lunedì 10 novembre 2014

Le Anime di Eglon - Prima Stagione - Episodio 6

Melanie Winget si allacciò le cinture, come era stato appena annunciato di fare, e si lasciò uscire dalle labbra un sospiro nervoso nel vano tentativo di far sbollire l’agitazione.
Volare la rendeva sempre molto tesa, per questo cercava di evitarlo il più possibile. Ma alle volte non c’era scelta: quando bisognava percorrere centinaia di chilometri per raggiungere un’altra città, l’aereo era il mezzo più pratico e rapido con il quale spostarsi.
Avere i genitori nell’Oregon, poi, e abitare in Arkansas era decisamente scomodo. Si poteva adoperare anche il treno, certo, ma prendere tutte le coincidenze e sopportare interminabili ore di viaggio seduti in cabine strette e affollate faceva andare fuori di testa. E a Melanie, per essere del tutto onesta, dava più fastidio dover condividere un compartimento del treno con altre cinque persone che l’interno di un intero aeroplano con circa duecento passeggeri. Era strano, d’accordo, ma tra le due opzioni prediligeva la seconda.
Si accese la spia che ordinava di allacciarsi le cinture, spegnere tutti gli apparecchi elettronici e, di conseguenza, prepararsi all’atterraggio. Melanie gettò un’occhiata al proprio cellulare e lo trovò diligentemente spento. Bene, pensò. Abbassare gli occhi a questo punto del viaggio mi fa venire la nausea, e almeno non devo stare a smanettare con il telefonino durante tutto l’atterraggio.
Appoggiò gli avambracci agli appositi braccioli posti a lato del sedile e chiuse gli occhi, inspirando ed espirando profondamente.
Accanto a lei stava seduto un tipo dall’aria annoiata, lineamenti asiatici e abiti costosi. Reggeva in mano un palmare e quando Melanie riaprì gli occhi per sogguardare i sedili adiacenti mentre iniziava la manovra di atterraggio lo stava ancora utilizzando. Melanie strabuzzò gli occhi, atterrita. Se l’aereo precipita per colpa tua, Jackie Chan, e per colpa di quel tuo stupido palmare, giuro che ti vengo a cercare all’inferno e ti faccio desiderare di non essere mai morto!
«Il pilota del volo 185 della US Airways vi invita a rimanere seduti con le cinture allacciate fino alla fine della manovra di atterraggio. È prevista una certa turbolenza a causa del banco di nuvole che sovrasta la città, e abbiamo qualche problema a contattare la torre di controllo. Ci saranno un po’ di scossoni, ma l’atterraggio avverrà ugualmente in tutta sicurezza» comunicò una voce che Melanie valutò essere troppo calma alla luce delle considerazioni appena espresse. Ci mancava solo questa, pensò la ragazza, e scrutando torvamente il palmare di Jackie Chan si domandò se fosse a causa di quello che il pilota faticava a mettersi in contatto con la torre di controllo.
L’aereo scendeva piuttosto rapidamente, e Melanie sentiva la forza di gravità attrarla prepotentemente in direzione del suolo. Ci schianteremo, rifletté in un attimo di disagio avvertendo un violento scossone e intravedendo le fitte nubi che circondavano il finestrino oltre il profilo scuro e concentrato di Jackie Chan.
Un altro tremito spaventoso, come se l’aereo tentasse di scrollarsi di dosso l’umidità che la nebbia gli stava depositando sopra. Melanie trattenne un gridolino, sussurrando tra sé e sé che andava tutto bene e che la prossima volta, accidenti, si sarebbe sorbita le infinite ore di treno che separavano Eglon da Portland piuttosto che salire di nuovo su uno di quei…
L’ala sinistra del volo 185 della US Airways, quella cioè che si poteva scorgere attraverso il finestrino della fila nella quale si trovavano Melanie e Jackie Chan, fu colpita all’improvviso da qualcosa ed esplose fragorosamente, facendo assumere all’aereo un assetto di caduta più o meno verticale che lo rese identico a una fenice in fiamme in procinto di precipitare in un pozzo nero di follia.

LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 6
LA BATTAGLIA

Una scia fiammeggiante graffiò il cielo scuro e raggrumato di nuvole, annullando la sua incorruttibile uniformità e mostrandolo per quello che era: un banalissimo sfondo alle vicende che stavano trasformando Eglon da una qualunque città americana in uno dei luoghi più terrificanti del mondo.
Erano le tre di notte quando un aereo precipitò in lontananza, avvolto dal fumo denso e cupo che ancora si levava dai dintorni del terminal aeroportuale di Eglon. Alcuni cittadini alle finestre lo notarono. Altri, per le strade, lo additarono in silenzio, con un’espressione di muto raccapriccio stampigliata in volto. Stan Payton si limitò a osservare la sua parabola discendente tramutarsi in una picchiata verticale, e quando il fumo delle esplosioni lo ebbe trangugiato fu lieto di non essere costretto ad assistere all’impatto.
Ma per adesso c’erano altre cose ben più importanti alle quali dedicare la propria attenzione. Come ad esempio il carro armato che era tornato a Main Street da chissà dove per supportare la linea di uomini mascherati, pronti a sbaragliare il manipolo di poliziotti intervenuto a riportare l’ordine in una città oramai irrimediabilmente stramazzata nel caos.
La tensione era palpabile, e Stan era uscito in strada per assistere allo scontro, seguito da Robert. Si tenevano a debita distanza, dietro una siepe. Main Street si era repentinamente svuotata dopo l’arrivo della polizia, la gente era sciamata nelle proprie abitazioni e l’aria fresca della notte si era fatta di colpo più rigida e dannatamente rarefatta. Adesso i lampioni illuminavano tratti di asfalto buio attorno alle due schiere contrapposte di uomini che si scrutavano e si studiavano e si davano battaglia con gli sguardi prima di cominciare a fare pressione sui grilletti.
A Stan la scena ricordò vagamente alcune sequenze di vecchi film western che vedeva quand’era ragazzo. C’era il gruppo di poliziotti, capitanato dallo sceriffo che in questo caso era impersonato da Jason Krain, e c’era la banda di fuorilegge, rappresentata dagli uomini con i volti coperti che nel giro di qualche ora avevano preso la città. Solo che i cattivi superavano di gran lunga i buoni, in quanto a numeri, e un carro armato dalla parte dei primi faceva pendere ulteriormente la bilancia dalla loro parte.
Stan sapeva che di lì a poco sarebbe scoppiato il finimondo. Voleva stare a vedere che cosa sarebbe successo, e cercare di capirci qualcosa di più. Chissà, magari dallo scontro sarebbe emerso qualche dettaglio che avrebbe potuto portarlo a comprendere appieno ciò che stava capitando.
Una figura avanzò tra gli uomini in maschera. Indossava un elmetto da militare, e portava una mitragliatrice a tracolla. Vestiva scarponi pesanti da soldato e una divisa mimetica senza diciture né stemmi. Sembrava disporre di un fisico piuttosto solido, atletico e muscoloso. La maschera blu che gli copriva la faccia, la stessa che era apparsa sullo schermo della Eglon Tower durante l’annuncio della rivoluzione, era facilmente riconoscibile.
Uno dei suoi compagni gli passò il classico megafono e lui, con la solita voce atona di prima, mormorò: «Vicesceriffo Jason Krain, non ci aspettavamo un confronto diretto proprio qui, su Main Street, così presto. Credevamo avreste avuto il buonsenso di organizzarvi e intervenire con più uomini. Ne conto una ventina di voi, in questo momento, sbaglio?»
Il vicesceriffo Krain non rispose. Tirò su col naso e si tenne in fila accanto ai propri uomini, tutti visibilmente scossi e poco propensi a sparare in mezzo a Main Street contro quei tipi senza volto, le cui spalle erano costantemente coperte dall’inquietante e perentoria presenza di un carro armato.
«Bene, se non altro sarà una cosa breve…» concluse l’uomo con l’elmetto da soldato e la maschera blu sul viso. La sua voce sembrava finta, registrata, come quella di una segreteria telefonica. Non fosse stato per le sue labbra che si muovevano visibilmente dietro l’apposita fessura sulla superficie liscia della maschera, Stan avrebbe detto che al megafono doveva esserci collegato un nastro o roba simile.
«Che cosa volete da Eglon? Perché state facendo tutto questo?» volle sapere Jason Krain. Le parole gli uscirono tutte assieme, incollate, senza pause tra l’una e l’altra. ChecosavoletedaEglon? Deglutì a vuoto, subito dopo, e sbatté forte le palpebre come colto da un improvviso tic nervoso.
«Mi sembrava di essere stato abbastanza chiaro: questa è una rivoluzione, vicesceriffo Krain. Una rivoluzione che scuoterà le fondamenta dell’Occidente con la propria dirompente potenza. I cittadini di Eglon sono stati chiamati a entrare a far parte della Storia, partecipando al più grande avvenimento del nuovo millennio. Dopo Eglon, il mondo si inginocchierà. Dopo le atrocità di questo secondo undici settembre, l’Occidente si piegherà.»
«Che cosa avete intenzione di fare?» pigolò il vicesceriffo Krain con un filo di voce, e ogni rimasuglio della sicurezza che aveva dimostrato quando era uscito con i suoi uomini da Neighbour Street, annunciando la liberazione della città, fu spazzato via definitivamente.
«Che cosa faremo, vorrà dire. Lanceremo un messaggio agli Stati Uniti che arriverà forte e chiaro, e che riecheggerà in Europa, in Asia, in tutti i continenti e le nazioni del globo. La città di Eglon verrà tagliata fuori dal resto del mondo per sempre, e questo servirà a dimostrare la nostra potenza e le nostre reali possibilità, la nostra capacità di prendere una città qualunque, per quanto libera e sicura possa sembrare, e di strapparla all’umanità con un unico strattone. Nessuno riuscirà più a riconquistare Eglon, né tantomeno a sedare questa nostra rivolta. Perché nessuno avrà il coraggio di fare fuoco contro di noi, finché ci saranno civili innocenti in ogni palazzo circostante.
«Nessun missile verrà lanciato, nessuna bomba sarà sganciata, nessun proiettile fenderà l’aria di Eglon giungendo dall’esterno. E noi potremo combattere da qui, senza il timore di essere attaccati, perché gli Stati Uniti e il mondo non potrebbero mai approvare un attacco a una città con oltre quarantamila americani, rischiando le loro vite per estinguere una rivoluzione» spiegò l’uomo mascherato in testa al gruppo di ribelli senza volto, e stavolta la sua voce tradì una minuscola, quasi impercettibile inflessione: un moto di felicità che non fu capace di soffocare del tutto.
«Oh Cristo santo, vogliono usarci come ostaggi…» bisbigliò Robert terrorizzato, agguantando la spalla di Stan come se potesse aggrapparvisi per non ricadere in quello scenario e in quella realtà spettrali.
«No, peggio…» lo contraddisse Stan con voce piatta e misurata. «Vogliono usarci come scudi umani

La notte era particolarmente fredda e buia, e le stelle erano state ricoperte da un denso drappo di nuvole grigie che rendeva vano ogni tentativo di scorgerle. Per le strade laterali come Fullgray Avenue passava poca gente, e praticamente ogni incrocio era piantonato da uno di quei furgoni blindati con tre o quattro uomini mascherati attorno, tutti tassativamente armati. Daniel Green provò ad aggirare uno di quei furgoni passando per il giardino di una villetta a schiera, ma al posto della staccionata c’era una siepe alta due metri, sull’altro lato, e gli fu impossibile superarla.
Tornò indietro e rallentò l’andatura, nascondendo meglio la pistola di suo padre sotto la maglietta e transitando senza dare nell’occhio accanto a un brutto ceffo con bandana colorata sulla bocca e capelli nascosti dietro un berretto scuro.
Vide un uomo sui quarant’anni affacciarsi a una finestra e rientrare immediatamente, chiudendo il vetro e abbassando la persiana. Notò un paio di tizi, in fondo a Fullgray Avenue, confabulare sotto la luce di un lampione, a debita distanza dal furgone blindato che sorvegliava la via un centinaio di metri più in là. Una donna che veniva sospinta via da uno dei ribelli mascherati, chissà per quale motivo. Per il resto, solo la cupa penombra di un’oscurità troppo intensa per essere efficacemente fugata dal brillio dei lampioni.
Rabbrividì, proseguendo. Non poteva fermarsi, non ancora. Il municipio era lontano, e di quel passo avrebbe impiegato una buona mezz’ora a raggiungerlo. Senza contare che non era certo di riuscire a passare per Main Street senza essere bloccato. Se lì la situazione era così, non osava immaginare come potesse essere lungo la strada principale della città, dove con ogni probabilità il nemico aveva concentrato la maggior parte dei suoi mezzi…
Lanciò uno sguardo di sfuggita all’aereo che precipitò sull’orizzonte, nei pressi dell’aeroporto cittadino. Non era un problema di primo piano, per il momento. Era gente che moriva, questo è vero, e Daniel lasciò un pensiero anche per loro. Ma se non si faceva qualcosa al più presto, forse a breve sarebbero morte molte più persone. E non poteva permettersi di accettare una cosa simile.
«Ascolti, l’unica cosa che voglio è raggiungere Pine Bluff per dieci minuti. Vorrei avvisare la mia famiglia, capisce? Vorrei dire loro che sto bene, e poi potrei ritornare indietro prima delle sei di domattina…» stava implorando una ragazza all’altro lato della strada, parlando con un gruppo di tre uomini dal volto coperto che occupavano il marciapiede.
«No, è escluso. Le strade sono state bloccate, e per le sei saranno già tutte impraticabili. Nessuno esce dalla città, né ora, né mai più» proibì uno dei ribelli, categorico e inappellabile.
«Chiedo solo dieci minuti, dieci minuti e poi ritorno, promesso!» insistette la ragazza con la voce incrinata da un pianto imminente, e il tipo al quale si rivolgeva sollevò la canna del fucile che teneva tra le mani e la puntò verso di lei, con un gesto talmente naturale da non lasciare intendere alcuna minaccia, bensì soltanto un’unica promessa.
«Che cosa non ti è chiaro? Sentiamo, sono curioso di saperlo!» proruppe l’uomo con la bandana colorata facendosi tamburellare l’estremità di una spranga di metallo nella mano libera.
«Io…» cercò di difendersi la ragazza, ma il terzo del gruppo la spintonò assestandole una pacca sulla spalla e nel frattempo le spianò contro un revolver con la sicura disinserita.
«Ehi, piano, fermi!» intervenne Daniel, non potendo sopportare oltre la vista della scena. Si fece avanti e raggiunse il piccolo gruppetto, allontanando la ragazza con un braccio e tenendo l’altra mano aperta in direzione dei ribelli armati, come per mostrare loro che non aveva cattive intenzioni.
«E tu che vuoi?» lo apostrofò quello con il fucile puntato, producendo una smorfia.
«Di che ti impicci, ragazzo?» lo riprese quello con la spranga di ferro in pugno, avvicinandosi con aria di sfida, apparentemente pronto ad attaccar briga.
«Tranquillo, tranquillo. Tutto a posto. C’è stato solo un malinteso» replicò con calma Daniel, indietreggiando ancora un po’ e fermandosi sul margine del marciapiede.
«La ragazza è con te?»
«Sì, era con me un attimo fa. È mia sorella. Si è fatta prendere dal panico ed è partita di corsa, e non sono riuscito a starle dietro. È solo spaventata e spaesata, tutto qui. Non intendeva darvi noie.»
«Be’, vedi di farle capire che di qui non si esce. Chi si trova a Eglon ci rimarrà per molto, molto tempo. Nessuno va fuori» ribadì seccamente il tizio con la spranga.
«D’accordo. Grazie» acconsentì Daniel. Cinse la vita della ragazza con un braccio e la spinse via, accompagnandola e facendole segno di non fiatare. Si allontanarono in silenzio, senza dare troppo nell’occhio, e si infilarono in un vicolo relativamente sicuro dove finalmente Daniel si concesse un sospiro di sollievo che gli attenuò la tensione.
«Ti ringrazio…» mormorò la ragazza un po’ a disagio. Le luccicavano delle lacrime, agli angoli degli occhi, e Daniel non poté fare a meno di notarle.
«Figurati, è stato un piacere. Ma devi stare attenta. Non puoi andare in giro a fare così. Rischiavi di venire aggredita, se non ammazzata» la rimproverò cortesemente Daniel.
«Lo so… e mi dispiace… è solo che i miei genitori sono a Pine Bluff, e io ero qui con mio cugino ma lui è sparito, e così mi chiedevo se ci fosse modo di tornare a casa… e di non rimanere invischiata in questa faccenda con la quale non c’entro nulla, solamente perché stasera ho avuto la brutta idea di venire a Eglon…» sussurrò la ragazza, con qualche singhiozzo che ogni tanto emergeva a interromperla e la scuoteva da capo a piedi.
Daniel si prese il tempo di guardarla. Era carina, bassa e bruna, con gli occhi chiari e il viso piacevole. Pareva avere una ventina d’anni, suppergiù. Forse anche diciannove, valutò dopo poco. Aveva un aspetto fragile e indifeso, che gli comunicava un qualcosa di tiepido che non riusciva a definire in maniera precisa. Una sensazione di bisogno, in un certo senso. Come l’inconscia necessità di proteggerla…
«Come ti chiami?» lo riscosse dopo un po’ la giovane. Si era calmata, e si era asciugata gli occhi con il dorso della mano. Gli rivolgeva un mezzo sorriso riconoscente.
«Daniel Green. Tu?»
«Rebecca Mitchell» bisbigliò. Daniel le porse la mano, ma lei nemmeno la guardò e gli si gettò al collo, abbracciandolo. Daniel rispose alla stretta, inalando il profumo fragrante dei suoi capelli scuri e la freschezza del suo viso contro la propria spalla.
«Grazie per avermi salvata, Daniel» farfugliò la ragazza stringendolo ancora un po’, quindi lo lasciò andare e gli sorrise, stavolta apertamente.
«Che fine ha fatto tuo cugino?» s’informò Daniel, cercando di uscire dall’imbarazzo.
«L’ultima volta che l’ho visto era diretto alla stazione ferroviaria. Ha detto che, dato che la macchina era bloccata, forse potevamo tornare a casa in treno e venire a prenderla un’altra volta. L’ho perso in mezzo alla strada quando un furgone blindato ci ha separati, e poi non sono più riuscita a trovarlo da nessuna parte…» illustrò Rebecca laconicamente, e Daniel si sentì avvampare per via della cosa che la ragazza gli aveva appena fatto venire in mente: c’era anche la stazione ferroviaria, e i ribelli non l’avevano menzionata nel loro messaggio. Possibile che non l’avessero tenuta in considerazione? E se magari ci fosse stato un modo, attraverso quella, per uscire dalla città e avvisare le autorità competenti di ciò che stava accadendo a Eglon?
«Coraggio, andiamo alla stazione allora» concluse Daniel, e Rebecca approvò felice.

I venti uomini della polizia di Eglon, allineati con gli scudi antiproiettile protesi in avanti a formare una barriera e le pistole d’ordinanza pronte a far fuoco, presero posizione all’incrocio tra Main Street e Neighbour Street, occupando l’imboccatura di quest’ultima, che era più stretta, di modo da creare due file di dieci elementi ciascuna. Il vicesceriffo Jason Krain si era posizionato al centro della prima linea, e da lì lanciava ordini sbrigativi al drappello come un generale alle proprie truppe.
Il carro armato dei ribelli era stato messo da parte, accanto ai furgoni blindati, e un manipolo di cinquanta uomini col volto coperto era stato radunato in fretta e furia e armato di tutto punto. Non avevano scudi, loro, né corazze o giubbotti antiproiettile. Ma i loro occhi erano fiammeggianti, e il vicesceriffo Jason Krain capiva perfettamente, da quegli sguardi, che avrebbe dovuto faticare parecchio per riuscire a sbaragliarli o, se non altro, a costringerli a una ritirata provvisoria.
Prendere Main Street sarebbe stato un notevole successo, considerò Jason Krain intanto che i rivoltosi si scompattavano in gruppetti disordinati e si avvicinavano con fare aggressivo. Disorganizzati com’erano, scompaginarli sarebbe stato forse più semplice del previsto. Una volta buttato all’aria il loro assalto, avrebbero potuto con calma intrappolarli singolarmente, prendere possesso dei furgoni e del carro armato e infine proclamare la liberazione di Main Street, restituendo le armi ai cittadini e pregandoli di aiutare a ripulire il resto della città quartiere dopo quartiere.
Li aspettava una notte ancora piuttosto lunga, ma se non altro c’era qualche possibilità nascosta tra le luci dell’alba.
«Poliziotti di Eglon, avete ancora due minuti per gettare le armi e arrendervi. Chiunque di voi consegnerà ora le proprie armi avrà salva la vita, e gli sarà permesso di ritornare a casa dalla sua famiglia senza un solo graffio» garantì la solita voce emergendo dall’aria attraverso il megafono.
«Nessuno di noi ha intenzione di piegarsi al vostro volere! Siamo cittadini liberi, pronti a morire liberi, se necessario!» ribatté la voce naturale di Jason Krain, che non si servì di alcun megafono per amplificare il proprio sintetico messaggio.
Le sue parole rafforzarono la convinzione di voler lottare anche nei più titubanti, e i poliziotti di Eglon serrarono le file e si tennero pronti alla battaglia.

Robert tremava accanto a lui. Stan non lo badò. Mentre i ribelli armati di spranghe e fiaccole accese infrangevano le vetrine dei negozi circostanti e appiccavano il fuoco alle automobili parcheggiate a lato della carreggiata, la polizia rimaneva ferma a guardare e non osava muoversi.
«Osservate, cittadini di Eglon, quello che la vostra polizia ha deciso di far accadere! Opponendo resistenza ci costringono a distruggere. E se qualcun altro si metterà contro di noi, non ci limiteremo alle automobili e alle vetrine: entreremo nelle case e faremo strage!» declamò l’uomo senza accento con la maschera blu e il megafono salendo nuovamente in cima al carro armato per farsi vedere e sentire meglio. Dal cofano di una macchina più avanti usciva fumo e dopo pochi istanti il veicolo saltò in aria, lanciando pezzi di lamiera e scaglie di vetro ovunque, appiccando il fuoco all’albero sotto il quale era parcheggiato.
Stan non aveva mai visto niente del genere, nemmeno nelle manifestazioni anarchiche che aveva seguito qualche volta alla televisione durante i telegiornali. Era terribile, e stava avvenendo tutto sotto i suoi occhi.
«Forse faremmo meglio a tornare in casa» brontolò Robert di fianco a lui, ma Stan lo ignorò.
«È così che dimostrate il vostro amore per la città? Obbligandoci a demolirla?» rincarò l’uomo con la maschera blu in piedi sul carro armato, e anche stavolta c’era una venatura di scherno che affiorava tra le sue parole, come un cadavere gonfio sulla superficie increspata delle acque torbide di un lago disperso.
«Siamo pronti a dare la vita per la nostra città!» gridò allora il vicesceriffo Jason Krain, e sollevando la doppietta la puntò contro un ragazzo con una maschera bianca ricoperta di disegni blu e arancioni, sul punto di scagliare una pietra contro un’Alfa, e premette il grilletto con rabbia.
La detonazione squarciò il silenzio troppo teso di Main Street, e i ribelli si fermarono di colpo a seguire il movimento del corpo del proprio compagno che si accasciava inerme in mezzo alla strada, come una foglia secca d’autunno appena staccatasi dal ramo e posatasi sull’asfalto freddo.
Una macchia di sangue lucente si allargò sotto una pozza di luce. Sembrava nera, per via del chiaroscuro notturno, e i lampioni non riuscirono a restituirle l’originale colore scarlatto.
Seguì una pausa di assoluto silenzio che si dilatò all’infinito, suonando assordante alle orecchie di Stan e, molto probabilmente, anche a quelle di tutti i poliziotti schierati all’imboccatura di Neighbour Street, pronti a reggere l’assalto di mezzo centinaio di uomini che non avrebbero mai potuto vedere in viso.
Troppo avventato, vicesceriffo Krain, pensò Stan con un pizzico di rammarico, e in quell’attimo l’aria di Main Street fu violentemente espugnata da un urlo sintetizzato da un megafono che molto brevemente proclamò: «Guerra!»
La polizia rimase immobile, schierata, mentre i ribelli coi volti coperti si ricompattavano rapidamente e si muovevano come un unico essere mostruoso pronto ad avventarsi sulla preda. Iniziarono a fioccare i colpi, e gli spari occuparono il silenzio e lo cacciarono via bruscamente, senza prendersi nemmeno la briga di aspettare che fosse uscito dalla porta prima di incominciare a far baldoria.
Robert, accanto a Stan, si premette le mani sulle orecchie per attutire il rumore di quei botti rintronanti. Un uomo con indosso una maschera di gomma a forma di teschio si inginocchiò accanto all’angolo tra Main Street e Neighbour Street, prese la mira con il suo fucile a pompa caricato a dovere e scagliò un nugolo di piombo contro gli scudi della prima linea della polizia di Eglon. Un paio di poliziotti arretrarono, rompendo la riga, e il vicesceriffo Jason Krain tentò di riempire il buco spostandosi sulla destra.
Alcune raffiche di mitragliatrice sovrastarono i rimbombi degli altri spari. Un poliziotto centrò al collo uno dei ribelli, macchiando di sangue la sua bandana, e subito mirò contro un altro ma lo colpì di striscio alla spalla. Una sventagliata di mitraglietta gli fece schizzare il sangue dal petto su tutta la faccia. Crollò a terra e il poliziotto dietro di lui prese il suo posto per impedire che la prima linea si disfacesse del tutto.
Ma ormai era già troppo tardi.
Un poliziotto cercò di lanciare un fumogeno verso il gruppo di assalitori, ma la mano gli fu tranciata via dal braccio con un colpo preciso di carabina. Un altro scagliò il proprio manganello giusto sulla fronte di un ragazzo in bandana e occhiali da sole. Le lenti nere si spezzarono e il giovane strillò da dietro la bandana, ma il responsabile fu presto soffocato da una mazza da baseball che gli cozzò contro il pomo d’Adamo, facendolo barcollare per qualche istante prima che un colpo di pistola in piena fronte mettesse fine alle sue sofferenze.
L’incrocio tra Neighbour Street e Main Street si stava lentamente ricoprendo di sangue. Stan udì l’uomo con la maschera blu, ancora in cima al carro armato, ordinare a uno dei suoi di correre a chiamare delle ambulanze.
Il vicesceriffo Jason Krain fece finire a terra un aggressore con uno sparo della sua doppietta in pieno petto, quindi maciullò la testa a un altro. Stava per affondare l’impugnatura del fucile tra la spalla e il collo di un terzo uomo quando un proiettile gli raggiunse la tempia e la trapanò, producendo un unico e taciturno fiotto cremisi che imbrattò lo scudo di un poliziotto che combatteva al suo fianco.
Restavano circa una mezza dozzina di agenti, quando le ambulanze arrivarono a sirene spiegate, risalendo Neighbour Street, e si trovarono di fronte un drappello di uomini col volto coperto che assalivano alle spalle i rimasugli della polizia di Eglon. La carneficina andò avanti ancora per qualche minuto, tra spari, urla disumane e suppliche agghiaccianti.
Quando i primi raggi dell’alba misero in fuga le ultime tenebre notturne, del gruppo di poliziotti capitanati dal vicesceriffo Jason Krain non restavano che sangue, ossa e resti sbriciolati.

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