lunedì 3 novembre 2014

Le Anime di Eglon - Prima Stagione - Episodio 5

Gerald McGale si trovava in ufficio, la mattina del cinque settembre, a compilare una pila di polizze assicurative per conto di alcuni clienti che sarebbero passati in giornata a stipulare i contratti. Dovevano ancora accordarsi sugli ultimi dettagli, ma la catasta di documenti stampati che stava prendendo in esame apparteneva a quella categoria di clienti che gli avevano dato carta bianca, concedendogli ogni libertà di manovra, fiduciosi che li avrebbe consigliati oculatamente. Il mucchio più in là, invece, all’altro angolo della scrivania, era riservato ai contratti dei clienti più sospettosi, quelli che gli avevano mormorato, mentre gli stringevano la mano, che avrebbero controllato con accuratezza ogni singola clausola prima di apporre la propria firma. Non c’era bisogno di aggiungere che quest’ultimo cumulo di fotocopie era decisamente più voluminoso.
Gerald indossava il tipico completo dell’assicuratore, grigio, con scarpe nere. Aveva optato per una cravatta blu scuro, quella mattina, perché non gli andava di vestirsi colorato. Non era giornata. Si sentiva grigio, proprio come il completo che si era messo addosso, e non avvertiva assolutamente la necessità di associare a se stesso alcuna tonalità allegra. Non era allegro. Non era felice. E, in un certo senso, se si vestiva in questo modo la gente poteva capirlo e, magari, stare alla larga.
Non che Gerald fosse un uomo poco socievole. Solo che negli ultimi tempi si era un po’ lasciato andare, ecco. Colpa della solitudine che aleggiava nel suo appartamento, sempre così freddo e vuoto e angusto da far spavento. Colpa anche del suo lavoro, in fin dei conti. Un lavoro noioso al quale era stato sostanzialmente costretto dalle vicissitudini.
Quando era ragazzo neanche si sognava di prendere in considerazione il monotono mestiere dell’assicuratore. Voleva fare il programmatore di computer, ed entrare in qualche compagnia produttrice di antivirus per poter lavorare dietro uno schermo a fare la cosa che più gli piaceva. Invece adesso era obbligato a entrare ogni giorno nello stesso ufficio e sopportare gli stessi sguardi diffidenti di clienti preoccupati dall’idea di essere truffati. Doveva compilare pile su pile di polizze assicurative, elargire una miriade di sorrisi forzati e stringere un numero fortunatamente imprecisato di mani callose e sudaticce, che gli lasciavano un immancabile alone di umidità sulle dita, impossibile da scacciare.
Non ne poteva più. Doveva ammetterlo: era parecchio stanco della sua vita, del grigiore sfocato che lo circondava e della nitida presenza di un nodulo di depressione che gli si sviluppava nel cervello come un tumore in fase terminale. Era tutto troppo dannatamente ripetitivo.
Non vedeva luce nel proprio avvenire, né speranza. Poteva soltanto augurarsi che tutto finisse relativamente in fretta. Ed era questo ciò a cui pensava quando saliva sul tetto del suo palazzo, ogni sera, e guardava giù, ammirando il traffico che ronzava pigramente lungo i tappeti d’asfalto distribuiti per la città di Boston, contando i lumicini dei lampioni accesi, domandandosi chi ci fosse dietro quelle finestre illuminate che punteggiavano i grattacieli, chiedendosi se quelle persone, le cui ombre transitavano fugacemente oltre i vetri, fossero più felici di lui e interrogandosi sulle loro enigmatiche, impenetrabili esistenze che gli sarebbero rimaste ignote per sempre.
Si trovava per l’appunto in ufficio, la mattina del cinque settembre, e stava compilando la polizza assicurativa di un certo Gary Thompson, di cui non ricordava la fisionomia, quando entrò un uomo in abito scuro che andò a prendere posto sulla seggiola posizionata davanti alla sua scrivania, levandosi gli occhiali neri ed esibendo un distintivo dell’FBI.
«Devo porle una sola domanda, signor McGale» principiò con calma il nuovo arrivato, squadrandolo con attenzione.
«Mi dica» lo invitò a proseguire Gerald.
«Ci sta?» chiese l’uomo, senza perdere altro tempo, e Gerald McGale sorrise apertamente.

LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 5
ARRIVANO I POLIZIOTTI

Seduto sulla sua veranda lungo Neighbour Street, a pochi passi dall’incrocio con Main Street e a circa trecento metri di distanza dal supermercato dei suoi genitori, David Goldbert se ne stava in silenzio a braccia conserte a osservare la notte. Fuori, sulla strada, la gente andava e veniva senza sosta, correndo di casa in casa, radunandosi in assembramenti che subito si disfacevano, raccogliendosi per recarsi a Main Street a consegnare le proprie armi.
La città si era arresa, e David l’aveva capito subito, appena l’uomo col megafono che stava in piedi sopra il carro armato aveva terminato di diffondere nell’aria di Eglon il proprio messaggio.
Oltre alla comune gente di Eglon, vicini di casa e clienti del supermercato di famiglia, David scorgeva di quando in quando anche qualcuna delle figure misteriose con i volti coperti, simili a mostri famelici in cerca di cibo, la cui unica alimentazione non poteva che consistere in sangue fresco e carne umana. Cruda, naturalmente.
Tutti gli uomini mascherati, ad ogni modo, giravano armati e in gruppetti non inferiori a quattro. Alcuni impugnavano semplici pistole, ma parecchi di loro imbracciavano mitragliette, fucili automatici, doppiette e carabine. C’erano poi quelli che oltre all’arma da fuoco stringevano in una mano anche una spranga di metallo, un piede di porco o una mazza da baseball. David sapeva a che cosa servivano tutte quelle armi, e in cuor proprio sperava di non dover assistere al loro utilizzo. Non quella notte, perlomeno.
Iniziava a fare parecchio freddo, ma non aveva la minima intenzione di rientrare in casa. Mamma e papà stavano correndo di qua e di là in cerca di una stanza nella quale i cellulari prendessero, ma tanto era inutile: avevano sabotato tutte le comunicazioni, e nessuno sarebbe riuscito a mettersi in contatto con le altre città.
Eglon era sola, almeno per il momento.
Quella mattina, dopo l’esplosione dell’ufficio del sindaco Donaldston, mamma aveva proposto di chiudere il supermercato per via dei poliziotti che scorrazzavano di fuori, ma David si era fermamente opposto.
Gabriella Higgins, in ogni caso, non era più ritornata. Si era precipitata fuori di corsa a vedere l’esplosione e dopo due ore la sua confezione di Pepsi e la sua tavoletta di cioccolato erano ancora di fianco al registratore di cassa, in attesa della loro acquirente che non sarebbe più venuta a prendersele.
C’era stato poco afflusso di clienti, per tutta la giornata, ma se non altro molti poliziotti erano entrati per farsi fare un panino e prendere qualcosa da bere, sicché non era stato tutto tempo sprecato tenere aperto il negozio per qualche ora.
David non avrebbe mai potuto immaginare che l’esplosione avvenuta in municipio potesse essere soltanto l’inizio di qualcosa di molto, molto più grande. Adesso però cominciava a capire.
Avevano tolto di mezzo il sindaco Donaldston per far sì che l’autorità di Eglon ne uscisse indebolita. Non c’era tempo per eleggere un nuovo sindaco. Gerarchicamente parlando, ora la città era in mano al vicesindaco Green, che aveva trascorso l’intera giornata in municipio a tentare di raccapezzarsi intorno alla situazione invece di rassicurare la popolazione. Chissà che fine aveva fatto adesso…
 «Preoccupato?» lo sorprese la voce di suo padre.
Si girò senza alzarsi e vide il genitore venire verso di lui e prendere posto su una sedia accanto alla sua. La luce dei lampioni si rifletteva sulle lenti rotonde dei suoi occhiali senza montatura, e il viso paffuto sembrava avere un’aria malaticcia a causa del pallore che il buio infondeva sulla sua pelle.
«Ancora non lo so» alzò le spalle David, sondando l’oscurità e seguendo con lo sguardo un uomo di mezza età che all’altro lato della strada portava tranquillamente il proprio cane a passeggio. Teneva un fucile a tracolla, e si stava probabilmente dirigendo verso uno dei furgoni blindati su Main Street per consegnarlo.
«Che cosa pensi che vogliano da noi?»
«Forse niente. Forse invece ci vogliono ammazzare. È l’undici settembre. Eglon conta oltre quarantamila persone. Sarebbe un colpo più grosso di quello inferto alle Torri Gemelle…» ragionò a bassa voce David, con un pizzico di amarezza nel sapore delle riflessioni.
«Che siano terroristi?»
«È probabile. Potrebbero essere anche solo degli anarchici, in fondo parlano di rivoluzione. Ma quei carri armati… Non è facile procurarseli, e girare tranquillamente per il cuore degli Stati Uniti con un’intera colonna di mezzi corazzati dà un po’ nell’occhio, non credi anche tu?»
«Hanno interrotto tutte le comunicazioni con l’esterno, non possiamo chiedere aiuto a nessuno.»
«Non ce n’è bisogno. L’attentato di stamattina al sindaco Donaldston non è passato inosservato. Il vicesindaco Green deve avere senz’altro chiamato lo sceriffo di contea e il governatore, e credo che anche più in alto sia stato informato qualcuno. Un attentato come quello al municipio di Eglon richiama l’attenzione dei dipartimenti per la sicurezza interna. FBI, innanzitutto, e NSA. Non possono non aver mandato degli agenti già nel corso della mattinata. E se hanno mandato qualcuno dall’FBI significa che sono partiti da Little Rock al massimo entro mezzogiorno. Il che lascia presupporre che siano arrivati in città nel primo pomeriggio» illustrò David con una certa fluidità.
Suo padre lo fissò attonito, con la bocca spalancata in una ridicola espressione di sorpresa. «Come fai a sapere tutto questo?»
«Esiste internet, papà. E la maggior parte della gente lo usa per delle cazzate, ma c’è chi sa sfruttarlo per informarsi» replicò David.
«È possibile che l’FBI non sia stata avvertita in tempo?» riprese il signor Goldbert in tono interessato, ma come se quella conversazione si stesse costruendo su pure basi teoriche.
«Sì, ma ne dubito. E in ogni caso non c’è niente di cui preoccuparsi. Manderanno subito qualcuno a dare un’occhiata, quando si accorgeranno che da Eglon non arrivano notizie. A meno che quegli uomini non costringano il vicesindaco Green a mentire dicendo che qui è tutto in ordine, ma non vedo come potrebbero fare finché i mezzi di comunicazione sono fuori uso.»
«Speriamo in bene» borbottò il signor Goldbert, ed entrambi si misero in silenzio a osservare la gente che riempiva le vie per dirigersi verso Main Street.

Chiuse gli occhi, accecato dall’improvviso bagliore di una torcia puntata sul suo viso, e si vide circondato da una schiera di fasci di luce. Con un braccio sollevato a proteggersi il volto, Jeremy Barton spianò la pistola in direzione della fonte luminosa e gridò.
«Fermo, mani in alto!» tuonarono una decina di voci più o meno all’unisono, e Jeremy udì gli scatti metallici di altrettante pistole che venivano armate.
Alzò le mani e si fermò. La luce della torcia scese dalla sua faccia e gli lasciò finalmente vedere il nutrito gruppo di uomini che gli si era parato davanti in mezzo alla strada. Avvertì Brian irrigidirsi accanto a sé, e lo vide deporre immediatamente la propria arma.
«Sono Jeremy Barton, non sparate!» scandì con quanta più voce possibile, e il vicesceriffo Patrick Wieler abbassò la canna della doppietta che gli stava puntando addosso e lo abbracciò d’impulso, soffocandolo in una stretta vigorosa.
«Jeremy, grazie al cielo sei vivo. Dove stai andando?» lo interrogò il vicesceriffo, puntando nel frattempo la luce della torcia su Brian, che se ne era rimasto in disparte.
Jeremy osservò felice il piccolo schieramento di poliziotti in divisa antisommossa, con gli scudi antiproiettile, gli sfollagente e le armi impugnate, elmetti e corazze e cinture piene zeppe di munizioni. La cosa era seria, a quanto pareva. Ma, se non altro, qualcuno si era organizzato.
«Stavo cercando di raggiungere la centrale, quando mi hanno aggredito. Quest’uomo, Brian Jones, mi ha salvato la vita» spiegò, indicando la figura che gli stava alle spalle in silenzio.
Patrick Wieler gli si avvicinò e gli strinse la mano, presentandosi.
«Brian è un agente dell’FBI» aggiunse Jeremy dopo i dovuti convenevoli.
Patrick si rabbuiò. «FBI, eh? Di’ un po’, che cosa sta succedendo? Tu lo sai?»
«So qualcosa,» ammise Brian con una certa riluttanza, «ma questi non sono né il luogo né il momento adatti per parlarne. Siamo in zona scoperta, e ci sono carri armati e uomini pronti a far fuoco a ogni angolo. Dobbiamo trovarci un riparo.»
«Casa mia è qui vicino, oltre quelle siepi» propose uno dei poliziotti. «Mia moglie e i miei figli stavano dormendo, ma credo che ormai le esplosioni li abbiano svegliati già da un pezzo.»
«D’accordo, facci strada» acconsentì il vicesceriffo guardandosi intorno con circospezione, e mettendosi in marcia a fianco dei propri colleghi Jeremy riuscì a contare ventinove poliziotti oltre a lui, Brian e il vicesceriffo Wieler. Troppo pochi per tenere testa alla moltitudine di uomini armati che aveva sentito e visto muoversi per la città, ma sempre meglio che niente.
«Dov’è finito Gordon Fillback?» domandò Jeremy mentre camminavano, riferendosi naturalmente al capo della polizia di Eglon. Il vicesceriffo Wieler gli rivolse uno sguardo inquieto, dal quale trapelarono massicce zaffate di paura e preoccupazione.
«Ci siamo divisi in tre gruppi, quando la centrale di polizia è stata attaccata. Uno è venuto con me, un altro è partito con Jason Krain. Il terzo si è avviato sotto il comando di Steve Corall in direzione dell’aeroporto, dove si sono verificate le ultime esplosioni. Il capo Fillback, invece, è… morto. Gli hanno sparato un colpo alla testa appena sono penetrati nella centrale, e noi ci siamo dovuti nascondere nell’armeria per coordinarci. Le ricetrasmittenti non funzionano, perciò non potremo organizzare alcuna controffensiva.»
«Dov’era diretto il gruppo di Krain?» s’informò Jeremy.
«Neighbour Street, se non sbaglio. Là c’è parecchio fermento, a quanto ci risulta, e ha detto che voleva dare un’occhiata. Avete sentito il messaggio trasmesso da quei megafoni?»
«Megafoni? Ce n’era solo uno…»
«No. Ne abbiamo contati cinque, in cinque aree diverse. Hanno ripetuto le stesse identiche frasi nello stesso momento in tutta la città. Si sono preparati bene a quest’attacco, Jeremy. Non hanno lasciato niente al caso» commentò il vicesceriffo Wieler in tono aspro.
«Quali altre informazioni abbiamo?»
«Mettendo insieme le descrizioni di tutti gli uomini del nostro gruppo, siamo riusciti a calcolare la presenza di sette carri armati, ma è possibile che ce ne siano altri distribuiti in zone della città che nessuno dei qui presenti ha attraversato. L’attentato al sindaco di questa mattina è stato opera loro, ma il governatore e lo sceriffo di contea sono stati informati immediatamente dell’accaduto. Da Little Rock sono stati mandati due agenti dell’FBI alle dieci e trenta di questa mattina. Hanno esaminato il municipio, setacciandolo da cima a fondo, hanno parlato un po’ con Fillback e con il vicesindaco Green e se ne sono andati. Tre dei nove agenti dell’FBI residenti a Eglon, poi, sono venuti per un sopralluogo alle tredici e zero otto. Hanno perlustrato l’ufficio del sindaco, individuato il tipo di esplosivo adoperato e comunicato i dati a Little Rock. Gli altri, nel frattempo, sono stati ammazzati…»
«Aspetta, aspetta… Ammazzati?» ripeté incredulo Jeremy, gettando un’occhiata a Brian che se ne stava zitto e seguiva la conversazione.
«Sì. Alcuni professionisti si sono presentati alle porte delle loro abitazioni e li hanno uccisi a sangue freddo. Ci sono arrivate sei segnalazioni, prima che le comunicazioni venissero soppresse. Ecco perché ci trovavamo in centrale in così tanti ed ecco perché eravamo relativamente pronti a ricevere visite. Non ci aspettavamo un attacco diretto, e infatti Fillback non ce l’ha fatta, ma noi se non altro siamo riusciti a dividerci e a sparire prima che l’edificio fosse raso al suolo.»
«Sei agenti dell’FBI tolti di mezzo nel giro di una sola giornata?» mormorò Jeremy. «È sconcertante. Assurdo. Non posso crederci!»
«Avremmo dovuto capire che qualcosa non andava quando ci è giunta la prima segnalazione, verso mezzogiorno, da parte di una certa Dorothy McKinzey, che diceva di aver visto il marito Bob venire assassinato sotto i suoi occhi. Abbiamo mandato alcuni uomini a controllare, perché eravamo già subissati di lavoro per via dell’attentato al municipio. Il secondo agente morto è stato Ryan Gaily, alle diciannove di questa sera, e poi sono seguite altre quattro telefonate in rapida successione. Abbiamo concesso non più di due uomini a ogni caso. Ovviamente, non hanno fatto ritorno in tempo…» narrò Patrick Wieler con una certa inquietudine.
«Degli altri tre agenti si sa niente?» intervenne la voce di Brian Jones, affiorando dal silenzio.
Il vicesceriffo si volse a guardarlo con aria d’importanza. «Noi non sappiamo niente, ma lei, forse, sa qualcosa. Non vi tenevate in contatto?»
«No. Mi trovo qui sotto copertura, nessun agente del Bureau sapeva della mia presenza in città.»
«Ci sono altri agenti sotto copertura, per caso?»
«Non che io sappia. Ero a conoscenza della presenza, qui, di quei nove uomini, e sentire che almeno sei di loro sono sicuramente morti mi rende immensamente triste. Curioso che gli agenti mandati in mattinata da Little Rock siano rientrati subito. Forse non volevano interferire con le indagini già in corso da parte degli altri agenti residenti in città…» ipotizzò Brian, senza però troppa convinzione.
«Ad ogni modo, ci dobbiamo organizzare al più presto per cercare di capire che cosa sta succedendo» concluse Wieler, e in quel momento uno dei poliziotti esclamò a gran voce: «Eccoci arrivati! Casa dolce casa… Entrate pure e non fate complimenti», e la piccola fila di poliziotti in divisa antisommossa fece il suo ingresso nella villetta a schiera.

«Che cosa vuol dire che non lavori per l’FBI, Greg?» biascicò confusa Susi. Brett si zittì e si mise in ascolto. Entrambi avevano ancora gli occhi lucidi, ma almeno i singhiozzi si erano placati.
«Non lavoro e non ho mai lavorato in vita mia per l’FBI, ma sono stato costretto ad attenermi sempre a questa versione dei fatti, anche con te, perché il dipartimento nel quale presto servizio ha deciso fin dall’inizio di adoperarmi come infiltrato sotto copertura. Ho condotto diverse missioni, soprattutto all’estero, prima di conoscerti, Susi. Da quando ci siamo sposati mi è stato accordato il permesso di lavorare da qui, e devo dire che siamo capitati nella città sbagliata al momento sbagliato…» incominciò a spiegare Greg, e Susi gli rivolse una cupa espressione interrogativa.
«Sei mesi fa ho ricevuto una telefonata su una linea protetta che mi avvisava di un complotto in atto per un nuovo attacco terroristico previsto per il quattro di luglio. Il bersaglio principale era l’aeroporto di Memphis, poco distante da qui, e mi hanno detto di stare in allerta in caso ci fosse bisogno di me. C’è stato un momento di buio della durata di tre mesi, e quando mi hanno ricontattato i bersagli erano cambiati. C’era un nuovo progetto in lavorazione, un piano che interessava direttamente la città di Eglon. Mi è stato ordinato di raccogliere quante più informazioni possibili, e di capire di che cosa si trattasse. Non so da quale fonte sia saltato fuori il nome di Eglon. Non mi è stato detto perché fosse stata scelta questa città, e non mi è stato anticipato che cosa avessero in mente di fare. L’ordine perentorio era: “Non immischiarti con l’FBI. Fingiti uno di loro ma non passare al Bureau nessuna delle informazioni che riesci a raccattare. Forse c’è una talpa, da quelle parti, e non vogliamo rischiare di mandare tutto quanto all’aria.”
«L’idea iniziale era che al-Qaeda volesse proseguire sulla linea suggerita da Bin Laden per un attentato durante l’anniversario dell’undici settembre. Dopo l’uccisione dello sceicco, il suo computer aveva rivelato progetti riguardanti l’organizzazione del più grosso incidente ferroviario della storia. L’informazione è trapelata, e i piani sono cambiati. La nuova mossa dei terroristi, secondo i servizi segreti, sarebbe stata l’introduzione di una testata nucleare in territorio statunitense, e l’utilizzo della città di Eglon come nascondiglio temporaneo per la bomba, in attesa di trasferirla nei pressi di Ground Zero in prossimità dell’undici settembre.»
Si prese una pausa, e intanto sua moglie lo fissava con fare disorientato, come se nulla di ciò che aveva detto le sembrasse sufficientemente plausibile. Ma stava ricollegando i tasselli del puzzle, e Greg decise di concederle tutto il tempo che le occorreva per farlo.
«Il dipartimento per il quale lavoro, Susi, è la CIA. E, come puoi vedere anche tu, qualcosa è andato maledettamente storto.»

Stan risalì rapidamente Main Street e raggiunse la porta d’ingresso di quella che era stata casa sua e che ora apparteneva a Sarah e Robert. Bussò tre volte prima che Robert gli venisse ad aprire con un’espressione alienata e stanca da far paura.
«Stan, che cosa diavolo…»
«Zitto. Hai delle armi in casa?» proruppe Stan entrando e richiudendosi la porta alle spalle.
Sarah era seduta sul divano. Aveva sul viso i solchi delle lacrime che doveva aver versato fino a quel momento, e in quell’attimo di composta fragilità Stan la trovò più bella di quanto l’avesse mai vista in tutta la loro vita insieme. I bambini non c’erano, e di questo fu grato.
«Abbiamo sentito anche noi da qui il messaggio di quelle persone, Stan, e adesso mi stavo preparando a portare a Main Street il mio…»
«No!» lo interruppe Stan, sottovoce. «No, assolutamente no. Lo dobbiamo nascondere!»
«Il mio revolver?» domandò incerto Robert, preso in contropiede da una simile reazione.
«Se vogliamo avere qualche possibilità di difenderci, sì» confermò Stan.
«Ma sei impazzito? Non hai sentito quello che hanno detto?» piagnucolò Robert.
Sarah teneva gli occhi fissi sul pavimento. Non muoveva la bocca, non dava segno di essere cosciente. Sembrava quasi che si fosse addormentata lì, seduta, con le palpebre sbarrate.
«Sì, l’ho sentito, ed è proprio per questo che dobbiamo nascondere un’arma. Hai un revolver, hai detto?»
«Sì,» ribadì Robert, «ma Stan, che cosa hai in mente di fare?»
«Ora lo vedrai. Portamelo» ordinò, e Robert partì di corsa e si lanciò su per le scale, diretto con ogni probabilità verso quella che era stata la camera da letto di Sarah e Stan.
Cinque minuti dopo, Stan aveva scalzato una delle mattonelle in cotto del pavimento della cantina con un martello e un cacciavite e aveva scavato un buco abbastanza profondo nel terriccio sottostante. Vi infilò l’arma, ributtò dentro la terra e riposizionò la mattonella al proprio posto, controllando affinché non si notasse che era stata rimossa.
«Pensi che verranno in casa a dare un’occhiata?» volle sapere Robert, irrequieto.
«Non oggi, probabilmente. Ma presto sì, lo faranno. E se troveranno questo nascondiglio sarà la fine. Fino ad allora, però, abbiamo una garanzia in più rispetto al resto della città.»
Robert annuì, ancora un po’ titubante ma sostanzialmente convinto.
«Venite a vedere!» chiamò a gran voce Sarah dal piano di sopra, e il suo tono fece accapponare la pelle a Stan. I due uomini si proiettarono su per le scale che portavano alla cantina e raggiunsero Sarah. Era ferma di fronte alla finestra, con le tende scostate e lo sguardo intimorito.
«Che cosa succede?» le domandò Stan. Lanciò un’occhiata nella stessa direzione in cui erano puntati gli occhi della sua ex moglie e si sentì vorticare pericolosamente la testa, come se avesse mandato giù un bicchierino di troppo e adesso non riuscisse più a trovare la serratura della porta di casa perché tutto il mondo si era lanciato in un folle girotondo da capogiro.
«Cittadini di Eglon, non abbiate paura. Siamo qui per ripristinare l’ordine. Tenete con voi le vostre armi e rientrate immediatamente in casa. Ripeto: non consegnate le armi e rifugiatevi subito nelle vostre abitazioni. La città è in stato di allerta. Scatta da questo momento in avanti il coprifuoco indetto dalla polizia di Eglon» scandì nell’aria tersa e limpida della notte una voce nasale amplificata da un megafono, così diversa da quella che aveva parlato poco tempo prima nel suo indistinguibile e caloroso accento dell’Arkansas.
Dall’incrocio di Neighbour Street stava uscendo in Main Street un gruppo compatto di poliziotti in divisa antisommossa. Stan valutò che a occhio e croce dovevano essere circa una ventina di uomini, protetti da giubbotti antiproiettile ed elmetti, scudi trasparenti con su scritto POLIZIA, sfollagente e pistole d’ordinanza in pugno. Avanzavano come uno schieramento serrato, dandogli l’impressione di essere un esercito in rapido avvicinamento pronto a ingaggiare battaglia.
Robert, alle sue spalle, esultò. Stan si mantenne calmo. Non era una cosa buona. Per niente. E sapeva che entro pochi minuti anche Robert avrebbe iniziato a capirlo. Gli serviva soltanto un po’ di tempo per realizzarlo, e poi il panico sarebbe tornato a dimorare in casa Payton.
Ex casa Payton, Stan, non dimenticarlo.
«A tutti i rivoluzionari: gettate le armi. Questo è un ordine. La polizia di Eglon è qui per rimettere a posto le cose» sentenziò in tono glaciale la voce del vicesceriffo Jason Krain sintetizzata dal megafono. Era in testa al manipolo di poliziotti, e imbracciava quella che pareva essere una doppietta.
«Fate avanzare i carri armati!» berciò l’altra voce senza accento al megafono, quella che in precedenza aveva comunicato il messaggio della rivoluzione e aveva comandato di consegnare tutte le armi a Main Street.
Nonostante la distanza, Stan vide il volto del vicesceriffo Jason Krain farsi pallido e tremendamente spaventato.

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