lunedì 12 marzo 2012

Le Anime di Eglon - Episodio 27 - Il Vagone Quattro

«Hanno caricato i furgoni con le casse, ma non li hanno fatti partire subito. Sono ancora là, spenti, in attesa di un qualche segnale. Forse vogliono aspettare che sia notte fonda per smistare tutte quelle batterie. Non sono riuscita a scoprire quali siano le loro destinazioni, ma dalla segretezza delle operazioni posso affermare con certezza che si tratta di un affare piuttosto importante» concluse Emily, terminando la sua narrazione con un seducente sorriso d’importanza.
«Ben fatto. Davvero brava, Emily» si complimentò Joey con sincerità, accendendole la sigaretta che si era appena portata alle labbra. «Mi avevano già detto del cibo, del carburante e dei medicinali, ma di quelle batterie non sapevo davvero nulla. È un’informazione piuttosto preziosa.»
«Lieta di avertela fornita» rispose tranquillamente Emily, osservandolo e sentendosi stranamente a proprio agio. Ormai aveva capito che Joey Goode non era un uomo che si sarebbe potuto definire “perbene”, ma non le importava. Che fosse un criminale, uno spacciatore oppure un contrabbandiere, Joey Goode per lei era innanzitutto un uomo elegante e gentile, e tutto il resto messo a confronto con questa verità perdeva immancabilmente di significato.
«Steve, ho bisogno di una mano!» tuonò Joey, e il vicesceriffo Corall comparve sulla soglia del salottino come un cane fedele attirato da un osso o, meglio ancora, da un biscotto.
«Ci sono. Dimmi tutto.»
«Raggiungi Jeff Turner e andate con la sua auto nei pressi della stazione ferroviaria. Ho bisogno che seguiate uno dei furgoncini blindati che usciranno di lì durante la notte e che mi diciate con esattezza dove si va a fermare e in quali punti della città distribuisce il carico.»
«Un carico di armi?»
«No. Qualcosa di molto più utile, suppongo. Qualcosa che tengono molto in considerazione, dunque è meglio scoprire dove va a finire. Mi raccomando: non fatevi beccare.»
«Senz’altro» confermò il vicesceriffo, e abbandonò in fretta il salottino per sparire in direzione dei garage.
«A cosa pensi che servano quelle batterie?» volle sapere Emily, soffiando fuori fumo attraverso le labbra bagnate di rossetto. Il suo viso illuminato dalle candele era davvero bello, considerò Joey guardandola. Tutto sommato, la totale assenza di energia elettrica non era poi così male. Il viso di Emily Cooper appariva molto più sensuale quando veniva rischiarato soltanto dalle fiammelle tremolanti delle candele, e di questo doveva essere grato all’esercito e alle compagnie elettriche che si erano messi d’accordo per far precipitare nel buio l’intera Eglon.
«Non ne ho la minima idea. Di’ un po’, bella… Hai un ragazzo, fuori di qui?» le chiese direttamente, senza tanti giri di parole.
Emily arrossì e distolse lo sguardo per un secondo, schiacciando il mozzicone di sigaretta sul posacenere e rialzando gli occhi dopo un attimo di esitazione. «Ce l’avevo. Ma adesso mi sa che sono di nuovo libera.»
«Interessante» mormorò Joey, sorridendole. «Allora immagino che non gli dispiacerà…»
«Di che cosa?»
«Di questo.» E senza aggiungere altro le si avvicinò e la baciò, posando le proprie labbra sulle sue e cercando senza indugio la sua lingua per provarne il sapore. Inutile dire che la trovò assolutamente squisita.

LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 27
IL VAGONE QUATTRO

Non appena Robert ebbe richiuso la porta di casa dietro di sé, Sarah comparve nell’ingresso con le lacrime agli occhi e si fiondò su di lui, abbracciandolo. Stan si fece da parte, per non essere d’intralcio, e rimase a guardarli imbambolato con l’espressione gelosa del terzo incomodo.
«Oddio, state bene! Non sapete quello che è successo!» gridò Sarah, ma la sua voce era strozzata e le parole uscirono come un balbettio tremolante e incerto.
«Calmati, tesoro. Calma. Cos’è successo? Tu e i ragazzi state bene?» s’informò Robert, cercando di rasserenare la compagna.
«No! Cioè, sì… Ma non avete idea di quanto è stato difficile! Sono venuti per i controlli! Sono venuti qui dentro e hanno rovistato dappertutto! Lo sapevate che dovevano venire, lo sapevate, hanno già rastrellato i quartieri attorno e si dice che abbiano imprigionato delle persone, ucciso degli agenti… Cristo, Robert! Sono venuti in casa nostra e hanno rovistato dappertutto
Sarah era decisamente troppo agitata, ma Stan aveva già capito che cosa doveva essere accaduto. Un brivido veloce gli attraversò la schiena salendo dal basso e diramandosi lungo le spalle, estinguendosi all’altezza dei gomiti. I ribelli erano entrati in casa a cercare delle armi.
«Ci sediamo un attimo e poi ci racconti tutto, va bene?» la rassicurò Robert, con un tono di voce incredibilmente solido e pacato. «Dove sono Michael e Christine?»
«Di sopra. Li ho mandati a letto, appena è venuto buio. Ho detto loro di chiudere a chiave la porta. Hanno una torcia, nel caso in cui ad uno dei due occorra di andare al bagno…»
«Bene. Su, vieni di là in cucina. Parliamone.»
Presero posto attorno al tavolo della cucina, in silenzio, e Sarah si concesse un bel respiro e incominciò ad esporre i fatti con una maggiore padronanza di sé, dando prova di un saldo autocontrollo.
«Poco dopo che ve ne siete andati… Penso sia passata una mezz’ora, suppergiù… Qualcuno ha bussato alla porta. Sono andata ad aprire, e appena ho visto quei tre teschi appostati sulla soglia di casa ho tirato un urlo. La mia prima reazione è stata cercare di chiudere la porta, ma uno dei tre uomini con la maschera da teschio l’ha bloccata con una mano e mi ha detto gentilmente che volevano solo entrare per dare un’occhiata. Le pistole che tenevano in mano non erano affatto finte, e questo me l’hanno fatto capire all’istante. Mi sono fatta da parte e li ho lasciati entrare.
«Mi hanno chiesto in quanti eravamo. Ho risposto quattro, senza pensarci. Io e i bambini, e il mio compagno che non era in casa. Mi sono dimenticata di te, Stan» spiegò, con un mezzo sorriso di scuse. Stan alzò le spalle e le fece segno di andare avanti. «Hanno voluto vedere Michael e Christine. Erano spaventati, ma li ho fatti scendere ugualmente. Mi hanno chiesto se avessi qualcosa da dichiarare, e io ho risposto di no. “Ora facciamo dei controlli”, mi hanno detto. “E poi togliamo il disturbo”.
«Hanno rovistato in giro per tutta la casa. Nelle credenze della cucina, tra i cuscini del divano, sotto i materassi e negli armadi, giù nel seminterrato…»
«Se fossimo stati qui avrebbero trovato la pistola. Fortunatamente, eravamo fuori» valutò Stan, amaramente scioccato dalla verità della propria osservazione. Se lui e Robert non fossero usciti, quella mattina, forse anche Sarah e i ragazzi avrebbero passato dei guai.
«Te ne devi liberare, Stan. Te ne devi liberare immediatamente» replicò Sarah in tono asciutto, con una leggera venatura in sottofondo che aveva un che di petulante.
Stan cercò l’aiuto di Robert, ma quest’ultimo scosse la testa.
«Sarah ha ragione, Stan. È troppo pericoloso. E, oltretutto, non ci servirà a niente. Hai visto là sotto, in quel deposito. Cosa credi che ci fosse negli scatoloni accatastati su quei bancali? Un sacco di poliziotti sono ancora in libertà, e ognuno di loro ha la propria arma. Noi non siamo poliziotti, Stan. Lasciamo sbrigare la faccenda a chi di competenza. Lasciamo che i poliziotti facciano il loro lavoro e limitiamoci ad occuparci del nostro.»
Stan incassò il colpo e ci rifletté sopra per qualche istante, senza muoversi. Infine sollevò la testa e annuì gravemente, dichiarandosi sconfitto. «D’accordo. Farò sparire quella pistola.»

«Cristo…» farfugliò Cathy, coprendosi la bocca con una mano.
Gerald si voltò a guardarla e lesse la paura nei suoi occhi. Abbassò la pistola ancora fumante e la riappoggiò sulla sedia che stava ai piedi del letto. L’aveva lasciata lì quando era entrato nella stanza assieme a Cathy. Prima di farsi spogliare, aveva nascosto la pistola sotto la maglietta e si era abbandonato tra le braccia della giovane donna. Adesso, quella stessa pistola aveva appena posto fine all’esistenza di un ribelle che si faceva chiamare “Peter Norton”.
«Tutto bene?» le domandò, ancora con il respiro affannato.
«Credo di sì» borbottò Cathy, visibilmente scossa. Il suo corpo nudo era nascosto dalle pieghe delle lenzuola e i capelli sciolti le ricadevano sulle spalle scoperte, scendendo in direzione del seno. Ripensando alla sua pelle levigata, alle sue cosce tiepide e ai suoi gemiti nell’orecchio, Gerald si sentì invadere da una nuova ondata di desiderio inarrestabile. Aveva ancora voglia di lei. Voglia di finire quello che aveva cominciato, di ritornare da Cathy e di farsi circondare nuovamente dalle sue gambe. Si stava così bene, addosso a lei…
«Non pensavo che sarebbe tornato così presto. Ero convinto che sarebbero rimasti fuori per un’altra mezz’ora a lavorare su quel treno» confidò, come per giustificarsi con se stesso.
Cathy non rispose. Si limitò a puntare gli occhi verso la parete di fronte e a tirarsi un po’ più su il lembo delle lenzuola.
Gerald abbassò lo sguardo sul corpo immobile di “Peter Norton” e sulla pozzanghera di sangue che lentamente si stava allargando sotto di lui, sul parquet lucido. «Adesso devo farlo sparire. Se mi scoprissero, potrebbero uccidermi» considerò quasi tra sé e sé, e dopo essersi infilato i jeans appena recuperati dal pavimento sparì oltre la porta e riapparve pochi secondi dopo con un secchio d’acqua e uno straccio.
Cathy non si mosse. Paralizzata, in quella posa da Venere pronta a farsi ritrarre dal migliore dei pittori della storia, guardò Gerald sollevare il cadavere del ribelle ammazzato e trascinarlo velocemente verso l’armadio. Le ante si aprirono con un modesto cigolio e il morto finì scaraventato all’interno. Le ante si richiusero con lo stesso cigolio di prima e Gerald si tastò la faccia con aria preoccupata.
«Sono ancora senza maschera» notò, con un briciolo di inquietudine. Oltrepassò per la seconda volta la soglia della camera da letto e rientrò poco dopo, stavolta con il viso coperto dall’onnipresente maschera che Cathy aveva sempre associato al suo nome e alla sua voce.
Si inginocchiò sul pavimento della stanza e nella penombra incominciò a passare lo strofinaccio umido sulla macchia di sangue lasciata da “Peter”, tirandolo su ogni tanto per immergerlo nel secchio e strizzarlo prima di ripetere l’operazione. Andò avanti così per qualche minuto, nel silenzio infranto solamente dallo sciacquio ipnotico dell’acqua insanguinata nel secchio. Quando ebbe finito di pulire il parquet, Gerald si alzò e andò a riaprire l’armadio per infilarci dentro il secchio e lo strofinaccio lordi di sangue. Serrò le ante cigolanti per l’ultima volta e si girò a guardare Cathy attraverso i fori della sua maschera.
«Dobbiamo andare via, Cathy» disse finalmente Gerald, buttando fuori le parole come un sospiro piuttosto scomodo.
«Dove?» balbettò lei, spiazzata.
«Non lo so. Ma non possiamo restare qui. Si accorgeranno presto dell’assenza di “Peter”. E non posso accettare l’idea di mettere in pericolo anche te.»
Cathy si guardò le unghie con falso interesse, pensando a che cosa rispondere. Socchiuse le labbra e sussurrò: «Potresti far sparire il corpo. Prenderlo e portarlo via, da qualche parte.»
«Ci sono troppe persone, lungo i corridoi fuori da questo appartamento. I garage sono troppo lontani per riuscire a raggiungerli con un cadavere senza dare nell’occhio. E poi, qualcuno potrebbe aver sentito lo sparo. Anzi, è molto probabile che qualcuno lo abbia sentito. Ci conviene sparire prima che vengano a cercare il responsabile.»
«Pensi che ti lasceranno portarmi fuori di qui?» gli domandò allora Cathy, e Gerald le sorrise.
«Sono io, qui, a decidere chi entra e chi esce. Oltretutto, pensavo di andarmene già da questo pomeriggio. Ho scoperto delle cose che avrei preferito non sapere. E adesso tutto quello che voglio è allontanarmi il più possibile da questo posto.»
Cathy lo guardò con aria interrogativa e Gerald liquidò la discussione con un’alzata di spalle, rivolgendole uno sguardo serio e grave. «Credo che qualcuno stia cercando di estromettermi. E l’unico modo per buttarmi fuori dal gioco, a questo punto, è uccidermi. Con il cadavere che tengo nell’armadio avrebbero il pretesto giusto per poterlo fare.»
«Allora semplicemente scompariamo in mezzo alla città?»
«No. Non subito, almeno. Prima devo passare in un posto.»
«Per prendere qualcun altro?»
«No» bisbigliò con fare stranamente assente. «Devo capire fino a che punto sono stato ingannato. Perché forse non è stato l’esercito a compiere il bombardamento notturno che ha gettato nel panico l’intera città, e probabilmente il mio superiore lo sapeva fin dall’inizio.»
«E chi è stato, allora?» volle sapere Cathy, la voce strozzata.
Gerald rivolse gli occhi verso di lei, ma era come se non riuscisse a vederla. Il suo sguardo passò oltre, conficcandosi nella parete alle sue spalle. Il ribelle annuì tra sé e sé e lentamente pronunciò: «Sono stati i nostri alleati.»
«Di chi parli?»
«Parlo delle truppe che sono rimaste fuori dalla città» spiegò Gerald, ancora pensieroso. «I Soldati che hanno conquistato la campagna circostante, quelli schierati a Little Rock e quelli nascosti a Pine Bluff, quelli che controllano le operazioni da Washington, da New York, da Atlanta… Gli Alleati, insomma. Gli uomini che hanno mandato il treno pieno di rifornimenti giunto ad Eglon stamattina» illustrò, e Cathy si sentì rabbrividire.
«Vuoi dire che non è una questione isolata?»
«Isolata?» ripeté Gerald, producendo un’amara risatina sarcastica. «Oh no, questa Rivoluzione non è affatto isolata. Esistono dei progetti. Delle fasi, scandite da procedure rigorose. Adesso siamo soltanto alla Fase Uno. Presto avrà inizio la Fase Due, e allora sì che il nostro messaggio sarà lanciato come si deve al resto del mondo.»
Cathy si scoprì spaventata. Improvvisamente, non desiderava più sapere nient’altro. Lottava contro la propria curiosità, perché le cose che Gerald le stava raccontando erano a dir poco terrificanti. Ma allo stesso tempo sentiva di aver bisogno di risposte. Almeno alle domande più impellenti, quelle che maggiormente premevano per uscire dalla sua testa confusa.
«Che cosa dobbiamo fare? Dove possiamo andare, per uscire da questa situazione?»
Gerald la guardò come alienato, cercando di formulare una frase di senso compiuto. Ci pensò su per un tempo che parve infinito, e dopo diversi minuti di silenzio si decise e affermò con una certa sicurezza: «Il luogo più sicuro, ora come ora, è proprio Eglon.»
Cathy annuì, si scostò di dosso le lenzuola e iniziò a vestirsi rapidamente, indossando gli slip, il reggiseno, i jeans e la maglietta, recuperando l’elastico per i capelli che le era caduto mentre Gerald la spogliava con tanta incontenibile passione.
Di là qualcuno aprì la porta dell’appartamento ed entrò, attraversando in silenzio il soggiorno deserto. Gerald, appostato dietro la porta con la mano sull’impugnatura della pistola, attese trepidante che il nuovo arrivato si infilasse in una delle camere e quando sentì chiudersi una seconda porta tirò un lieve sospiro di sollievo.
«Sei pronta?»
«Sì.»
«Okay, andiamo» annunciò il ribelle sottovoce. Spalancò la porta che dava sul soggiorno e attraversò rapidamente il salone, seguito da Cathy. La giovane donna si soffermò un istante davanti alla libreria e Gerald si voltò a guardarla con un mezzo sorriso malinconico.
«Prendo questi tre qui, se non ti dispiace» lo avvisò Cathy, mostrandogli i libri che aveva raccolto. Gerald annuì e aprì la porta d’ingresso dell’appartamento, facendo uscire Cathy nel corridoio esterno e seguendola senza aggiungere altro.

Alle undici e trenta di quella stessa sera la stazione ferroviaria di Eglon era quanto mai silenziosa. Si respirava un’aria rarefatta, quasi che una grossa parte dell’ossigeno fosse stata aspirata via con un’enorme tubo di gomma. I lampioni spenti e le case buie conferivano allo scenario un senso di irrealtà, quasi che tutta quella zona della città fosse sprofondata in un mondo oscuro e surreale.
Steve Corall e Jeff Turner aspettavano, seduti nella loro auto parcheggiata a lato della strada, con il motore spento e le palpebre sempre più pesanti. C’erano altre vetture sistemate in fila accanto al marciapiede. Nessuno avrebbe notato la loro presenza, il vicesceriffo Corall ne era certo. Eppure, una strana sensazione di disagio non lo lasciava in pace da quando erano arrivati. Era come se il suo sesto senso gli dicesse che sarebbe successo qualcosa di imprevisto prima della fine della nottata.
«A che cosa pensi?» gli domandò Jeff, dopo aver consultato per l’ennesima volta l’orologio da polso.
«A mia figlia. Non so ancora dove possa essere, e non stiamo facendo progressi in quella direzione. Non abbiamo idea di dove siano finiti i ragazzi che la notte dell’attacco si trovavano a quella maledettissima festa.»
Jeff era al corrente della faccenda, e finora aveva preferito non parlarne. Adesso, però, si sentiva in dovere di rincuorare il vicesceriffo. Era giusto, dopotutto. Lui stava cercando di fare il possibile per appoggiare la strategia di Goode, e a Jeff sembrava logico iniziare a pensare ad un modo per accontentare anche le sue necessità. «La ritroveremo» disse con tranquillità, e intravide il profilo di Steve Corall annuire nelle tenebre.
«So che è ancora viva, e che sta bene. La tengono prigioniera in una delle strutture che hanno occupato. Lo sento. Vorrei poter irrompere in quel posto e salvarla. In questo preciso istante, se solo sapessi dove la tengono.»
«Non sarai da solo, Steve. Quando scopriremo dove tengono i ragazzi metteremo la loro liberazione in cima alla lista delle priorità. Irromperemo tutti assieme in quell’edificio. Noi, i tuoi poliziotti e gli uomini di Goode. Tua figlia sarà lì ad aspettarci.»
«Lo spero tanto… Guarda. Un’auto.»
Jeff si girò a guardare la strada e scorse il muso del veicolo procedere lentamente nella loro direzione. I fari dell’automobile, come occhi indagatori che sondavano l’oscurità della notte, avanzavano a rilento, quasi che il conducente stesse decidendo se parcheggiare o meno. La sua prima reazione fu di accostare le dita all’impugnatura della pistola che teneva infilata nella cintura. La macchina si fermò, indugiò ancora per qualche istante e infine si infilò tra due vetture posizionate davanti all’ingresso principale della stazione.
Dalla parte del guidatore scese un ribelle con una maschera sulla faccia, il cappuccio calato sulla fronte e una pistola stretta in pugno. La porta della stazione si aprì e due uomini a volto coperto lo lasciarono passare senza nemmeno accertarsi della sua identità. Nella mente di Jeff Turner, in quel preciso istante, scattò qualcosa. Ma dovette reprimere immediatamente la nuova idea, perché più avanti si aprì una delle saracinesche poste sulla facciata della stazione e ne uscì un furgoncino blindato nero.
«Eccolo. Dobbiamo seguirlo» lo avvisò Steve Corall, teso come la pelle di un tamburo tribale. Jeff mise in moto l’auto tenendo i fari spenti e si preparò a pedinare il veicolo ribelle.

Gerald McGale entrò con circospezione nella stazione ferroviaria di Eglon e i due rivoluzionari appostati dietro la porta lo lasciarono passare con un cenno del capo.
Richiamando a sé tutta la sicurezza che i mesi di addestramento gli avevano conferito, Gerald avanzò nel salone d’attesa della stazione completamente buio e si avviò in direzione dei binari, verso quella piccola zona illuminata da potenti riflettori. Si scorgeva la sagoma lunga e sinuosa del treno, con i vagoni aperti e numerati che esponevano il loro interno vuoto. Sulla destra riuscì ad intravedere una colonna di furgoncini blindati. Probabilmente, rifletté, in quei mezzi dovevano già essere state caricate tutte le casse di batterie. I trasporti sarebbero partiti a orari differenti, con destinazioni differenti, e senza incontrare alcun ostacolo avrebbero distribuito la merce per poi fare ritorno nei garage sotterranei.
Maschera Blu era in piedi di fronte al vagone numero quattro. Se ne stava a braccia conserte, a contemplare la carrozza aperta che nelle ultime ore era stata pazientemente svuotata da una squadra speciale vincolata al silenzio. Il contenuto di quel vagone era forse il più importante dell’intero treno, e mantenere il segreto era essenziale. Per far andare avanti la rivoluzione, nessuno doveva sapere di quelle batterie. Così come nessuno, al di fuori di un ristretto gruppo di uomini fedeli, doveva sapere in quali luoghi sarebbero finite.
«Sono qui» annunciò, nascondendo la pistola nella cintura e affiancandosi a Maschera Blu. Quest’ultimo si volse a sogguardarlo un istante e gli lanciò un cenno d’intesa silenzioso. Non c’era bisogno di parlare. Non in quel momento, almeno, perché l’ultimo segreto del vagone quattro stava per essere svelato. E gli unici a vederlo
(gli unici autorizzati a vederlo)
sarebbero stati proprio loro due.
«È giunto il momento. È tempo di scoprire se la Fase Due deve essere avviata stanotte» proclamò Maschera Blu sottovoce, con aria meditabonda.
«Sei agitato?» gli domandò, in tono distaccato. Stava sudando freddo. Non doveva tradire le emozioni. Non doveva fargli capire che quel pomeriggio, all’inceneritore, aveva guardato sotto le maschere e aveva trovato il volto del prigioniero morto. Non doveva assolutamente farsi scoprire, altrimenti il suo viaggio si sarebbe concluso lì, in quell’istante, quella notte stessa.
«Un po’ sì, lo ammetto. Spero soprattutto che la Fase Due sia stata ritardata di qualche giorno ancora.»
«Perché mai?» volle sapere, sorpreso dall’affermazione del suo interlocutore.
«Perché non siamo ancora pronti. Eglon non è pronta, e questo mi spaventa. Non abbiamo finito di organizzare gli ultimi preparativi, non siamo in grado di intraprendere l’operazione come si deve. Ci occorre più tempo, ecco tutto. Soltanto qualche giorno ancora.»
Gerald non replicò. Capiva la situazione, e forse Maschera Blu aveva ragione. In fondo, la Fase Due avrebbe decisamente cambiato le carte in tavola. Le avrebbe prese e rimescolate per formare un nuovo mazzo, e la partita si sarebbe combattuta in maniera diversa. Nessuna garanzia di vittoria, questa volta. E un obiettivo molto più delicato da conquistare.
«Su, coraggio» si ridestò finalmente Maschera Blu, sciogliendo le braccia incrociate e salendo sul vagone quattro ormai sgombro. «Vediamo quali sono gli ordini.»
Gerald lo imitò e Maschera Blu sfoderò una torcia e la accese, puntandola sul fondo della carrozza e facendola scorrere tra una scanalatura e l’altra. Riconobbe immediatamente il minuscolo foro praticato sul metallo all’altezza dei piedi di Gerald e gli disse di spostarsi. Con un piede di porco fece pressione sulla scanalatura dell’assicella metallica contrassegnata e questa venne via con incredibile facilità, ricadendo di lato e rivelando uno scomparto segreto rettangolare. All’interno, adagiata con cura nel nascondiglio, c’era una busta sigillata.
«Ci siamo. Ecco il momento della verità, amico mio» sentenziò Maschera Blu, raccogliendo da terra la busta e posando le dita sul sigillo in ceralacca. Nessun simbolo impresso, nessun segno di riconoscimento. Bene. Era quella giusta. Erano i nuovi ordini.
Gerald osservò il compagno rompere il sigillo e aprire la busta. Maschera Blu infilò due dita all’interno e le ritrasse con un foglietto di carta bianca ripiegato e una bustina più piccola.
Gerald si sentì sussultare. Il cuore gli batteva all’impazzata e l’agitazione stava lievitando. Si era quasi dimenticato del volto del prigioniero nascosto dietro la maschera lasciata cadere nell’inceneritore, così come di Cathy che lo aspettava in auto e del cadavere di “Peter Norton” chiuso nell’armadio della sua camera. Per un momento, tutte queste realtà scomparvero e l’unica cosa che rimase fu quel biglietto piegato con maniacale accuratezza.
Per prima cosa, Maschera Blu aprì la bustina bianca più piccola e ne fece cadere il contenuto sul palmo della propria mano: una chiave lucida, minuscola, che si infilò in tasca silenziosamente. Quindi fu il turno del biglietto, che venne illuminato dalla torcia di Maschera Blu sotto gli occhi curiosi di Gerald. Il messaggio, scritto in corsivo, in una grafia minuta e ordinata, recitava poche semplici parole: Avvio della Fase Due previsto fra due settimane esatte. Contingenti pronti, rinforzi in arrivo. L’esercito sta preparando un reparto speciale per l’assalto ad Eglon. Respingete il Commando Alfa e provvedete a mantenere in vita la popolazione. Sterminate i poliziotti prima che riescano a mettere in piedi un’offensiva.
Maschera Blu sollevò gli occhi dal biglietto e scrutò attentamente la maschera impassibile di Gerald. Fu questione di un attimo, perché il pugno in pieno stomaco arrivò quasi subito. Maschera Blu si piegò in due sul biglietto che reggeva in mano e la pistola di Gerald fu veloce a puntarsi sulla sua tempia, tenendolo sotto tiro.

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