lunedì 1 dicembre 2014

Le Anime di Eglon - Prima Stagione - Episodio 9

«Signore, una chiamata dall’ufficio dell’FBI di Little Rock. Dicono che è importante» lo avvisò tramite interfono uno dei suoi sottoposti.
«D’accordo, passamela» approvò l’uomo seduto dietro la scrivania senza tanti giri di parole.
«Signor Kozinski?» domandò una voce all’altro capo.
«Sì, sono io» confermò tranquillamente.
«Ci troviamo su una linea sicura?»
«Io sono sempre su una linea sicura. Che cosa c’è?»
«Ci occorre un’informazione, signor Kozinski» avanzò senza indugio il suo interlocutore.
«Un’informazione, eh? Di che genere?»
«Si tratta di Eglon, signor Kozinski…» spiegò con calma la voce dell’agente dell’FBI.
«Eglon… Che altro vi interessa sapere di Eglon?»
«Tutto quello che non ci ha detto, signor Kozinski. Lei forse ancora non lo sa, ma laggiù è cominciata. Un reparto dell’esercito è in movimento per raggiungere la città. Stiamo seguendo i loro movimenti attraverso il satellite: hanno costruito sotto il nostro naso una barricata completa nel giro di poche ore…» principiò la voce dall’altra parte, ma Kozinski la fermò.
«Io so tutto. Sapere è il mio lavoro. So che cosa è successo e so che cosa sta per succedere. Ad ogni modo, vi ho già detto tutto ciò che vi potevo dire.»
«Se ci avesse detto tutto, allora avremmo saputo in tempo dei carri armati!» ribatté freddamente la voce, suonando minacciosa all’interno della cornetta. «Oppure questa è una novità anche per lei, signor Kozinski?» soggiunse in tono beffardo.
«Come vi ho già detto, sapere è il mio lavoro» ribadì molto pazientemente Victor Kozinski. «E adesso non ho altro da dirvi.»
Riattaccò, lasciando l’agente dell’FBI con il silenzio della comunicazione interrotta.
«Non desidero ricevere altre telefonate dall’FBI, per oggi» comunicò all’interfono, e una voce femminile rispose affermativamente.
Eglon… E così, alla fine l’avevano fatto. Avevano tirato fuori i carri armati, avevano occupato la città e l’avevano barricata. Quegli scaltri figli di puttana si erano organizzati bene, dopotutto. Con un supporto come quello di cui disponevano, chi non avrebbe saputo mettere in piedi un’operazione simile?
Bisognava dire, però, che avevano fegato. I reparti speciali sarebbero stati schierati attorno alla città entro sera, e l’ONU non avrebbe rilasciato dichiarazioni importanti oltre le ventiquattro ore. Il governo americano avrebbe richiesto l’autorizzazione per un intervento parzialmente violento, e tale richiesta sarebbe stata respinta senza mezzi termini. Allora sarebbe scoppiato il pandemonio.
Victor Kozinski sorrise. Sapere di aver dato una mano a mettere in piedi una cosa del genere era davvero gratificante.
Gestire un traffico di informazioni come quello che possedeva era un privilegio niente male, ma alle volte poteva ritorcersi contro chi se ne serviva in maniera implacabile.
Così l’FBI, che si era rivolta alla sua agenzia il mese scorso per ottenere informazioni, dimostrandosi una cliente disposta a sborsare somme decisamente considerevoli, aveva appena imparato a proprie spese questa piccola lezione di realtà.

LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 9
L’ESERCITO DEGLI STATI UNITI

Greg Donington lasciò sua moglie Susi e il piccolo figlio Brett in soggiorno, seduti sul divano ad attendere il suo ritorno, e uscì in veranda per dare un’occhiata fuori.
Il cielo non era per niente sgombro, quella mattina. Si presentava sporco, come se la luce del sole fosse di colpo divenuta più opaca, e forse era a causa delle nuvole che si spostavano tranquille nell’aria, alla stregua di una flotta di navi fantasma con le vele spiegate.
Gregory portava una pistola nascosta sotto la camicia, pronta per essere armata in meno di quattro secondi in caso di estrema necessità. Era a questo che li preparavano alla CIA: a prevedere qualunque genere di intoppo e ad essere sempre pronti, in ogni momento, a doversi difendere. Peccato che Eglon non fosse un agente della CIA, considerò Greg, invece che una qualunque città americana: si sarebbe potuta opporre a quell’occupazione improvvisa, e magari sarebbe anche stata capace di respingere gli assalitori.
Respingere decine e decine di uomini scortati da carri armati? No, nessuna città avrebbe potuto farlo. Questa correzione gli suonò piuttosto sinistra. Significava, con ogni probabilità, che forse i terroristi avrebbero potuto ambire a una città più grande. Ma allora perché avevano scelto la piccola Eglon? Per quale motivo si erano limitati a quel tranquillo centro abitato incastonato nella campagna?
Uscì dalla sua abitazione con la pistola a pochi centimetri dalle punte delle dita, teso come una corda di violino ma pronto a fare la propria parte in caso si fosse rivelato indispensabile. C’era un cadavere nel suo studio, riverso sul pavimento, e doveva assicurarsi di avere il tempo materiale per lavare via il sangue e far sparire il corpo prima che qualcuno lo venisse a cercare.
Se avevano mirato immediatamente a lui, quella notte, significava che sapevano della sua presenza e avevano il suo nominativo e i suoi dati. Come fosse possibile, Greg non avrebbe saputo dirlo. L’unica spiegazione plausibile era che ci fosse una talpa negli alti vertici della CIA. Quella stessa talpa senza volto e senza nome che era sospettata da ben tre mesi di aver collaborato con la rete terroristica per rovesciare il governo statunitense con un repentino e inderogabile attacco diretto.
Adesso, ad ogni modo, la priorità era la sua famiglia. Doveva mettere al sicuro Susi e Brett, e accertarsi che non potessero essere raggiunti. Se lui si trovava sulla lista nera, la sua casa non era ovviamente più un posto sicuro.
Superò la veranda e silenziosamente passò sul lato della casa che dava verso ovest, facendo strisciare il palmo della mano sulla superficie porosa della parete e muovendo la testa per guardarsi attorno, così rapidamente da somigliare a un epilettico intrappolato all’interno di una discoteca.
Percepì un fruscio tra le foglie di un cespuglio oltre lo steccato, e puntando lo sguardo da quella parte intravide la coda di un gatto che si strofinava pigramente sulle assicelle di legno. Dalla bestiola non poteva venire alcun pericolo, valutò. Ma dall’uomo con la maschera sulla faccia all’angolo della strada, oltre la casa dei McRyer, probabilmente sì. Specialmente visto e considerato che imbracciava un’arma da fuoco che da quella distanza avrebbe potuto essere una carabina, ma anche una mitragliatrice.
Non era prudente stare allo scoperto, perciò Greg passò sul retro della casa e superando il lato est raggiunse nuovamente la veranda e tornò dentro.
«Che cosa succede?» pigolò Susi vedendolo entrare con un’espressione pensierosa in volto.
«Nulla, sta’ tranquilla. Penso sia meglio che tu e Brett veniate con me giù in cantina, però. Voglio sapervi al sicuro mentre svolgo le mie ricognizioni» considerò a voce alta Greg, rimuginando nel frattempo sull’uomo armato con il volto coperto che sembrava essere stato messo là fuori di proposito per sorvegliare la loro abitazione.
«Siamo in pericolo?» balbettò Susi, irrequieta. Gli occhi le erano divenuti lucidi un’altra volta. Aveva bisogno di dormire, perché la notte era stata impietosa con lei. Troppe emozioni tutte assieme. Non era salutare, e Gregory lo sapeva meglio di chiunque altro a Eglon.
«Tutta la città è in pericolo, Susi. Ma forse possiamo evitare di mischiarci con gli altri in questa brutta storia…» spiegò pazientemente Greg, avviandosi in direzione delle scale che portavano nel seminterrato.
Bisognava ragionare sul quadro complessivo, tutto qui. E per adesso Gregory non aveva che pochi frammenti dello sterminato puzzle a propria disposizione. Doveva ricomporre l’immagine nel dettaglio, dai margini verso il centro, per capire come muoversi. E farlo con l’ansia che potesse capitare qualcosa alla sua famiglia non sarebbe stato di certo facile.
Si trovava in contatto con i suoi superiori, nel momento in cui le comunicazioni erano saltate. Con tutta probabilità erano stati i terroristi a bloccare il segnale del suo computer, tagliando ogni genere di linea e oscurando il campo con dei jammer parecchio potenti.
Non aveva fatto in tempo a comunicare all’esterno quello che stava succedendo, ma gli ultimi dati che aveva scaricato erano piuttosto sospetti. Gli avevano inviato dei rapporti riguardanti un carico di armi misteriosamente scomparso mentre era in viaggio su di un aereo diretto in Afghanistan. Questo era avvenuto circa tre settimane prima, ma il fatto era stato sottovalutato. Il container era stato svuotato mentre l’aereo faceva scalo in Germania per il rifornimento. Chiunque avesse fatto sparire quelle armi, di sicuro sapeva muoversi bene.
Forse si trattava delle stesse armi che stavano adoperando quegli uomini là fuori, terroristi, rivoluzionari o qualunque altra cosa fossero. O forse era soltanto una coincidenza che la CIA aveva deciso di prendere in esame comunque, anche se non c’entrava nulla con quello che già si sapeva… Ad ogni modo, non aveva avuto il tempo di chiederlo. La comunicazione era saltata, e dopo gli spari e le esplosioni Greg era riuscito soltanto ad ascoltare quella voce che parlava alla città da Dio solo sapeva quale angolo di Main Street, amplificata da un megafono. Aveva intravisto un carro armato dalla finestra dello studio e aveva ascoltato le parole pronunciate da quella voce, prima di doversi difendere da un sicario che era penetrato in casa sua fingendo di essere un agente dell’FBI.
I conti non tornavano un granché, ma aveva pur sempre qualche elemento sul quale soffermarsi. E questo, alle volte, era già tanto e doveva bastare per ricostruire le dinamiche di un evento di simili proporzioni, che avrebbe provocato ripercussioni inimmaginabili.
Dagli spari e dalle voci che aveva udito attraverso le pareti troppo sottili di casa, Greg aveva intuito che c’era stata una piccola scaramuccia tra la polizia di Eglon e quei misteriosi ribelli armati. E che naturalmente a vincere erano stati questi ultimi.
Poi aveva udito l’ultimo messaggio dei terroristi, quello che avvisava la popolazione dell’arrivo dell’esercito. E se davvero stavano mettendo in piedi una barricata attorno a tutta la città, allora voleva dire che erano in guai seri. Tutti quanti loro, perché una barricata non serviva soltanto a impedire l’accesso a chi si trovava fuori: funzionava anche dall’altra parte, per bloccare efficacemente chiunque volesse uscire.
E nessuno avrebbe mosso un dito per distruggere quella barriera, perché altrimenti sarebbero state messe a rischio le vite di innocenti civili americani.
Proprio un bel casino, rifletté Greg mentre spalancava la porta della cantina e spostava uno degli scaffali che Susi aveva destinato alle coperte dismesse e agli scatoloni ancora pieni della roba che dopo il trasloco non avevano più avuto il coraggio di tirare fuori.
Comparve una porta, dietro lo scaffale, incassata nella parete. Susi la riconobbe e strabuzzò gli occhi. «A che cosa ti serve il locale della vecchia caldaia? Sarà pieno di ragni e di topi! Chissà quant’è sporco, dopo tutto questo tempo!» protestò, leggermente spaesata. Dopo aver comprato la casa avevano installato una nuova caldaia nel sottoscala che collegava l’ingresso al garage, perciò lo stanzino che conteneva quella vecchia era stato chiuso e lasciato alla polvere in via definitiva.
Gregory aprì la porta e dietro di essa ne apparve un’altra, spessa e robusta, apparentemente costituita da un unico blocco di acciaio cromato. Si sfilò una piccola chiave dal portafoglio che teneva nella tasca posteriore dei pantaloni e la inserì nella toppa, facendole fare otto giri veloci.
Spalancò un varco in una sala ampia e fresca che odorava di pulito. Accese le luci al neon ed entrò.
Susi lo seguì, guardandosi attorno allibita. Ecco che cosa faceva Greg, l’anno scorso, quando passava tutte quelle interminabili ore giù nel seminterrato dicendo di voler dare un’occhiata alle scatole di cianfrusaglie che si erano portati dalla casa vecchia. Un mistero fino ad allora privo di risoluzione le era appena stato dipanato sotto gli occhi.
«Qui staremo al sicuro per un po’» mormorò Greg, e le sorrise.

«State qui e non vi muovete, mi raccomando!» ordinò il vicesceriffo Wieler al suo gruppo di poliziotti. Aveva indossato dei comuni abiti civili e assieme a Jeremy Barton e Brian Jones era pronto per uscire a dare un’occhiata alle nuove barricate allestite lungo il perimetro della città. Intendevano farsi un’idea più precisa della situazione, e verificare in che stato versasse la popolazione ora che la minaccia di uno scontro armato incombeva sull’intera Eglon.
«Non si preoccupi, staremo buoni» promise Phil, il poliziotto che viveva nella casa in cui si erano rifugiati durante la notte.
La moglie e i figli di Phil erano di sopra, nella sua camera da letto, e Phil aveva detto loro di non preoccuparsi perché con tutti quei poliziotti fra i piedi sarebbero stati al sicuro. I bambini erano piccoli, e la moglie di Phil era parsa parecchio inquieta. Aveva annuito ed era scomparsa su per le scale, lasciando un mezzo sorriso sospeso sul viso stanco del marito.
Jeremy aveva guardato Phil con un pizzico di invidia. Doveva ammetterlo, aveva sempre invidiato un pochino il buon vecchio Phil. Con la sua bella moglie, i suoi due figli sani, la sua casa e la sua utilitaria, la pizza il venerdì sera e il sushi di sabato, tutti quei piccoli riti famigliari che a lui mancavano e sui quali Phil poteva invece contare ogni santo giorno. Però c’erano anche dei contro, giusto? Ma allora perché Jeremy non era capace di trovarli? Eh?
«Non avvicinatevi neppure alle finestre. Per ora sono impegnati a lavorare alle barricate attorno alla città, ma non è escluso che qualcuno sia stato messo sulle nostre tracce. E la prima cosa che faranno sarà setacciare le nostre case» proseguì il vicesceriffo Wieler con fare autoritario.
«Con tutto il rispetto, correte molti più rischi di noi: siete armati, e là fuori non sappiamo di preciso che cosa ci possa essere. Hanno parlato di pena di morte, stanotte…» rammentò Gary, un altro dei loro colleghi, lievemente impaurito.
«Ne sono consapevole. Ma dobbiamo farlo. Ci occorrono informazioni, e l’unica maniera in cui possiamo raccoglierle è questa. Dobbiamo uscire. Se è vero che hanno tutti i nomi dei poliziotti della città, come Jeremy dice di aver capito dagli aggressori che lo hanno fermato stanotte, significa che ciascuno di noi è in gravissimo pericolo…»
«Vicesceriffo Wieler, dobbiamo andare. Sento degli elicotteri» lo interruppe Brian Jones con aristocratica affabilità, e Patrick Wieler si zittì e acconsentì con un muto cenno del capo.
«Fate attenzione. Tornate tutti interi» li ammonì Phil, e la porta si chiuse sulla sua espressione agitata mentre Jeremy, Brian e Patrick uscivano nell’aria tiepida della domenica mattina.

Sarah si era finalmente svegliata, e anche i loro figli Michael e Christine si erano tirati su dal letto. Ora stavano facendo colazione. Sarah beveva il caffè che le aveva preparato Robert, e i bambini inzuppavano cereali in capienti tazze di latte riscaldato.
Se ne stavano tutti in silenzio. Non tanto perché era una cosa alquanto insolita – per non dire assurda – avere Stan seduto con loro al tavolo della colazione, quanto piuttosto perché tutti cercavano di tendere l’orecchio verso l’esterno e ascoltare i rumori della città.
Stan osservò il viso della sua ex moglie scomparire per qualche istante dietro l’orlo della tazza di caffè fumante che Robert le aveva appena preparato. Sembrava tranquilla, quasi che quella notte, per lei, non fosse successo niente.
Chissà che cosa ricordava, di preciso. Magari l’ansia le aveva fatto credere che si fosse trattato di un incubo. Ma allora come si spiegava la sua presenza , in quella casa che non era più esattamente proprietà di Stan e Sarah Payton, ma che ora si limitava ad essere un’esclusiva della sola Sarah Keller, chiaramente condivisa con Robert Schullman?
«Papà resta qui con noi anche a pranzo, oggi?» domandò Michael rompendo il silenzio, speranzoso. Christine, più grandicella e quindi decisamente più accorta, gli scoccò un’occhiataccia.
«Non lo so, amore. Poi vediamo» minimizzò Sarah con un’alzata di spalle, sparendo nuovamente dietro il bordo bianco della tazza del caffè nel quale il suo viso sembrava quasi volersi immergere e sprofondare.
Stan ricordava fin troppo bene la freddezza che Sarah gli trasmetteva da quando si erano separati. Non che prima del divorzio fosse molto più mite, comunque. Era da un pezzo che lo trattava in maniera distaccata. Flemmatica, in un certo senso. Quasi che non le importasse assolutamente nulla, che il fatto che lui ci fosse non le facesse né caldo né freddo.
Avevano litigato spesso, negli ultimi mesi, questo era vero. Ma non ricordava di averle mai rivolto uno sguardo gelido come quello che tante volte aveva ricevuto da lei. E sinceramente gli dispiaceva soprattutto per questo. Perché, in fondo, anche se non andavano d’accordo aveva sempre cercato di trattarla bene. E a lei, invece, non interessava un fico secco. Segno che non lo amava già da diverso tempo prima del loro divorzio, o almeno queste erano le conclusioni alle quali Stan si era visto costretto a giungere dopo un po’ di paziente autoanalisi.
Per qualche settimana aveva continuato a girare con la scritta sono un coglione certificato stampigliata in faccia, laddove tutti la potessero vedere. Dopodiché, piano piano, aveva incominciato a riprendersi. Piccolo particolare, però: non aveva ancora finito. La strada da percorrere era ancora lunga, e non sarebbe stato facile arrivare al capolinea. Mentre Sarah, a quanto pareva, se l’era lasciato alle spalle piuttosto in fretta…
«Stan, forse dovremmo uscire a dare un’occhiata a quelle barricate più tardi. Che cosa ne dici?» propose Robert con una certa dose di titubanza.
Sarah non alzò neppure gli occhi.
«Sono d’accordo» bofonchiò Stan, facendo attenzione a non risvegliare le ire apparentemente assopite della sua ex moglie che li ascoltava con falsa noncuranza. «Almeno potremo parlare con qualcuno e reperire qualche informazione in più.»
«Direi che ora come ora non c’è niente di meglio da fare» approvò Robert guardando fuori dalla finestra della cucina.
Si intravedeva uno scorcio di Main Street, da lì. C’era parecchia gente che passava, trafficando da un marciapiede all’altro. Poche automobili. Niente carri armati, ma probabilmente perché adesso si trovavano tutti quanti disposti lungo il confine cittadino.
Chissà quanti ce n’erano, di quei terrificanti mezzi corazzati in giro per Eglon…
«Lo sentite anche voi?» proruppe Sarah sottovoce alzando il viso dalla tazza del caffè, fissando attonita il soffitto come se le potesse crollare addosso da un istante all’altro.
«Che cosa?» volle sapere Robert, ponendosi a sua volta in ascolto.
Il silenzio si asserragliò addosso a loro, sudando sulla loro pelle e impregnando le loro menti. Sotto di esso, come il retrogusto misterioso di un piatto troppo speziato, c’era un rumore di fondo che pareva quasi un borbottio soffuso. Un ronzio lontano, che non poteva essere provocato da nulla di naturale. Era troppo sinistro, sordo e ridondante per essere qualcosa di animalesco. No, era il rumore di ingranaggi che sferragliavano e di metallo che martellava contro altro metallo. Rumore di aria che veniva spezzettata e sfilacciata.
«Elicotteri…» barbugliò cupamente Stan, e sui volti di Sarah e Robert si distese una limpida espressione di inaspettata consapevolezza.
«Bambini, andate di sopra» ordinò senza indugio Sarah, alzandosi da tavola e recandosi alla finestra, scostando le tende e affacciandosi al vetro minuziosamente pulito.
«Sono elicotteri dell’Esercito» precisò Robert raggiungendola e cingendole la vita con un braccio. Stan finse di non notare quest’ultimo gesto e si proiettò direttamente verso l’ingresso, spalancando la porta e uscendo sul vialetto di casa come aveva fatto la notte precedente quando aveva visto d’un tratto comparire una colonna di carri armati al centro di Main Street.
La gente in strada aveva sollevato gli occhi al cielo. Stan imitò le persone che gli stavano intorno, e individuò immediatamente tre elicotteri dell’Esercito statunitense che sorvolavano la città in un’aria tiepida e stagnante, stagliandosi contro le ombre frastagliate delle nuvole grigie.
«Mio Dio, avevano ragione, è arrivato l’Esercito…» gorgogliò una donna in piedi in mezzo al giardino di fianco a quello in cui si trovava Stan. Era la signora Newell, la sua ex vicina di casa, e Stan la riconobbe per via dei capelli lunghi e bianchi tenuti insieme in una coda di cavallo. Sembrava sconvolta, oltre che impaurita. Suo marito Sam doveva essere in casa a protestare per la mancanza del segnale televisivo, quasi sicuramente.
Stan notò la presenza di uno degli uomini con la maschera che piantonava la via dall’angolo di un condominio sull’altro lato della strada.
Un altro tizio con un fucile in mano, poco più avanti, indossava bandana nera e occhiali da sole e se ne stava fermo in piedi di fronte alla drogheria di Tommy Carlsson. Si guardava attorno con fare disinteressato, mentre tre Black Hawk solcavano il cielo di Eglon fendendo l’aria in tutta tranquillità e riverberando per le vie il proprio tetro ruggito di battaglia.
Erano in ricognizione, naturalmente. Stavano facendo un giro di perlustrazione per analizzare la situazione e localizzare i punti critici, quelli in cui si erano radunati i terroristi che avevano preso la città nell’arco di una sola notte.
Non potevano ricevere informazioni da chi si trovava all’interno della città, considerò Stan fra sé e sé, perciò stavano cercando di raccogliere tutti i dati possibili, casomai si fosse reso necessario sferrare un attacco repentino contro le forze rivoluzionarie.
L’Esercito doveva aver preso posizione all’esterno del perimetro della città, oltre le barricate di fortuna che i ribelli avevano messo in piedi. Dovevano avere mezzi corazzati, fanteria ed equipaggiamento adatti a stringere un assedio. E d’altro canto come avrebbe potuto resistere la piccola Eglon nel caso in cui fosse stata assediata?
I Black Hawk sorvolavano pigramente l’intera zona, senza fretta.
Ormai dovevano aver raccolto un quadro più o meno completo della situazione, e probabilmente avevano anche già individuato i carri armati usati dai rivoluzionari per conquistare la città. Aspettavano un ordine. Un ordine che li autorizzasse ad aprire il fuoco. E prima di tutto si sarebbero dovute valutare le potenziali ripercussioni sui civili, perché il rischio di ammazzare gente innocente era decisamente alto.
Il velivolo in testa al terzetto era quasi giunto all’altezza della Eglon Tower, quando un sibilo sgradevole – più che sgradevole, diciamo pure destabilizzante – squarciò l’uniformità del ronzio prodotto dalle eliche degli elicotteri.
Una scia di fumo nero graffiò profondamente l’orizzonte, generando un taglio che si cicatrizzò piuttosto rapidamente.
Stan osservò sbalordito il Black Hawk esplodere come un palloncino giunto a contatto con una stufa a legna spinta a massimo regime. Una sfera di fuoco azzurrognolo se lo divorò tranquillamente. Il velivolo virò pericolosamente verso destra nel suo ultimo tentativo di sopravvivere, simile a un uccello sfuggito da un rogo con le piume ancora sfrigolanti di fiamme, e andò a cozzare contro il secondo elicottero della fila che nel frattempo cercava invano di togliersi di mezzo prima che fosse troppo tardi.
I due Black Hawk precipitarono assieme, abbracciati in un ultimo spasmo fatale e incatenati assieme dal metallo che si incastrava, si fondeva e si saldava tra le vampate. Stan Payton li vide cadere come angeli respinti dal Cielo da parte di un Dio per nulla misericordioso, le ali tarpate e i volti scarnificati tesi in un macabro ghigno di dolore.
Andarono a schiantarsi contro la facciata di un palazzo che Stan sapeva ospitare un’interminabile serie di uffici. Era domenica, e forse non c’era nessuno in quel palazzo. Ma di sicuro ai piloti degli elicotteri non doveva essere capitata in mano una carta altrettanto fortunata.
Le vetrate dell’edificio si infransero e crollarono a terra, parte del cemento armato si inabissò all’interno dei piani contro i quali i due Black Hawk avevano esaurito la loro breve ricognizione.
Il terzo elicottero accelerò l’andatura per scomparire il più velocemente possibile, ma un altro sibilo invase le orecchie degli abitanti di Eglon e il secondo missile partì senza esitazione dalla cima della Eglon Tower.
Il velivolo perse quota, piroettò su se stesso, si accartocciò tra le fiamme e infine rovinò a lato di Main Street, abbattendo il fianco di una pacifica villetta a schiera e il tetto di un negozio di ferramenta le cui porte guizzarono in mezzo alla strada.
«Hai visto??»
«Cristo santo!»
Stan neppure percepì i mormorii della folla che correva spaesata per le vie secondarie che si dipartivano da Main Street. Rimase semplicemente immobile a fissare il punto in cui il terzo elicottero militare Black Hawk era precipitato, dal quale si levava una colonna di fumo denso e nerastro che saliva a congiungersi in alto alle nubi.
Buon undici settembre, America.
Era arrivato l’Esercito degli Stati Uniti.

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