venerdì 1 novembre 2013

Paranoia

Se lo sentiva che qualcuno lo stava osservando. Se lo sentiva eccome. Ma ogni volta che provava a voltarsi
(ti ho beccato figlio di puttana)
di scatto per sorprendere l’uomo che lo spiava, si trovava davanti soltanto una finestra. Una finestra chiusa
(non soffro di claustrofobia non più da quando avevo quattordici anni)
ma soprattutto vuota, dalla quale l’unica cosa che si poteva intravedere era un pigro giardino placidamente disteso sotto il granuloso sole di un novembre qualunque. Il pigro giardino di casa sua. La finestra chiusa e vuota di casa sua. Sulla parete del soggiorno di casa sua.
(come se questa casa non mi appartenesse più)
Si sentiva come se la casa non fosse in realtà veramente tanto sua. In fin dei conti, quando l’aveva comperata si era fatto accompagnare da quella donna, quell’agente immobiliare dall’aria professionale con il sorriso smagliante
(avrà registrato ogni angolo dell’abitazione con una telecamera nascosta tra i capelli)
e i lunghi capelli ramati raccolti in un’altrettanto professionale coda di cavallo.
(la planimetria della mia casa si trova al catasto, e quelli del Comune la possono consultare)
Ed era come se in un certo senso quella graziosa agente immobiliare con la fede al dito
(anulare sinistro è sempre sull’anulare sinistro)
avesse trattato la casa allo stesso modo in cui avrebbe presentato agli amici le stanze della propria abitazione. Lo sapeva che gli agenti immobiliari facevano così per riuscire a vendere. Ma gli era sorto il sospetto, in quel momento, che la simpatica e attraente agente immobiliare della visita alla casa prima dell’acquisto fosse un po’ restia a lasciargliela. Magari era lei che lo spiava, che lo osservava quando sentiva degli occhi puntati su di sé. La bella agente immobiliare rivoleva indietro la sua casa
(eh no è mia)
che lui aveva pagato duecentotrentacinquemila e settecento euro. L’aveva pagata lui!
(la planimetria ce l’ha anche il geometra che l’ha progettata)
Con la planimetria chiunque poteva sapere dove si trovassero esattamente le finestre. E dalle finestre potevano entrare, anche se chiudeva i balconi con il lucchetto e sigillava ogni apertura. Per di più, durante il giorno lo potevano intravedere attraverso i vetri,
(e un cecchino anche con una mira piuttosto scarsa potrebbe colpirmi dagli edifici circostanti)
per questo non dava mai le spalle alle finestre. Il che era difficile, in particolar modo nel pianterreno, dove tre pareti su quattro avevano dalle due alle tre finestre. Non gli rimaneva che sigillare i balconi di una delle tre pareti (su quella senza finestre si affacciavano le scale per andare di sopra, e qualcuno poteva essersi introdotto in casa dai piani superiori e poteva scendere per coglierlo alla sprovvista) e dare la schiena alle finestre sigillate. Qualche volta, dalla parte interna dei balconi aggiungeva delle lastre di acciaio che aveva trovato giù alla discarica, di modo che se gli avessero sparato anche senza vederlo sarebbe stato protetto.
Il suo psicanalista gli aveva detto che soffriva di una forma piuttosto acuta di paranoia. Lui gli aveva riso in faccia. Non era paranoia, e quello stupido dello psicanalista non riusciva a capirlo. Erano gli occhi. Gli occhi che lo osservavano ogni giorno, dalla mattina alla sera, che seguivano i suoi movimenti nella casa, che lo divoravano… Erano semplicemente gli occhi.
C’erano occhi dappertutto, in casa sua. Affioravano dalle scale, dalle pareti, dal soffitto, persino dalla mobilia. Certe volte si aprivano terrificanti palpebre sul pavimento e lui doveva fare attenzione per non calpestarle.
Erano gli occhi
(dell’agente immobiliare del tizio al catasto del geometra figli di…)
di una moltitudine spaventosa di persone che lo tenevano sotto controllo, che lo spiavano. E quando tutti quegli occhi si aprivano su di lui si sentiva consumare come se lo rosicchiassero…

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