lunedì 29 dicembre 2014

Le Anime di Eglon - Prima Stagione - Episodio 13

Emily Cooper non si sarebbe mai immaginata che per raggiungere Pine Bluff in treno, partendo da Little Rock con una coincidenza spaventosamente precisa, occorressero così tante ore. Eppure era ferma alla stazione di Eglon da tutto un giorno, aveva fame e sete e anche un po’ di freddo, si sentiva stanca e assonnata e soprattutto terribilmente in ansia perché da circa quattro ore aveva finito le sigarette.
Eh già, perché proprio qui stava il punto: non poteva trattenere il suo nervosismo quando era in astinenza da tabacco. E che accidenti di stazione dei treni era quella lì, che non aveva neppure uno stramaledetto distributore di sigarette? Roba da matti, rifletté Emily squadrando il tipo che piantonava l’uscita con una mitraglietta Uzi a tracolla e una maschera di plastica rossa e gialla sul viso. In che razza di covo di mentecatti era finita?
Stavano lì dalla mattina, quando il loro treno era stato bloccato poco dopo l’alba da quei tizi armati con il volto coperto che davano a Emily l’impressione di essere un po’ tocchi. I vagoni erano stati smontati e spostati dai binari, e tutti loro erano stati radunati nella sala d’aspetto della stazione assieme ai passeggeri di almeno un altro treno. Dovevano essere esausti anche gli altri, considerò Emily guardandosi rapidamente intorno. Stavano in piedi da ore, eccetto ovviamente quelli che per primi si erano presi le poche seggiole sparpagliate per la sala e quelli che avevano avuto il coraggio di sedersi per terra nonostante lo sporco che si scorgeva sul pavimento. A pranzo erano stati distribuiti pasti preconfezionati di assortimento piuttosto vario, e poi più niente. Qualche bottiglietta d’acqua girava di quando in quando, ma i tipi che piantonavano gli ingressi e li tenevano costantemente sotto controllo non avevano ancora dato segno di volerli lasciare andare.
Certo che Emily, quella mattina quando era partita, sicuramente non si aspettava di rimanere invischiata suo malgrado in una situazione simile. Pareva eccessivamente assurdo, a suo avviso. Troppo inverosimile perché ci potesse credere del tutto. Eppure non le pareva di intravedere alcuna telecamera, nei paraggi, il che significava che molto probabilmente non erano vittime di un qualche scherzo assurdo macchinato dall’ultimo scrittore freelance di copioni per reality show.
Le esplosioni e gli spari che si erano susseguiti fuori dalla stazione per la maggior parte della giornata erano riusciti a mettere in agitazione il più dei presenti, in particolar modo una famigliola che stava presumibilmente andando in vacanza da qualche parte
(in vacanza a Pine Bluff?? Bah, cavoli loro…)
con i tre figli piccoli che dalle sette di quella sera reclamavano a gran voce il proprio pasto abituale strillando e scalciando come dei forsennati.
Adesso fuori sembrava tutto tranquillo. Nessuno lì dentro aveva ancora avuto modo di uscire a vedere che cosa stesse succedendo, ma c’erano molte ipotesi che dopo aver girato di bocca in bocca avevano finito per coincidere…
«Signore e signori!» scandì una voce senza accento prorompendo all’interno del salone della stazione dei treni di Eglon attraverso gli altoparlanti disposti sul soffitto. «Benvenuti a Eglon! Ci scusiamo per la difficile giornata d’attesa che vi abbiamo fatto trascorrere chiusi qui dentro. Non ci aspettavamo così tanti passeggeri tutti in una sola volta, ma adesso il problema è stato risolto. A ciascuno dei nuclei famigliari qui presenti sarà assegnata una stanza nei principali alberghi cittadini, il tutto naturalmente gratis. A una condizione, però…»
La gente, già radunata attorno agli ingressi per sciamare fuori da quell’ambiente che cominciava ad essere sempre più stretto, si scambiò un mormorio confuso.
«Ognuno di voi dovrà lasciare i propri documenti in ingresso. D’ora in avanti siete cittadini di Eglon a tutti gli effetti, signore e signori. E non ve ne andrete da questa città mai più

LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 13
PENA DI MORTE

Quando riaprì gli occhi, Stan non ci mise molto a realizzare di aver dormito troppo poco. O almeno questa era la sensazione che provava. A dire la verità, le sue sei ore buone di sonno era riuscito a concedersele, ma non gli erano state sufficienti a recuperare i due giorni in cui non aveva dormito nemmeno per un minuto.
Tra l’altro, Stan Payton sapeva anche che le ore di sonno perdute sono in realtà impossibili da recuperare. Quel che è perso è perso, e questo con il sonno valeva quasi di più che con tutto quanto il resto. Ma sei ore le aveva trascorse volentieri sul divano per ricaricarsi le batterie, e adesso si sentiva già meglio.
Non provò alcun senso di confusione ridestandosi sul divano della sua vecchia casa con una coperta di lana sopra. In fondo, era abituato a questi risvegli anche quando stava ancora con Sarah, perciò niente di straordinario.
Era la mattina del dodici settembre, e fuori c’erano ancora le nuvole.
La notte era stata trascinata via su di una barella nera da una luce tenue e polverosa che le si era sostituita, la luce del sole filtrata da una cappa impenetrabile di nuvole grigie che conferivano alla città un diffuso senso di malinconia. Stan poté scorgere tutto questo attraverso le tende che nascondevano con scarso successo una delle due finestre del soggiorno, e la prima domanda che spontaneamente lo colse fu: che cos’era successo a Eglon quella notte mentre lui dormiva?
Si tirò su e si mise a sedere, strofinandosi gli occhi e sbadigliando. Il giorno prima lui e Robert erano rientrati a casa nel tardo pomeriggio, dopo la loro rapida visita presso le barricate piazzate dai rivoluzionari lungo il margine settentrionale della città. Da Main Street avevano udito i boati di un bombardamento piuttosto breve, molto probabilmente organizzato dai ribelli per dimostrare all’Esercito che non si sarebbero lasciati intimidire tanto facilmente. E in effetti era proprio così: inizialmente, quando si era parlato di Esercito, Stan aveva pensato che i militari avrebbero rimesso le cose in ordine nel giro di una giornata. I tre Black Hawk abbattuti nei cieli di Eglon il giorno prima, però, avevano immediatamente demolito questa sua labile speranza.
Adesso non osava neppure immaginare che cosa potesse essere successo durante la notte. Di certo non c’era stata alcuna battaglia, altrimenti i bombardamenti lo avrebbero svegliato. Né si dovevano essere verificati grossi disordini, perché non ricordava di aver udito nulla. Magari qualche sparo poteva anche esserci stato, ma sicuramente non nel loro quartiere. Il suo sonno era troppo leggero perché non si interrompesse con un colpo di pistola.
Si guardò attorno e sondò con lo sguardo il salone in penombra. Era strano trovarsi di nuovo lì, rifletté. Era una sensazione alquanto insolita rivedere le vecchie cose mescolate a quelle nuove che Robert e Sarah avevano pensato di aggiungere negli ultimi mesi. Da quando si era lasciato con Sarah, Stan non aveva mai rimesso piede in quella casa. La domenica sera riportava a Eglon i figli e li salutava senza scendere dall’auto, quindi attendeva che superassero il vialetto d’accesso e varcassero la soglia per poi ripartire alla volta del suo solitario appartamento di Little Rock.
E chissà come stava il suo appartamento, adesso, e soprattutto chissà se i suoi vicini sapevano che lui si trovava a Eglon…
La sua macchina era a posto. La sera prima era uscito per andare a controllarla e, visto che Main Street appariva piuttosto libera, era montato su e l’aveva portata a casa, parcheggiandola dietro l’utilitaria verde pisello di Robert. E poi che razza di macchina si era preso, Robert? Un’utilitaria verde pisello? Non sapeva nemmeno che un colore del genere esistesse per quel modello! Ma forse Robert se l’era addirittura fatta fare apposta, chiedendo al concessionario di provvedere a verniciarla interamente di verde pisello e pagando anche qualcosina in più per l’integrazione…
Stan scrollò la testa esasperato e si alzò in piedi, scoprendo di essersi addormentato con i vestiti e le scarpe ancora addosso. Si diresse verso la cucina a passi felpati, cercando di fare meno rumore possibile. La sera prima, quando si erano salutati, Sarah era andata di sopra con i bambini, promettendo loro che avrebbero dormito assieme a lei nel lettone, e Robert era rimasto in cucina. Era ancora lì, constatò Stan con una certa sorpresa. Addormentato su una sedia, con la testa reclinata sul petto e le braccia abbandonate inerti lungo i fianchi. Sarebbe parso morto se non fosse stato per le spalle che si alzavano e si abbassavano lievemente all’unisono con il respiro.
Doveva essere rimasto sveglio per la maggior parte della notte a fare la guardia alla casa, pensò Stan, provando per lui un pizzico di compassione. Dopotutto era un brav’uomo, per quello che aveva potuto constatare. Trattava bene Sarah e i bambini, e non faceva mancare loro nulla. Odiarlo, in questo momento, gli risultava pressoché impossibile.
Tornò di là e spiò oltre la finestra scostando a malapena la tenda. Fuori sembrava tutto tranquillo. Il giardino era bigio e triste come il cielo, e più avanti la strada appariva fredda e desolata. Gli edifici, dall’altra parte, stavano immobili e sfilavano accanto a Main Street, senza abbandonarla mai. Auto ferme, parcheggiate vicino ai marciapiedi o sui vialetti d’accesso delle abitazioni. Pochi passanti, un vecchio con un bastone che camminava lentamente seguendo il marciapiede, un tipo sulla cinquantina in tuta da ginnastica con un dobermann tenuto al guinzaglio, una donna in pelliccia che entrò e uscì dal suo campo visivo così rapidamente da dargli quasi l’impressione di aver avuto un’allucinazione.
Sì, era tutto tranquillo là fuori. Non ci dovevano essere stati disordini rilevanti, nel corso delle ore di buio, e adesso si profilava all’orizzonte un nuovo giorno che racchiudeva inevitabilmente in sé un piccolo seme di speranza.
Stan girò la chiave appesa alla serratura della porta d’ingresso e uscì all’aria aperta, aspirando e assaporando tutto d’un fiato quell’atmosfera grigia e rarefatta che aleggiava attorno alle case silenziose. Decise di fare quattro passi per sgranchirsi un po’ le gambe e svegliarsi del tutto, così prese con sé le chiavi, serrò la porta e si mise in cammino lungo il marciapiede che portava tramite Main Street verso il centro cittadino.
Un uomo con una pistola stretta in pugno lo guardò passare di sottecchi, appostato davanti alla facciata di una banca. I suoi occhi lo seguirono da dietro l’orlo superiore di una bandana blu che gli copriva mento, bocca e naso. Stan finse di non accorgersene e proseguì nella sua calma risalita mattutina di Main Street. E pensare che una volta faceva quella strada tutte le mattine per andare al lavoro… Era strano ripercorrerla col senno di poi, riscoprendone gli angoli uno dopo l’altro e facendoli riemergere dalla nebbia dei ricordi tappezzati di ragnatele nei quali erano segregati.
Aveva un po’ di sonno, ma la sua mente si stava riscuotendo da quello stato di torpore che ancora la avvolgeva quando aveva messo piede fuori dalla porta di casa. L’aria fresca dell’alba era sempre l’ideale quando ci si voleva sgravare degli effetti del sonno.
Dentro di sé, Stan si sentiva in dovere di fare qualcosa per aiutare a risolvere la situazione. Erano morte delle persone. Troppe persone, e lui era lì che passeggiava tranquillo dopo aver dormito beatamente per gran parte della notte. Non era assolutamente realistica una cosa del genere, nemmeno ai suoi occhi. Eppure le strade apparivano quantomeno normali, e tutto l’ambiente, in un certo qual modo, comunicava senza mezzi termini la propria assoluta regolarità. Come se la città di Eglon non avesse visto neppure una magra gocciolina di sangue, quando invece si stava consumando in essa una rivoluzione feroce che aveva ammazzato come minimo un centinaio di uomini e donne nel giro di una sola giornata.
Forse era proprio su questo che i ribelli stavano giocando. Salvavano le apparenze, facevano sembrare tutto quanto a posto quando in realtà la città era profondamente sconvolta. Legittimavano le proprie azioni agli occhi della popolazione impaurita, facendole credere di essere al sicuro in mezzo a una selva di proiettili vaganti che non miravano a uccidere alcun nome preciso, ma si limitavano ad ammazzare indistintamente chiunque.
E fu mentre rimescolava questi pensieri che Stan notò un assembramento di persone che occupava quasi tutta la carreggiata davanti al municipio, come un’adunanza straordinaria della cittadinanza richiesta dal sindaco ormai defunto.
Affrettò il passo e si congiunse alla calca, infilandosi tra le persone per avanzare di qualche posizione ancora e vedere che cosa stesse accadendo di tanto interessante.
E l’uomo con la maschera blu e l’elmetto da soldato che stava in piedi sotto uno dei lampioni posti a lato di Main Street iniziò a parlare.

Gregory Donington non aveva dormicchiato più di un’ora e mezza nel corso di tutta la notte, ma si sentiva ancora sveglio e lucido come se avesse dedicato al sonno un’intera settimana. In fondo, era abituato a ritmi ben più pesanti. Quando era stato in missione per otto mesi in Afghanistan, ad esempio, facendo la spola tra Kabul e l’Iraq almeno una volta ogni quindici giorni a bordo di un aereo per il trasporto merci che minacciava di perdere quota e precipitare a ogni soffio di brezza, se l’era vista molto più brutta. Anche se non era da sottovalutare il fatto che una trentina di ore prima un totale sconosciuto avesse tentato di farlo fuori in casa sua.
Adesso se ne stava seduto per terra vicino alla porta che collegava la sua cantina all’ex sala caldaie che aveva trasformato in un rifugio perfetto. Brett dormiva a pochi metri da lui, nella culla che aveva provveduto a trasferire dal piano superiore prima di sigillare la porta della cantina, mentre Susi riposava sul divano accanto, dormendo sogni poco profondi e quasi sicuramente inquieti.
Greg dedicò loro solo un’occhiata fugace condita con un mezzo sorriso amorevole. Stava cercando di mettersi in contatto con un satellite protetto del quale la CIA si serviva occasionalmente in caso di perdita delle comunicazioni, ma proprio non riusciva ad agganciarlo. Dovevano essersi procurati dei disturbatori piuttosto efficaci, quegli uomini là fuori che girovagavano armati e mascherati per le strade della città. Jammer all’avanguardia, forse anche più potenti di quelli in dotazione all’Esercito regolare. E poi non c’era da dimenticare il fatto che si trovava in un ambiente interrato, dettaglio non trascurabile in questo caso.
Sospirò affranto e abbassò lo schermo del computer portatile, mettendolo in standby. C’erano moltissime cose da fare, ragionò. Si trovavano in un luogo sicuro, attrezzato e sufficientemente provvisto di viveri. Ma là fuori era scoppiato l’inferno, ed era suo compito, in qualità di agente addestrato della CIA, scovare delle soluzioni per riportare l’ordine al più presto.
Il pomeriggio precedente si era recato verso il margine orientale della città per vedere le barricate che si stavano costruendo. Il terminal aeroportuale era stato abbattuto con dei macchinari per le demolizioni e le piste d’atterraggio erano state smantellate per fare spazio a una barriera di spessi pannelli di legno incastrati l’uno nell’altro per diversi chilometri. In corrispondenza delle sponde del fiume Arkansas i ribelli avevano provveduto a erigere soltanto delle torrette di controllo e dei posti di blocco lungo i due ponti che mettevano in comunicazione le rive opposte. Dall’altra parte del corso d’acqua c’erano solamente fattorie, e così i ribelli avevano bloccato i ponti con due linee di automobili ribaltate e avevano allestito aree di controllo affinché nessuno si sognasse di accedere al centro abitato risalendo le correnti del fiume e arrampicandosi su per le sponde.
Dopo un rapido giro di perlustrazione, Greg si era spostato verso nord e aveva osservato le operazioni di barricamento che si stavano effettuando in quella zona. Aveva visto l’Esercito appostato dall’altra parte delle barriere, a debita distanza, e aveva assistito col fiato sospeso all’abbattimento dei Black Hawk mandati in ricognizione e all’attacco dei mortai poche ore prima dell’imbrunire.
Era ritornato a casa abbastanza sconcertato, ripensando a quello che aveva visto. Era riuscito a contare sei carri armati, ma ce ne dovevano essere senz’altro di più. Aveva riconosciuto armi di vario genere, dalle semplici pistole d’ordinanza che solitamente venivano affidate alla polizia fino ai più moderni fucili automatici a disposizione dell’Esercito americano. Uzi, Kalashnikov, granate di diversa provenienza accatastate in casse di legno caricate su alcuni furgoni blindati appostati presso le barricate settentrionali. Poi erano saltati fuori quei mortai con i quali avevano aperto il fuoco contro l’Esercito, lanciando un monito più che evidente: restatevene fuori da questa questione, altrimenti pagherete a caro prezzo la vostra intromissione.
Si trattava di una situazione quanto mai oscura, almeno agli occhi di Gregory. Davvero non comprendeva il motivo che si celava dietro quest’azione rivoluzionaria condotta all’interno di una città poco importante come Eglon, ma sicuramente dovevano esserci delle ragioni in ciò che stavano facendo. E Greg avrebbe dato forse qualsiasi cosa pur di riuscire a indovinarle.
Riaprì il portatile e cliccò su di un documento in pdf che aveva scaricato la sera del dieci settembre, giusto una mezz’ora prima che le comunicazioni fossero bruscamente arrestate in tutta la città. Il titolo era: ELENCO ARMI CARICO GERMANIA. Per l’ennesima volta ricominciò a leggerlo dall’inizio, pazientemente.

Emily Cooper guardò le persone uscire una per una dalla stazione ferroviaria di Eglon e mescolarsi alla gente che passava lungo la strada, gettandosi spaesate e disorientate nelle direzioni indicate dagli uomini che, a volto coperto, puntavano il dito verso qualche edificio dalle insegne luminose che promettevano stanze a prezzi modesti e mormoravano: «Di là, cittadini di Eglon.»
Per Emily consegnare i propri documenti era stato come strapparsi un brandello di anima e scagliarlo senza tanti ripensamenti nel focolare acceso. Quanto in fretta ciascuno di loro stava rinnegando il proprio passato e la propria identità per un letto comodo e un pasto abbondante? Era incredibile come le persone fossero volubili. Lei stessa era tale, e lo riconosceva. Ma si sentiva male per quello che stava facendo. Stavano tacitamente cedendo alle pretese di quegli uomini che avevano fermato i loro treni e avevano detto loro che non se ne sarebbero andati mai più dalla città nella quale si trovavano. Accettavano in silenzio e legittimavano questa costrizione, pensando solo a riempirsi la pancia.
Ecco quanto ciascuno di noi è schiavo della realtà nonostante si creda libero, rifletté Emily mentre consegnava carta d’identità, passaporto e patente e varcava la soglia della grande sala d’attesa della stazione ferroviaria di Eglon, mettendo piede per la prima volta in quella che da allora in avanti sarebbe stata anche la sua città.
Si sentiva frastornata e confusa. Un uomo con una maschera da Guy Fawkes che le ricordava tanto il film che aveva visto qualche anno prima con il suo ultimo ex fidanzato
(V per Vendetta, mi pare che si chiamasse)
le fece cenno di seguirla e lei non protestò, accodandosi allo sconosciuto e ricalcando i suoi passi. Si dirigevano verso un altissimo palazzo oltre la strada che esibiva un’insegna azzurrognola con su scritto EGLON’S WINDOW HOTEL. Così era questo ciò che l’aspettava…
«Come ti chiami?» le domandò l’uomo mascherato senza voltarsi a guardarla. Aveva una voce cava ed enigmatica, con un accento marcatamente meridionale.
«Emily» rispose lei in un sussurro, guardandosi attorno e registrando la presenza di uomini armati lungo i marciapiedi e furgoni blindati neri parcheggiati in mezzo alla strada.
«Quest’albergo sarà la tua casa per un po’, Emily» le pronosticò semplicemente l’uomo aprendole la porta e facendola entrare nella hall illuminata a giorno. «Almeno finché non ci servirai altrove.»

«Cittadini di Eglon» esordì, adoperando la sua solita formula di apertura per richiamare su di sé l’attenzione. Era lo stesso uomo privo di accento con la maschera blu e l’elmetto da soldato che la notte della presa della città aveva parlato a Main Street dalla sommità di un carro armato con un megafono ed era comparso nello schermo gigante posizionato sulla facciata della Eglon Tower. Stava in piedi sotto un lampione spento, le mani aperte e i palmi rivolti verso gli spettatori, e dietro di lui erano schierati sei uomini armati con i cappucci e i volti coperti da maschere raffiguranti teschi con occhiaie nere e profonde.
«Sono lieto di avervi qui in molti, stamattina, per assistere all’esecuzione di quest’uomo» pronunciò con un tono di voce assolutamente misurato il rivoluzionario dalla maschera blu, indicando una figura inginocchiata sull’asfalto accanto a lui. Stan sgranò gli occhi, incredulo. Quell’uomo era quasi completamente nudo. Indossava soltanto dei pantaloncini cortissimi, e aveva la pelle esangue e un aspetto piuttosto malaticcio.
Maschera Blu afferrò risolutamente per i capelli il condannato che stava zitto al suo fianco e tirò, costringendolo a rivolgere il viso sofferente in direzione della folla. Stan vide che aveva una ferita d’arma da fuoco sul petto, a destra, e che il suo corpo era costellato di ecchimosi violacee e segni neri. Dalla bocca gli fuoriusciva un rivoletto di sangue ormai rappreso, segno che probabilmente gli avevano spaccato il labbro.
«Questo qui è un poliziotto, signore e signori» spiegò Maschera Blu alla folla inorridita. Alcuni uomini indietreggiarono, altri rimasero immobili, attoniti, a fissare la scena con crescente sgomento. Un paio di donne si allontanarono. Un’anziana si lasciò scappare un pigolio d’orrore.
«Il suo nome è Benjamin Dolovan, e lavora per la polizia di Eglon da diciannove anni. Ha aiutato a mantenere l’ordine in città per tutto questo tempo, intervenendo in svariate occasioni contro il crimine. Adesso, però, si è macchiato egli stesso di un crimine imperdonabile» proseguì Maschera Blu come se niente fosse, ignorando i borbottii concitati e intimoriti della calca e continuando a tirare energicamente i capelli della malcapitata vittima con le ginocchia premute sull’asfalto.
«Ieri pomeriggio quest’uomo ha ucciso uno dei Soldati della Rivoluzione di Eglon, assassinandolo brutalmente con un colpo di pistola, senza alcuna valida motivazione. Il corpo dei Sorveglianti» illustrò, accennando agli uomini con le maschere da teschi che stavano alle sue spalle, «lo ha fortunatamente bloccato prima che commettesse altri omicidi efferati nella sua fuga clandestina. Uno dei cecchini che abbiamo fatto appostare nei principali edifici di Eglon lo ha seguito con il suo fucile di precisione e lo ha colpito mentre scappava, un istante prima che si dileguasse nel nulla. Il suo complice è tuttora in libertà.»
Una pausa per lasciare che la folla digerisse le sue parole senza la difficoltà di dovergli stare dietro. Tutti rimasero in assoluto silenzio, basiti davanti all’inquietante narrazione nitida che si stava delineando sotto i loro occhi. Molti sapevano come sarebbe andata a finire, ma nessuno si mosse più. Tutti quanti, dentro di sé, desideravano in ogni caso stare a guardare.
Stan si sentì attraversare da un’energica scarica di brividi. Anche lui intuiva quello che sarebbe seguito, e francamente la cosa non gli piaceva affatto. Sapeva di sbagliato, ecco tutto. Anche se in Arkansas c’era la pena di morte, qui si trattava di un qualcosa di radicalmente diverso e totalmente indefinito. Stavano varcando le soglie della civiltà per buttarsi a capofitto nella natura della barbarie, e nessuno pareva avere intenzione di muovere un solo dito per evitare che ciò accadesse.
«Dunque ora, come decretato dalla nostra linea di prevenzione, quest’uomo viene condannato per il possesso proibito di un’arma da fuoco e per l’omicidio ingiustificabile di un Soldato della Rivoluzione. Per rendere effettiva tale condanna, sarà applicata seduta stante la pena di morte» sentenziò Maschera Blu senza tradire alcuna emozione, banalmente limitandosi a proferire queste parole con la sua voce assolutamente lineare e pienamente atona.
Un brusio d’agitazione scosse la calca correndo da un margine all’altro, sfiorando e increspando ogni espressione assorta. Stan Payton rimase a bocca aperta, sconvolto dall’ultima dichiarazione definitivamente inappellabile.
L’unica cosa che gli venne da pensare, assistendo a quella scena, fu che anche a casa di Sarah c’era una pistola. E che quella pistola avrebbe potuto mettere in pericolo non soltanto Robert, o lui, ma anche e soprattutto la sua famiglia. Tutti loro correvano il rischio di essere condannati a morte come il poliziotto quasi esanime che rantolava di fronte ai suoi occhi, inginocchiato sulla strada e ridotto a un corpo livido e punteggiato di ematomi.
Di nuovo non poté fare altro che rabbrividire.
Uno degli uomini con la maschera da teschio e il cappuccio sulla fronte, che Stan aveva capito chiamarsi Sorveglianti, sparì e ricomparve un attimo dopo con una scala che appoggiò al lampione sotto il quale Maschera Blu teneva per i capelli Ben Dolovan. Si arrampicò e un altro Sorvegliante gli passò una corda spessa e robusta alla cui estremità era già stato formato un cappio con un perfetto nodo da abile marinaio. La corda fu legata saldamente alla sommità del lampione aggettante verso il centro della strada e il cappio fu lasciato cadere nel vuoto sottostante. L’uomo con la maschera da teschio in piedi in cima alla scala accorciò la corda fino a portare il cappio abbastanza in alto da impedire che chiunque venisse appeso per il collo potesse anche solo sperare di sfiorare l’asfalto di sotto con le punte delle scarpe.
Dopodiché, Maschera Blu fece alzare Ben Dolovan assestandogli un pugno sulle costole e lo obbligò a salire l’altro lato della scala, raggiungendo il Sorvegliante che aveva sistemato la corda. Quest’ultimo si limitò a passare il cappio attorno al collo irrigidito del poliziotto, infine scese e si appostò sotto il lampione.
«Qui si esaurisce il proposito di chiunque osi opporsi alle leggi dettate dai Soldati della Rivoluzione di Eglon, come Benjamin Dolovan ha scelto di fare» gridò Maschera Blu rivolgendosi alla folla, quindi con un calcio bene assestato fece rovinare a terra la scala.
Non ci fu nessun rantolo, né tantomeno alcuno spasmo finale d’agonia. Semplicemente, il macabro scricchiolio del collo del poliziotto impiccato che si rompeva echeggiò lungo tutta Main Street.

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