lunedì 6 ottobre 2014

Le Anime di Eglon - Prima Stagione - Episodio 1

Il municipio della tranquilla città di Eglon, Arkansas, era un vecchio edificio squadrato con le pareti color crema, recentemente ristrutturato da una ditta locale che aveva richiesto al Comune la bellezza di centoventicinquemila dollari. Il lavoro era stato svolto accuratamente, d’altro canto, e a nulla erano valse le lamentele del sindaco di Eglon dopo che il conto gli era stato recapitato in ufficio.
La mattina del dieci settembre, alle otto precise, il sindaco John Donaldston si presentò in municipio e senza remore firmò un assegno da venticinquemila dollari intestato alla ditta che si era occupata della ristrutturazione. Erano gli ultimi soldi che mancavano per saldare definitivamente il conto, e la scorsa notte il sindaco Donaldston ci aveva riflettuto a lungo e aveva deciso che sarebbe stato meglio pagare e farla finita, evitando in questo modo di sollevare ulteriori problemi.
La borsa continuava a saltellare su e giù, in quelle ultime settimane. Wall Street era ancora molto tesa, e assieme ad essa tutti gli Stati Uniti, l’Europa e l’Asia. La crisi economica si stava facendo sempre più pressante, da quando i primi crolli avevano iniziato a manifestarsi nel corso dell’estate, e John Donaldston sperava in cuor proprio che la città di Eglon non ne risentisse troppo. Non di nuovo, almeno. Un duro colpo alle finanze della sua città sarebbe stato indirettamente un duro colpo anche per lui.
In ogni caso, adesso non era il momento di preoccuparsi di tutto questo. C’erano parecchi affari urgenti da sbrigare, quella mattina. Peter Green, proprietario della ditta che aveva avuto l’appalto per la ristrutturazione, sarebbe passato nel suo ufficio verso le nove per ritirare l’assegno.
Nel frattempo, John doveva controllare alcuni permessi che gli erano stati portati il pomeriggio precedente dall’addetta all’anagrafe. «Ci sono dei dati che non corrispondono», gli aveva sussurrato Nancy posandogli davanti le fotocopie di carte d’identità e passaporti di una mezza dozzina di persone che, a quanto sembrava, erano arrivate in città la settimana prima. «Niente di cui preoccuparsi, molto probabilmente,» aveva soggiunto, «ma la prudenza non è mai troppa.»
Con i tempi che corrono, pensò John Donaldston sedendosi alla scrivania con un sospiro e prendendo in mano un pacchetto di fogli stampati tenuti insieme con due graffette di plastica gialla.
Alle otto e sedici minuti precise, mentre John Donaldston dava una scorsa alla fotocopia della carta d’identità di un certo Samuel Grey, nato a Portland il diciannove ottobre 1982, il municipio della città di Eglon, situato a lato di Main Street, fu scosso da un violento colpo di tosse e la finestra dell’ufficio del sindaco esplose verso l’esterno.
Mille frammenti di vetro invasero la carreggiata, tintinnando sull’asfalto e luccicando come piccoli diamanti, intanto che le fiamme della detonazione si arrampicavano sulla facciata color crema appena rimessa a nuovo e la annerivano.

LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 1
L’ATTACCO

La telefonata arrivò alle nove e mezzo circa di sabato mattina. Quella telefonata, naturalmente. Quella che gli era stato detto sarebbe arrivata, e della quale ovviamente, come accadeva quasi sempre, si era dimenticato.
Saltò giù dal letto, senza curarsi delle lenzuola appiccicaticce che seguirono i suoi polpacci fino alla porta della camera, e si proiettò in salotto ancora in boxer, rischiando di scivolare su un pezzo di carta oleosa che doveva aver contenuto un hamburger, una cosa come due secoli prima, lasciato sul pavimento del corridoio.
Raccolse il telefono e prese al volo la chiamata, appena in tempo prima che dall’altra parte riattaccassero.
«Pronto?»
«Stan… Finalmente» bofonchiò Sarah all’altro capo della linea, in tono seccato.
«Scusa il ritardo, ero a farmi la doccia. Il mio orologio fa ancora le nove e venti» mentì Stan per cercare di giustificarsi. A dire il vero, il suo orologio segnava le nove e trentacinque, ma sapeva benissimo quanto la sua ex moglie ci tenesse alla puntualità e la sera prima, quando lo aveva chiamato per dirgli dei ragazzi, gli aveva anticipato che l’indomani gli avrebbe telefonato alle nove e trenta in punto. E che avrebbe fatto meglio a essere già sveglio e con la cornetta del telefono tra le mani, perché se l’avesse fatta spazientire ancora una volta…
«Certo, ne sono sicura» ironizzò Sarah. Ma almeno non gli aveva dato dell’idiota, il che era già un decisivo passo avanti nel loro rapporto.
«Allora, per che ora pensi di portarmeli qui, i mar… i bambini?» s’informò, morsicandosi il labbro e la lingua prima di finire di pronunciare la parola marmocchi. Ecco un’altra cosa che Sarah detestava: quel termine adoperato nei confronti dei suoi figli. E Stan lo avrebbe dovuto sapere molto bene, dal momento che si trattava di uno dei principali capi d’imputazione elencati da Sarah il giorno in cui gli aveva annunciato di voler divorziare.
«Portarteli lì? Stan, pensavo ci fossimo già chiariti a questo proposito…» replicò Sarah, e Stan fu contento di constatare che l’ex moglie aveva finto di non accorgersi che li stava per chiamare marmocchi, ma allo stesso tempo si rabbuiò. Non ricordava di aver sentito nulla, al riguardo. Di solito era così che facevano: lei glieli portava il sabato sera e lui li riportava a casa la domenica.
Sarah sospirò, irritata. «Questa sera vengono a cena a casa nostra i genitori di Robert, e rimarranno qui almeno fino alle dieci. Per cui è meglio se passi a prendere i bambini… diciamo alle undici, d’accordo?»
Stan ci pensò su. Alle undici a Eglon? Questo significava partire almeno un’ora prima, per evitare il grosso del traffico del sabato sera, e subirsi il ritorno con i piccoli addormentati sui sedili posteriori, quindi niente musica e niente chiacchiere, incolonnato per le strade della città alle entrate delle discoteche. Si massaggiò le tempie. Il solo pensarci gli faceva venire il mal di testa.
«Stan?» insistette Sarah. Aveva fretta, e si sentiva. Ma fretta di andare dove, dal parrucchiere?
«D’accordo. Sono lì per le undici» cedette infine, malgrado la riluttanza.
«Bene. E mi auguro che tu sia puntuale, Stan. Altrimenti questo fine settimana lo passi senza i ragazzi. Alle undici e zero uno se non sei ancora arrivato chiudo a chiave la porta e li metto a letto, siamo intesi?»
Zì, badrona, avrebbe tanto desiderato risponderle Stan. Ma per fortuna si trattenne, e balbettò un sì incerto ma efficace.
«A dopo» concluse Sarah, nel tono in cui si pone fine a una transazione commerciale, e riattaccò, lasciando Stan in boxer ancora mezzo addormentato nel suo salotto semibuio.

Jeremy Barton faceva il poliziotto da ventidue anni, ormai, eppure doveva ammetterlo: in vita sua non gli era mai capitato di dover affrontare niente del genere.
Oh, naturalmente aveva ricevuto un addestramento completo, come tutti quanti lì, del resto. Poi, dopo l’undici settembre, erano stati stilati nuovi regolamenti per la sicurezza, ai quali aveva dato una letta piuttosto superficiale, sì, ma perlomeno esaustiva. Solo che Eglon, nella Contea di Jefferson, Arkansas, non era mai stata una città troppo pericolosa.
Aveva le sue magagne, sicuro, come no. Tutte le città ce le avevano. Ma Eglon non era poi tanto grande in confronto alle metropoli principali. Con i suoi quarantaduemila abitanti si era garantita una buona fama e persino un proprio aeroporto, ma niente a che vedere con le vicine Little Rock e Pine Bluff. Quelle sì che erano città grosse, accidenti. Eglon in confronto era come un facocero di fianco a un elefante e un rinoceronte. Più facile da gestire, per quanto riguardava la sicurezza, sebbene avesse il suo giro di criminalità e malavita come il resto delle città americane, e non si era mai dimostrata eccessivamente pericolosa.
Fino ad ora, rettificò tra sé e sé Jeremy Barton, aiutando un collega non ancora identificato a posizionare una transenna davanti all’ingresso del municipio.
Alzò lo sguardo e lo puntò sulla finestra dell’ufficio del sindaco, attorno alla quale si era annerita buona parte della parete color crema.
«Barton, vieni qui! Dammi una mano con questi!» berciò il capo della polizia di Eglon, Gordon Fillback. Jeremy si volse e squadrò l’andirivieni di poliziotti, la gente che si era accalcata incuriosita attorno alle transenne, i vigili del fuoco che entravano e uscivano come se niente fosse dal municipio, una giornalista dai capelli ramati che protendeva un microfono al di sopra della folla per raccogliere qualche dichiarazione in esclusiva, un tizio, più in là, che a gran voce domandava che cosa diamine fosse successo e pretendeva di ottenere una risposta immediatamente.
Scosse la testa e si avvicinò a Gordon Fillback. «Eccomi, signore» si presentò, e il capo della polizia gli mise tra le braccia una voluminosa cartella di plastica blu strapiena di carte e documenti, probabilmente appena prelevata da qualche scrivania all’interno dell’edificio.
Dietro di lui passarono due poliziotti che non riuscì a inquadrare bene. Uno dei due, quello sulla destra, gli scoccò un’occhiata indifferente. Non lo conosceva. Non l’aveva mai visto in centrale, ne era sicuro, ma forse era uno nuovo. D’altronde c’erano quasi un centinaio di poliziotti, a Eglon, ed era facile non incontrare qualcuno di loro per diversi mesi.
I due stavano scortando una ragazza dall’aria confusa e terribilmente spaventata. Jeremy la riconobbe: era Nancy Vaugher, la tipa che lavorava all’anagrafe. Sembrava alienata, con quegli occhi spenti dietro le lenti sottili degli occhiali da vista. Aveva i capelli neri che le oscuravano per metà il viso, scarmigliati e forse imbrattati di polvere.
Si era salvata dall’esplosione. Il fuoco aveva divorato solamente due uffici, oltre a quello del sindaco, entrambi miracolosamente vuoti. L’unica vittima accertata era John Donaldston, amministratore della città di Eglon. Una grossa perdita. Specialmente per la sua famiglia, considerò Jeremy mentre si allontanava con la cartelletta di plastica blu stretta tra le dita contratte.
Chi poteva aver scatenato quel pandemonio? Chi era il responsabile, e perché mai l’aveva fatto?
Naturalmente, il governatore era già stato informato dell’accaduto con una telefonata del vicesindaco Thomas Green. La situazione era grave, ma per adesso la conta dei morti restava ferma a uno e a Jeremy non sembrava che tirasse una cattiva aria. Quasi sicuramente il buon vecchio John Donaldston si era fatto dei nemici in città. Magari tra qualche piccola organizzazione criminale locale, oppure si era invischiato in qualche brutto affare con la mafia di Little Rock o Pine Bluff. Chissà.
L’idea dell’attentato terroristico non sfiorò nemmeno per un istante la mente di Jeremy Barton. Non quella mattina, in ogni caso. No. La prima volta che avrebbe cominciato a pensarci sarebbe stata quella sera, a casa sua, levandosi i calzini, appallottolandoli e facendo canestro nel cesto della biancheria sporca.
E ormai, per quell’ora, già tutta Eglon avrebbe capito che c’era qualcosa che non quadrava.
Inclinò distrattamente la cartella blu per evitare di scontrarsi con un altro poliziotto e a causa del movimento un foglio scivolò fuori e andò a posarsi sull’asfalto.
Jeremy Barton sbuffò esasperato e si chinò per raccogliere il foglio caduto a terra. L’occhio gli cadde del tutto casualmente sull’immagine in bianco e nero che campeggiava al centro della pagina, la fotocopia di una carta d’identità.
Strabuzzò gli occhi. Non c’erano dubbi, non poteva sbagliarsi: la fotografia su quella carta d’identità apparteneva al poliziotto con il quale aveva incrociato lo sguardo pochi secondi prima, quello che assieme a un altro se ne stava andando con una Nancy Vaugher piuttosto impaurita. Il nome riportato a lato, lesse di sfuggita prima di essere spintonato da un uomo in giacca e cravatta, era Samuel Grey.
Non diede troppo peso alla cosa, raccolse la fotocopia e la infilò nuovamente all’interno della cartelletta blu. Nel giro di un minuto si fu allontanato abbastanza da non sentirsi più addosso il pressante respiro tiepido e omogeneo della calca, e dopo essere entrato nella volante che lo avrebbe riaccompagnato alla centrale aveva già dimenticato il nome e il volto di Samuel Grey.

Eglon si trovava poco oltre il confine della Contea di Jefferson, lungo il corso del fiume Arkansas. Per raggiungerla da Little Rock, Stan Payton dovette imboccare la Interstate 530 e, prima ancora, fu obbligato a prepararsi psicologicamente a percorrere diversi chilometri di notte, con i fari accesi a illuminare l’asfalto scintillante, la musica a manetta all’andata e un totale silenzio al ritorno.
Era un prezzo che era disposto a pagare per godersi un weekend con i suoi figli. Dopotutto, li vedeva così di rado che perdere una sola occasione di stare con loro significava perdere praticamente ogni appiglio nei loro cuori. C’erano solo la domenica e qualche volta il sabato per trascorrere del tempo assieme. E non poteva rinunciarci, non ora che stava finalmente cominciando a poco a poco a riprendersi dopo la dolorosa separazione.
Era partito da casa alle dieci in punto, come si era ripromesso di fare durante la breve conversazione telefonica avuta con Sarah quella mattina, e adesso viaggiava alla velocità media di settantacinque miglia orarie lungo la I-530, destinazione Eglon, ex casa Payton.
Una musica soffusa aleggiava nell’abitacolo. Un pianoforte che scandiva note leggere e cadenzate, sotto gli accordi lenti di una chitarra.
Un’interferenza assorbì tutt’a un tratto la musica, sostituendola con un cupo scricchiolio, come una scarica di elettricità statica. Stan inarcò le sopracciglia, cercando di sistemare la frequenza, ma l’interferenza permaneva. Dopo pochi secondi, come per magia, se ne andò da sola, senza che lui avesse toccato più niente, e la musica ritornò.
Stan alzò le spalle e continuò a guidare. Non era la prima volta che succedeva, e non sarebbe stata nemmeno l’ultima. Erano cose che ogni tanto potevano capitare. Semplicemente, c’erano zone in cui certe frequenze faticavano ad arrivare. L’aveva studiato in fisica, quando era al liceo. Non ricordava la causa di questi fenomeni, in ogni caso non con esattezza, ma poco gli importava. Finché c’era qualcun altro addetto a costruire le radio per le automobili, il problema non lo riguardava.
Si accorse di essere in leggero ritardo solamente quando fu in vista delle luci della città di Eglon, dopo aver abbandonato la I-530 ed essersi intrufolato in una strada laterale che si snodava tra i campi e proseguiva per un lungo tratto di buio fino a incontrare due file parallele di lampioni dall’obliqua luce arancione. Da lì in poi la carreggiata cominciava a essere leggermente più stretta, ma si trattava comunque di una strada piuttosto importante.
Erano le dieci e quarantanove, per cui aveva esattamente undici minuti a disposizione per riuscire ad arrivare in tempo presso uno dei quartieri periferici dall’altra parte di Eglon, in fondo a Main Street, nei dintorni di uno dei due ponti che attraversavano il fiume Arkansas per accompagnare le vie asfaltate in mezzo ai campi che si srotolavano dall’altra parte.
Un’impresa titanica, valutò Stan, ma non del tutto impossibile. E poi, c’erano pur sempre almeno cinque minuti di lasco in più da tenere in considerazione, no?
Non con Sarah, si contraddisse. Ma stabilì tra sé e sé che se fosse arrivato in ritardo di qualche minuto avrebbe tirato indietro le lancette del suo orologio da polso e avrebbe finto di essere convinto della propria puntualità.
Sorrise e i primi edifici di Eglon iniziarono a ergersi imponenti a lato della via, grossi fabbricati da entrambe le parti che davano quasi l’impressione di volersi gettare uno contro l’altro per bloccare il passaggio e schiacciare in questo modo la sua macchina sotto il proprio peso.
Passando, Stan notò un gruppetto di furgoni blindati parcheggiati di fronte alla vetrina di un negozio di aeromodellismo. Non erano della polizia, intuì immediatamente, e neanche del trasporto valori. Erano completamente neri, e attorno ad essi si era raggruppato un manipolo di persone dall’aria affaccendata. Uno dei tizi, un uomo di colore con un’ampia cicatrice sulla guancia sinistra, osservò la sua auto che passava piano e gli scoccò un’occhiata eloquente: datti una mossa a sparire di qui, sembrò suggerirgli con lo sguardo, e Stan accelerò. Che fossero ladri? No, poco probabile. Non si sarebbero posizionati lì, su Main Street, dove tutti li avrebbero potuti vedere senza problemi. Certo, però, che la cosa appariva alquanto sospetta…
Vide un altro furgoncino blindato, poco più in là, sulla destra. Anche questo era circondato da una mezza dozzina di uomini, e uno, indovinò Stan con una certa agitazione che gli lievitava dentro, indossava una maschera. Non una maschera da Carnevale, pareva piuttosto una di quelle che si userebbero ad Halloween per fare dolcetto o scherzetto. Era una maschera che Stan, in assenza di un aggettivo migliore, avrebbe definito cruda. Un ovale dorato, probabilmente di plastica o di gomma, premuto contro la faccia da una spessa fascia elastica annodata dietro la nuca. C’erano i buchi per gli occhi e per la bocca, e tutto il resto era scomparso. Su una guancia c’era disegnata una saetta color blu elettrico, in stile Harry Potter. Dall’altra parte un teschio stilizzato, di quelli con le due ossa incrociate che si vedevano sempre sulle bandiere delle navi pirata nei film.
Anche l’uomo mascherato lo fissò mentre passava di lì, e Stan si rese conto per la prima volta da quando era entrato in città che non c’erano altre automobili sulla carreggiata, escluse quelle parcheggiate a lato della strada con due ruote sul marciapiede e le altre due oltre la linea bianca esterna. La luce dei lampioni si era fatta anch’essa più cruda, proprio come quella maschera laggiù, e per fortuna che le finestre degli edifici e dei palazzi erano tutte illuminate a dovere, altrimenti il paesaggio sarebbe apparso decisamente lugubre.
Non c’erano nemmeno passanti, in giro. I marciapiedi erano deserti, esclusa qualche nera figura che ogni tanto compariva qua e là come un’ombra intenta a spiarlo, e l’aria pareva stantia. Fuligginosa, in un certo qual modo, anche se Stan non avrebbe saputo dire perché gli desse quest’impressione.
C’era qualcosa adesso sull’orizzonte, scarsamente rischiarato dai lampioni. Qualcosa in mezzo alla strada, ma da quella distanza non riusciva a capire di che cosa si trattasse.
Consultò di sfuggita l’orologio: le dieci e cinquantasei. Aveva quattro minuti prima di essere in ritardo, e ce l’avrebbe fatta se non avesse incontrato altri ostacoli. Ma quando fu abbastanza vicino da capire che cosa fosse quell’ombra in mezzo alla strada, si maledì per non aver previsto un qualche intoppo inatteso nella propria tabella di marcia.
Era stato allestito un posto di blocco. Ma non dalla polizia. Attorno c’era gente che camminava, gente che si accalcava, gente che curiosava. La barriera al centro della carreggiata era costituita da quattro furgoni blindati messi di traverso, simili a quelli che Stan aveva già visto prima lungo la via, e almeno trenta uomini vestiti di nero avevano formato un gruppo serrato di fronte alla barricata.
C’erano persone che vociavano al cellulare. Altri chiedevano agli uomini che avevano costituito il blocco che cosa stesse succedendo. I tizi vestiti di nero, imperturbabili, non rispondevano. Stan annotò un unico particolare nella propria testa: la maggior parte di loro indossava una maschera. Gli altri portavano il cappuccio della felpa calato sulla testa, e una bandana legata sul volto che copriva mento, bocca e naso.
Lasciò l’auto sul ciglio della strada, assieme a molte altre vetture costrette a fermarsi, e scese per avvicinarsi al posto di blocco. Il suo orologio segnava le undici in punto. Come a conferma, le campane iniziarono a suonare per annunciare l’ora. Ormai era in ritardo. Ma, se non altro, stavolta un buon motivo ce l’aveva per davvero.
Un uomo che urlava al telefonino gli passò accanto e le loro spalle si scontrarono. Il tipo, un cinquantenne dall’aria ostile con capelli e barba bianchi tagliati piuttosto corti, lo ignorò completamente e continuò a camminare inviperito.
«Mi scusi, che cosa sta succedendo?» domandò Stan a un altro uomo che se ne stava lì immobile con le mani infilate nelle tasche dei jeans.
L’interessato si voltò a guardarlo con aria assorta, e in tono meditabondo alzò le spalle e mormorò: «E chi lo sa? C’è stato un attentato, stamattina. Hanno fatto esplodere l’ufficio del sindaco, e adesso sono arrivati questi tizi che devono essere della CIA, oppure dell’FBI, o che cavolo ne so io. Probabilmente appartengono a qualche nuovo dipartimento per la sicurezza nazionale. Hanno detto alla polizia di non allarmarsi, che lo sceriffo di contea arriverà presto, e intanto vogliono bloccare la città.»
«Devo andare a prendere i miei figli. Abitano a un isolato da qui, oltre quei furgoni. Come accidenti faccio a raggiungerli?» disse Stan, alzando le braccia e facendosele ricadere lungo i fianchi con fare impotente, sentendosi addosso lo sguardo dell’uomo che gli aveva appena spiegato in quattro e quattr’otto la situazione.
«Non ne ho idea. Ma forse il mio amico Frank, qui, può darti una mano…» Si girò e batté sulla spalla a un altro, facendolo voltare.
«Ehi Frank, c’è qui un tipo che deve passare dall’altra parte del posto di blocco per prendere i suoi figli. Dove gli diciamo di andare?»
Frank lo squadrò dall’alto in basso, esaminandolo superficialmente, storcendo la bocca dietro una barba lunga e crespa che doveva aver visto anni decisamente migliori. «Mi sa che più di tutto il resto ti conviene andare a fartelo mettere dove dico io, se davvero intendi passare dall’altra parte dei furgoni. Però, se hai un po’ di pazienza, puoi aggirare il quartiere da quella parte» gli mostrò, indicando una via laterale che si inoltrava nel buio tra le saracinesche abbassate di una libreria e una vetrina che esponeva giocattoli. «Dovresti sbucare fuori in una strada parallela. Non so se hanno bloccato anche quella. È una stradina piccola, e da lì in poi ti devi arrangiare.»
«La ringrazio!» esclamò sincero Stan, e prima di dover sopportare un’altra zaffata di quell’alito che sapeva di birra e di sigarette scadenti si avviò nella direzione che gli era appena stata segnalata.
Attraversò a piedi una viuzza buia, si inserì in una strada vuota rischiarata da lampioni dalla luce biancastra e superò un altro paio di vie secondarie. Lungo una di queste incrociò un altro furgone e passò avanti, incurante delle occhiate pesanti che gli lanciarono alcuni uomini mascherati.
Che cosa stava accadendo? Tutto questo non era affatto normale, e Stan se ne accorgeva ogni minuto di più, anche se non riusciva a capacitarsene appieno. FBI, CIA, dipartimenti per la sicurezza nazionale… tutte cazzate. Quei tipi non erano del governo, almeno tanto quanto non erano della polizia. Che cosa stava succedendo, maledizione?
Oltrepassò un condominio con un vasto balcone che dava sull’esterno, dal quale una famiglia osservava sconcertata l’orizzonte, quasi che laggiù, da qualche parte, si scorgessero immani esplosioni. Non poteva fermarsi, non ora. Non erano cose che lo riguardavano. Lui voleva soltanto prendere con sé i propri figli e andarsene. Gli bastava questo.
Finalmente giunse in vista dell’abitazione nella quale vivevano la sua ex moglie e i loro due figli. Assieme al nuovo fidanzato di Sarah, chiaramente. Come dimenticarsi del buon vecchio Robert? Già, peccato che quella era stata casa sua, una volta, e che dopo averlo sfrattato e mandato a vivere a Little Rock quei due avevano ancora il coraggio di farlo venire lì quando doveva prendere e riportare i figli.
Ma non voleva fare scenate. No, non sarebbe stato un comportamento da adulti mettersi a impiantare rogne. Meglio far finta che andasse tutto bene, almeno finché i bambini non fossero cresciuti a sufficienza…
Di’ la verità, Stan. Quando mai avresti il coraggio di metterti contro Sarah? La voce della sua coscienza lo riportò alla realtà, facendogli capire che quella che vedeva era stata casa sua, ma non sarebbe tornata ad esserlo mai più.
Si mise a correre e si girò una volta sola, per vedere l’imponente posto di blocco con i furgoni blindati messi di traverso e la gente assiepata attorno. Raggiunse il vialetto d’ingresso dell’abitazione in cui vivevano Sarah e i suoi due figli
(e Robert, non dimentichiamoci di quel simpaticone di Robert)
e suonò il campanello, trafelato, cercando di ricomporsi prima che Sarah gli venisse ad aprire.
Udì dei passi provenire dall’altra parte della porta. Iniziò a battere un piede per terra, ritmicamente. Si sentiva nervoso, e non vedeva l’ora di rimettersi in macchina e ripartire con i suoi figli per lasciarsi Eglon alle spalle. Almeno fino all’indomani.
Sentì i catenacci che venivano rimossi e la chiave che schiudeva la porta. Quindi l’uscio si aprì, adagio, rivelando il volto tirato e perennemente malinconico di Robert.
«Ciao, Stan» sussurrò con voce atona.
«Ciao Robert.»
«Sarah sta arrivando. Ha appena messo a letto i bambini. Dalle un minuto» borbottò, e richiuse la porta in faccia a Stan.
Stan sentì che la rabbia e l’agitazione stavano crescendo. Si era scordato di tirare indietro l’orologio, e ormai in ogni caso non faceva più alcuna differenza. Era in ritardo, e il giudizio di Sarah sarebbe stato implacabile. Forse soltanto la fine del mondo avrebbe potuto farle cambiare idea, ma, ad essere sincero, Stan non ne era neppure tanto sicuro.
La porta si riaprì un istante dopo per lasciar uscire la esile e graziosa figura di Sarah, che superò la soglia e si strinse della camicia da notte viola con i fiorellini ricamati che Stan le aveva regalato lo scorso Natale. La donna appoggiò la porta, senza chiuderla, e si rivolse al suo indirizzo con aria profondamente amareggiata.
«Sei in ritardo» esordì, e il suo tono non ammetteva repliche. Stan abbassò la testa e annuì lievemente, guardandosi le scarpe.
«Sei sempre il solito» riprese Sarah come se il suo ex marito le avesse risposto. «Hai deluso profondamente i tuoi figli, sappilo. Michael non voleva saperne di andare a letto prima di averti visto, e l’ho dovuto costringere, dicendogli che avevi chiamato e che non ce la facevi a venirli a prendere questa sera. L’ho dovuto fare. Se mi piegassi e ti concedessi quello che vuoi quando vuoi, la prossima volta sarebbe anche peggio. Arriveresti a mezzanotte, invece che alle undici e venticinque, e la volta dopo ancora saresti qui per l’una con un’altra scusa. Nossignore, non mi farò trattare così da te. Mai più» illustrò con fare sempre più adirato, gli occhi accesi di rancore e le labbra sottili e pallide.
«Hanno bloccato Main Street, Sarah. Ho dovuto lasciare la macchina e aggirare il blocco attraverso alcune vie laterali. Sarei stato puntuale, se non mi avessero… dirottato!» cercò di giustificarsi Stan appena l’ex moglie gli ebbe concesso un istante di respiro, ma Sarah prese a scuotere la testa in segno di diniego.
«Nossignore, mai più mi tratterai in questo modo. Per chi mi hai presa? Per una credulona? Mi hai presa per tua madre? Non sono tua madre, Stan, non lo sono mai stata, e se credi…»
«Vieni a vedere tu stessa, allora!» la interruppe Stan, nonostante sapesse che un’altra delle cose che Sarah maggiormente odiava era essere interrotta mentre parlava.
La donna si fermò e lo fissò con un pizzico di stupore.
«Stanno bloccando tutte le strade della città per via dell’attentato al sindaco di stamattina, presto sarà qui lo sceriffo di contea a dare un’occhiata. Devo partire subito con i ragazzi, se non voglio ritrovarmi bloccato qui per tutta la notte…» continuò Stan vedendo che l’ex moglie gli lasciava spazio. Ma Sarah non lo stava più ascoltando e prese a muovere un paio di passi in avanti, superandolo e restando immobile in mezzo al vialetto d’ingresso con la bocca spalancata e gli occhi tremolanti.
«…che cosa…?» incominciò Stan, ma gli fu sufficiente voltarsi per scoprire che, qualunque cosa stesse per dire, oramai non aveva più importanza.
Più in là, in mezzo alla strada, in corrispondenza del posto di blocco che aveva obbligato Stan a scendere dall’auto e proseguire a piedi, un enorme carro armato stava avanzando adagio tra gli edifici, accompagnato da una ventina di persone le cui silhouette si stagliavano a malapena nella penombra della notte.
Un carro armato al centro di Main Street. E dietro di esso ce n’era un altro, e poi ne seguiva un altro ancora. Stan si passò una mano fra i capelli, disorientato. Che cosa diavolo stava succedendo a Eglon?
«Accidenti, la tivù non riceve un solo canale, dev’essersi rotta la parab…» principiò Robert uscendo di casa con fare seccato, e subito anche lui si pietrificò in mezzo al vialetto d’ingresso dell’ex casa Payton e rimase congelato a guardare l’avanzata silenziosa ma costante di quegli enormi carri armati.
Un solo pensiero attraversò rapido la mente di Stan, orribile come la scena di un omicidio: era quasi mezzanotte. Erano le undici e quaranta anzi, per la precisione, e venti minuti più tardi sarebbe scoccato il nuovo giorno.
Dunque, per rendere quei conti molto di più che semplici numeri, ecco la sconcertante, terrificante verità: venti minuti ancora e sarebbe stato l’undici di settembre. L’anniversario dell’attentato agli Stati Uniti d’America che aveva cambiato la storia per sempre, proclamando l’inizio di una nuova guerra e scatenando, con oltre duemila morti, un conflitto che avrebbe portato altre vittime, altro sangue, altro dolore.
L’uomo non impara mai dai propri sbagli, pensò distrattamente Stan Payton, e rimase lì impietrito a osservare quella macabra sfilata di carri armati su per Main Street, a Eglon, Arkansas, mentre attorno a lui già si respirava l’aria greve di una tremenda battaglia.

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