del campo imbevuto di musica.
Tila gli si avvicinò con un mezzo sorriso, gli posò le braccia sulle spalle, gli circondò il collo e cominciò ad ancheggiare a destra e a sinistra, di qua e di là, in un fluido movimento ipnotico. Indossava un vestitino corto tutto luccicante, che a malapena le copriva il sedere e le lasciava in bella mostra una buona metà del seno. Chris le appoggiò le mani sui fianchi e li sentì caldi e veloci sotto le dita. Si mise a ballare con lei, e ben presto si ritrovarono così vicini da sembrare quasi abbracciati. La musica sovrastava i loro respiri, ma loro li percepivano lo stesso sulla pelle del collo e sul viso. Si accarezzavano, i loro respiri, e si scambiavano sussurri silenziosi.
«Tanti auguri Tila» mormorò Chris all’orecchio della ragazza, e Tila gli baciò il collo.
Chris la lasciò fare. Sentì la sua lingua sfiorargli la pelle, e gli venne in mente la sua Katie che se ne stava a casa con l’influenza. Non era ancora del tutto andato, e questo pensiero improvviso lo ridestò dal senso di leggerezza che si era insinuato in lui con l’alcol e la musica. Lasciò andare i fianchi di Tila Berkovich
(quei favolosi fianchi caldi e ondeggianti)
e si allontanò dalla calca, sfoderando dalla tasca dei jeans il cellulare e accorgendosi soltanto ora che aveva ricevuto non uno bensì quattro messaggi da Katie nell’ultima mezz’ora.
Tila rimase attonita a fissare il suo profilo che se ne andava, e ben presto scomparve in mezzo al miscuglio disomogeneo di ragazzi e ragazze che saltavano e gridavano.
Chris si avvicinò al cancello del campo da baseball, dove la musica gli faceva meno male alla testa, e lesse l’ultimo sms di Katie: Se non mi rispondi al più presto, te ne pentirai. L’aveva lasciata a casa da sola con l’influenza per uscire con gli amici a divertirsi, e soltanto in quel momento iniziò a riflettere sul fatto che forse, dopotutto, avrebbe potuto essere un pochino più sensibile…
Tesoro, mi dispiace di essere qui senza di te. Credimi, non mi sto divertendo molto. E no, Tila non ci ha provato con me. Scrisse queste tre semplici frasi di getto, e anche se quella finale appariva ai suoi occhi come una bugia decise che era a fin di bene e inviò il messaggio.
Intravide alcune figure passare furtivamente sotto le luci soffuse del parcheggio. Erano almeno tre persone, e camminavano frettolosamente nella sua direzione tra le file di auto spente. Invitati arrivati in ritardo, pensò Chris. Ma dietro quei tre uomini emerse dall’oscurità notturna una sagoma più grossa e appariscente, che avanzava adagio verso il chiarore debole del parcheggio.
Sembrava una macchina, ma non aveva alcun faro acceso. E poi non aveva esattamente la forma di una macchina. Era più tozzo e più alto, quell’affare, e somigliava un po’ a… ma no, era impossibile. Assolutamente impossibile, stabilì Chris, e quando il carro armato fu chiaramente distinguibile sotto i lampioni che delimitavano il confine del campo da baseball il ragazzo si convinse che doveva per forza essere uno scherzo.

Il suono del campanello si propagò per tutte le stanze di casa Simons, e Katie sobbalzò. Forse erano tornati mamma e papà, che la sera prima erano usciti a prendersi un gelato e poi non erano più rientrati. Era in pensiero per loro, la mattina dell’undici settembre quando il campanello di casa sua la riportò alla realtà, e aveva appena cominciato a pensare che potesse essere capitato loro qualcosa di estremamente spiacevole.
Non aveva modo di contattarli al cellulare, così come non poteva sapere se Chris stesse bene. Era ancora parecchio confusa, anche se la febbre pareva essersene andata. Si sentiva la testa tuttora leggera, come se si fosse lentamente svuotata di tutti quei pensieri che la aggravavano. Ma allo stesso tempo era preoccupata, e il fatto di non sapere che cosa fosse accaduto quella notte e che cosa stesse succedendo adesso là fuori le metteva addosso un’ansia indescrivibile.
Raggiunse la porta di casa con le pantofole ai piedi, pigiò un pulsante sul citofono e rispose: «Sì?»
«Katie? Sei tu?» domandò una voce femminile alquanto famigliare. Non era quella di sua madre, e questo dettaglio la rese ancora più irrequieta. Ma impiegò pochi istanti a realizzare di chi si trattasse, e il cuore cominciò a batterle forte nel petto, lanciato in una folle corsa per portare ossigeno al cervello di modo che non perdesse improvvisamente i sensi.
«Sono io» confermò con voce tremante. Che cos’è successo?
«Chris è qui da te?» le domandò la voce smorzata della madre del suo ragazzo, e l’agitazione che avvertì dietro quella stentorea domanda le fece vedere di colpo tutto il mondo sfocato.
«No, non è qui» bisbigliò sottovoce, quasi che stesse rispondendo a se stessa.
«Sai per caso dove può essere, allora? Non è tornato a casa stanotte, e siamo in pensiero per lui…» mormorò cupamente la mamma di Chris.
Katie aprì la porta e invitò i genitori del suo fidanzato a entrare.

Chris non si mosse. Si trovava in piedi accanto al cancello del campo da baseball, il cellulare in mano, la musica che avvolgeva il rumore provocato dal carro armato in avvicinamento e lo attutiva.
C’erano in totale cinque uomini nel parcheggio, che venivano verso di lui scortando il mezzo corazzato. Sembravano tenere in mano qualcosa. Da quella distanza parevano Uzi, ma Chris non se ne intendeva di armi e non ci avrebbe scommesso troppo. Però…
Sogguardò la schermata del telefonino e scoprì che non c’era campo. Cosa alquanto improbabile, visto e considerato che fino a un attimo prima prendeva alla grande. Che cos’era successo? O, meglio ancora, che cosa stava per succedere?
Indietreggiò, mantenendo l’autocontrollo. Alle sue spalle la musica e la gente che ballava. Nessuno si era ancora accorto di nulla, pensò, mentre il carro armato con il cannone già pronto in posizione orizzontale oltrepassava il cancello spalancato del campo da baseball. I cinque uomini che lo accompagnavano imbracciavano effettivamente delle specie di mitragliette, e Chris aveva ragione: erano Uzi. Ognuno di loro portava una maschera diversa e il cappuccio calato sulla testa. I loro occhi luccicavano dietro i fori delle maschere, ma i volti erano comunque indistinguibili. Lo superarono senza degnarlo di uno sguardo e proseguirono oltre, raggiungendo il gruppo di ragazzi e ragazze che ballavano. Due uomini si fermarono presso il cancello, lo chiusero e restarono lì a piantonarlo.
La musica si spense, le luci si fermarono e le ultime vibrazioni si consumarono rapidamente, scaricandosi nel terreno. Qualcuno strillò. Un paio di ragazzi risero, gridando a Tila che aveva organizzato proprio un bello scherzo. Chris stava sudando freddo, e tremava.
Abbassò gli occhi sul cellulare. Ancora non prendeva. Segnale muto, come se si fossero inoltrati in una profonda e lunghissima galleria.
Uno dei tizi mascherati si avvicinò alla consolle del dj, allontanò il ragazzo che fino a quel momento si era occupato di riempire la festa di musica e si accostò il microfono alla bocca.
«Buonasera ragazzi» scandì con voce assolutamente inflessibile, roca e priva di accento. «La festa è finita. Adesso ne incomincia una più bella» annunciò, e una tremenda esplosione invase il silenzio della notte con un impeto spaventoso, innalzando una colonna di fuoco e fumo da qualche parte in direzione del centro della città di Eglon.

«Era alla festa di Tila, ieri sera. Tila Berkovich» principiò Katie. Si sentiva parecchio a disagio. I genitori di Chris erano seduti dall’altra parte del tavolo e si tenevano la mano, scuri in volto. Erano immensamente preoccupati, e Katie non poteva dare loro torto: Chris non era rientrato a casa quella notte, e con tutti gli spari, le esplosioni e le urla che avevano percorso Eglon in lungo e in largo c’era da mettere in preventivo che potesse essergli capitato qualcosa di estremamente brutto.
«Siamo passati a casa di Luke Berkovich. Anche Tila non è tornata. Sono andati a cercarla al campo da baseball in cui si è svolta la festa e non c’era anima viva. Non hanno avuto il coraggio di andare altrove: le strade sono pericolose, e uscendo si corre il rischio buscarsi una pallottola in testa…» spiegò tristemente il padre di Chris, visibilmente scosso.
«Che cosa succede là fuori?» s’informò Katie. Non voleva realmente saperlo. Ma era preoccupata anche per i suoi genitori, oltre che per il suo ragazzo, e aveva bisogno di qualche risposta.
«Di tutto. La gente è agitata, si respira una brutta aria. Ci sono molti uomini in maschera lungo le strade. Girano armati. Ogni tanto si sente qualche colpo di fucile spezzare l’aria qua e là, ma niente di più. Dopo lo scontro della scorsa notte tra la polizia di Eglon e le forze rivoluzionarie, i cittadini si sono rintanati in casa. Non esce più quasi nessuno. I negozi sono chiusi, le auto non si muovono» illustrò sinteticamente l’uomo. La mamma di Chris era zitta e fissava il ripiano di legno lucido del tavolo, quasi che vi potesse leggere il luogo in cui si trovava suo figlio in quel momento.
«Quegli elicotteri…» sussurrò Katie con un filo di voce.
«Abbattuti» confermò il papà di Chris. «Erano Black Hawk dell’esercito americano, su questo non ci piove. Si sono schiantati a lato di Main Street, dopo che i missili li hanno colpiti.»
«Mio Dio…» barbugliò Katie immergendo il viso tra le mani.
«Dobbiamo trovare Chris» proruppe di punto in bianco la madre del suo ragazzo, rompendo il silenzio al quale sembrava essersi votata. La sua espressione apparve seria e determinata. Katie la guardò negli occhi e intuì che era pronta a fare qualsiasi cosa pur di ritrovare suo figlio.
«Vengo con voi» approvò la ragazza, e il padre di Chris annuì.

Il carro armato era fermo in mezzo al campo da baseball e i cinque uomini con le maschere sul volto avevano circondato gli invitati e li stavano lentamente facendo salire su alcuni furgoni blindati comparsi dal nulla.
Chris si era riavvicinato al gruppo. Tila era in fila poco più avanti di lui, e la stavano facendo salire assieme agli altri su uno dei furgoni. Dove li volessero portare, Chris non lo poteva sapere, ma di certo tutti se lo stavano chiedendo.
Una nuova esplosione in lontananza, seguita da una serie di botti assordanti e globi di luce infuocata che sembravano sprigionarsi dalle parti dell’aeroporto di Eglon. Spari nella notte. E quegli Uzi puntati su di loro, come se intendessero rinchiuderli in un campo di concentramento e buttare via la chiave.
«Avanti ragazzi, cerchiamo di sbrigarci!» berciò uno degli uomini mascherati spingendo Tila in malo modo all’interno del cassone dell’anonimo furgoncino blindato nero.
«Ehi, calma!» gli gridò di rimando Chris, avvicinandosi a Tila e aiutandola a salire sul ripiano rialzato. Il tipo con la maschera e l’Uzi lo squadrò senza proferire parola e quando Tila fu salita con gli altri gli afferrò un braccio e lo tirò a sé, puntandogli contro l’arma che imbracciava.
«Occhio a quello che fai e che dici, ragazzo. Non è un gioco» lo ammonì. Chris scorse i suoi occhi tremolanti dietro i fori sulla maschera rossa, e il suo braccio ritornò ad essere libero.
Salì sul furgoncino assieme agli altri e attese che tutti i ragazzi e le ragazze fossero caricati sui veicoli. L’ultima cosa che vide prima che le porte fossero chiuse fu il profilo tetro e autoritario del carro armato al centro del campo da baseball, lugubremente illuminato dai potenti fari alogeni piazzati lungo il perimetro della recinzione.
Poi improvvisamente fu tutto quanto buio, e i giovani rinchiusi nel furgone blindato esalarono all’unisono un sospiro di sorpresa.
Il motore fu avviato e il veicolo partì, immettendosi nella strada che fiancheggiava il campo da baseball e immergendosi nella notte più spaventosa che una città americana avesse mai vissuto.

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