lunedì 20 febbraio 2012

Le Anime di Eglon - Episodio 24 - Incontri e Scontri

Musica a tutto volume. Energica, di quella abbastanza potente da far vibrare le tende della camera da letto. Hollywood Undead, sparati ad un ritmo talmente sostenuto da far credere di essere in bilico sull’orlo della morte. Era così che gli piaceva. Oh sì, solo così poteva togliersi dalla testa tutto ciò che aveva visto quella mattina fuori di casa.
Il computer portatile, attaccato alla presa della corrente tramite il cavo di alimentazione, illuminava il viso di Rick McField. Il ragazzo, sdraiato sul letto, aveva collegato le cuffiette del suo iPod direttamente al portatile e adesso si stava gustando l’ultimo disco degli HU con l’amaro in bocca. Non poteva scaricarsi niente di nuovo, non poteva accedere a Facebook, non aveva modo di controllare la posta elettronica. Era tagliato fuori, in parole povere. Così come lo era tutto il resto della sua dannatissima città.
Google non rispondeva alle sue insistenti suppliche di resurrezione, e alla stessa maniera si comportavano i beneamati Youtube, Blogger e iTunes. Una tremenda catastrofe, ma non pareva ancora del tutto irrimediabile. Nel senso che non si trattava di un virus informatico, dopotutto: non aveva bisogno di ripristinare il sistema, gli bastava aspettare che internet tornasse in vita. Appena le linee fossero state ricollegate, non ci sarebbero più stati problemi di connessione e la sua esistenza sarebbe ritornata ad essere com’era prima di quell’incomprensibile vicenda.
Il suo computer funzionava, perlomeno. Aveva rimosso la batteria prima di collegare il portatile alla corrente di casa. Gli avevano spiegato di fare così, quando l’aveva comperato giù al negozio di Neighbour Street: in questo modo non rischiava di usurare la carica della batteria troppo in fretta e di ridurne l’autonomia nel giro di qualche mese. In quel computer aveva tutti i suoi film preferiti, le sue canzoni, i suoi giochi. Tutti i dati più importanti della sua vita erano contenuti in quell’hard disk da cinquecento giga, e finché continuava a sparargli musica nelle orecchie andava tutto bene.
Quella mattina, a scuola, aveva assistito ad una scena terrificante. Le classi erano logicamente quasi del tutto vuote, e un quarto dei professori non si era presentato a lezione negli ultimi giorni. I genitori di Rick avevano insistito affinché non rimanesse a casa a poltrire, e lui aveva protestato un po’ ma alla fine aveva ubbidito al comando di mamma e papà. D’altronde, bisognava dire che in fin dei conti non aveva scelta.
La scena più raccapricciante della sua esistenza gli si era offerta quella mattina alle otto in punto, quando assieme ad un paio di compagni di classe era entrato in aula. Era stata addirittura peggiore di quella volta in cui alcuni amici al campeggio avevano legato uno scoiattolo e gli avevano infilato in bocca un petardo acceso. Il botto aveva schizzato sangue da tutte le parti, persino sulla sua faccia. Ma entrando a scuola quella mattina, mettendo piede tra quelle quattro pareti che lo ospitavano cinque giorni su sette…
Trovare il prof di religione impiccato sopra alla cattedra rovesciata non era stato molto carino. Specie perché aveva gli occhi sbarrati, e perché la cintura per la quale era appeso oscillava ancora…
Ad ogni modo, era acqua passata. I suoi genitori avevano acconsentito a tenerlo a casa da scuola, e i pochi professori rimasti avevano pregato anche gli altri di fare lo stesso. La situazione era troppo drammatica per fingere che non stesse accadendo nulla. Non era possibile chiudere gli occhi di fronte ad una realtà simile. Era semplicemente sbagliato.
D’un tratto il computer portatile di Rick si spense e il viso illuminato del ragazzo sprofondò nell’oscurità.

LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 24
INCONTRI E SCONTRI

Erano le sette e cinque minuti, e Stan cominciava ad essere impaziente. Sogguardava di continuo l’orologio, e così facendo si rendeva conto di attirare su di sé l’attenzione ma allo stesso tempo non poteva evitarselo. Jeff Turner aveva detto alle sette, dannazione, ed erano già passati cinque minuti. Stare lì fermi in mezzo alla piazza del municipio non era una scelta troppo saggia, e la pistola che teneva incollata all’inguine all’interno dei jeans gli dava fastidio.
Robert aveva insistito per accompagnarlo, e alla fine Stan aveva dovuto accettare. Anche e soprattutto perché Sarah si sentisse più tranquilla. Christine e Michael erano sempre più schivi, sempre più chiusi, e la situazione non piaceva a nessuno di loro. Era meglio per i suoi figli che si trovasse una soluzione in fretta, e che sia lui sia Robert ritornassero indietro sani e salvi. Così gli aveva detto Sarah prima che uscissero, e, dopo aver scalzato la mattonella del seminterrato e aver recuperato il revolver di Robert, Stan aveva acquisito sufficiente sicurezza da risponderle di non preoccuparsi.
«Rispiegami che cosa stiamo aspettando…» barbugliò Robert con fare annoiato, scrutando torvamente la piazza deserta circostante. Le transenne erano state rimosse dalla mattina precedente, e allo stesso modo la scalinata era stata resa agibile e i furgoni blindati erano scomparsi. Due rivoluzionari armati piantonavano l’ingresso del municipio; più in basso, in fondo ai gradini, altri tre uomini a viso scoperto se ne stavano fermi con le mani impegnate a sorreggere voluminose mazze da baseball. Dovevano essere gli uomini di Victor Johnson, valutò Stan tra sé e sé, osservandoli attentamente e avvicinandosi a Robert per potergli parlare sottovoce.
«I due tizi di ieri mattina, Robert. Dobbiamo fare quattro chiacchiere con loro» rispose bisbigliando, come se non gliel’avesse già detto una mezza dozzina di volte.
«Amichevoli?»
«Può darsi. Ma anche no. Quindi cerca di tenere gli occhi aperti, okay?»
«Okay» acconsentì Robert, puntando lo sguardo in direzione della facciata del municipio e riportandolo subito dopo a posarsi sul marciapiede che separava la piazza dalla carreggiata di Main Street.
Non sapeva con esattezza che cosa sarebbe successo, quella mattina. Sapeva soltanto che Jeff e Frank gli sembravano a posto, e che aveva voglia di fidarsi di loro. Aveva bisogno di fidarsi di loro, altrimenti non avrebbe avuto alcuna speranza alla quale aggrapparsi. L’unico modo per tenere Sarah, Christine e Michael al sicuro era impedire ai ribelli di continuare a bloccare la città, e per fare questo dovevano riuscire a mettersi in contatto con l’esercito. Non c’era altra strada.
Le sette e dieci. Ma dove cazzo siete, si può sapere?
Incominciava ad innervosirsi. E se fossero stati dalla parte dei rivoluzionari? Se Jeff e Frank fossero stati dei doppiogiochisti e gli avessero detto di venire in piazza con la sua pistola per poterlo incastrare?
Stan Payton iniziò a sudare freddo, ma non si scompose. Non c’era più tempo per tirarsi indietro. Ormai aveva puntato, e i soldi non si potevano più rimettere in tasca. Erano sul banco, in attesa che le carte coperte venissero svelate.
Sono proprio un coglione. Se mi beccano con questa pistola è la fine, non solo per me e Robert, ma anche per Sarah e i ragazzi. Ma ormai non me ne posso andare. Sono qui, sto aspettando. Dai, cazzo, dove siete?
Si sentì tamburellare una mano sulla spalla e si voltò spazientito per dire a Robert una volta per tutte di finirla di rompergli le palle, ma il volto che si trovò davanti lo fece sussultare. Era l’espressione di plastica indecifrabile di una maschera colorata, e dietro i fori degli occhi si poteva scorgere soltanto un’oscurità infinita.

«Ho bisogno di farti parlare con un amico, Daniel. Ti dà fastidio?» lo interrogò il vicesceriffo Steve Corall, sondandolo con occhi inquisitori.
«No, nessun fastidio…» rispose Daniel Green, vagamente agitato. Le ragazze erano rimaste a casa, in attesa di raggiungerlo in ospedale nel primo pomeriggio per parlare con il dottore che si occupava del cugino di Rebecca. Così, lui era uscito da solo per incontrarsi con il vicesceriffo Corall, che gli aveva comunicato ora e luogo dell’appuntamento la mattina addietro, prima di sparire in mezzo alla folla radunata nella piazza del municipio.
«Perfetto, allora. Vieni con me. Dovrebbero arrivare altre persone, tra non molto.»
Si avviarono a passo sicuro lungo la strada secondaria, attraversando Main Street accanto ad un semaforo e proseguendo verso la periferia, in direzione est.
«Che fine hanno fatto gli altri poliziotti?» volle sapere Daniel. Parlò a bassa voce, consapevole del fatto che la polizia di Eglon era in cima alla lista dei ricercati. Il vicesceriffo Corall lo squadrò con fare diffidente.
«Al mio gruppo è stato offerto asilo da una persona molto importante. È da quest’uomo che stiamo andando adesso, per parlargli. Non so che fine abbiano fatto gli altri. Noi ci siamo salvati in dodici, durante la fuga. La notte dell’attacco eravamo diretti verso l’aeroporto, subito dopo aver abbandonato la centrale occupata dai ribelli. Lì abbiamo trovato un bel gruppetto di bastardi armati di mitragliatrice che hanno fatto fuori metà dei nostri compagni. Ne abbiamo persi altri lungo la strada, prima che una via di scampo si spalancasse improvvisamente in mezzo ad un vicolo sconosciuto» narrò sinteticamente Steve Corall, mantenendosi sul vago.
«Chi è quest’uomo che vi ha salvati?»
«Lo conoscerai tra qualche minuto, non temere. Potrebbe farti qualche proposta interessante, quindi preparati a rifletterci con molta attenzione. Penso che sia l’unico, ormai, a poter decidere il destino della città.»
«Dev’essere un tipo davvero potente, allora» considerò Daniel.
«Non puoi nemmeno immaginare quanto, ragazzo.»
Svoltarono a destra e poi imboccarono un viottolo piuttosto stretto di nuovo a destra. Daniel non ricordava di essere passato molte volte per quella zona della città, ma allo stesso tempo aveva qualcosa di famigliare. Come se appartenesse a qualche vecchio ricordo parzialmente rimosso.
«Sai, mia figlia era ad una festa, la notte dell’attacco. È scomparsa assieme a tutti gli altri ragazzi che si trovavano con lei. Non ne è rimasto nemmeno uno, indietro. Non so dove li abbiano portati, ma spero che stiano bene. Michelle è tutto quello che mi rimane, da quando sua madre se n’è andata. Non posso sopportare l’idea di perdere anche lei.»
Daniel Green rimase in silenzio, domandandosi che cosa rispondere. Non ci fu bisogno di aprire bocca, perché il vicesceriffo riprese a parlare da solo dopo qualche secondo di pausa.
«Per questo non sono assolutamente d’accordo con il nuovo sindaco, Daniel. Mi dispiace parlare male di tuo padre, ma non posso che guardare con orrore alla sua proposta di appoggiare i ribelli. Eglon non si schiererà mai dalla loro parte. Non tutta Eglon, perlomeno. E noi, adesso, ci troviamo su quell’ala che ha deciso di opporsi al sindaco Green e alla Rivoluzione.» Si bloccò tutto d’un tratto e si volse a guardarlo in viso, penetrandogli ogni difesa con lo sguardo. «E tu, ragazzo? Che cosa ne pensi? Hai avuto modo di riflettere su quello che ha detto tuo padre?»
Daniel si fermò assieme a lui e per qualche istante sostenne il suo sguardo. Dopodiché, però, si vide obbligato ad abbassare gli occhi e a posarli sulle punte delle proprie scarpe. Aveva avuto modo di rifletterci eccome, nelle ultime ore. Ci aveva pensato per tutta la notte, ed era arrivato alla conclusione che a suo padre doveva essere successo qualcosa di terribile. Thomas Green non era l’uomo che aveva parlato dalla sommità della scalinata del municipio la mattina precedente. Non era l’uomo che si era rivolto alla piazza di Eglon con quel ghigno beffardo, affiancato dal sorriso falso di Victor Johnson. Thomas Green era tutt’altra persona, e Daniel intendeva scoprire che cosa gli fosse accaduto. Sentiva il bisogno di sapere che fine avesse fatto realmente suo padre.
«Credo di trovarmi anch’io dalla sua parte, vicesceriffo Corall» mormorò titubante, e di nuovo sollevò gli occhi per sostenere lo sguardo pesante del poliziotto e si sentì letteralmente schiacciare sotto quelle pupille tremendamente sottili e spaventosamente profonde.
«Allora direi che non c’è altro da discutere. Puoi aprire, Dave!» chiamò con un tono di voce più alto, rivolgendosi alla parete muta alle spalle di Daniel. Una porta che prima il ragazzo non aveva notato si spalancò sul muro scalcinato e rivelò una luce greve e polverosa, che fuoriuscì per una ventina di centimetri. «Prego, entra pure» soggiunse all’indirizzo del giovane, e Daniel senza farselo ripetere si addentrò nella piccola apertura e passò accanto ad un uomo tozzo e apparentemente poco sveglio che gli indicò un corridoio semibuio.
La porticina si richiuse alle loro spalle. Steve Corall lanciò un cenno affermativo al ragazzo e i due si avviarono a passo incerto lungo il cunicolo sconosciuto, accompagnati da sporadiche lampadine al neon che pendevano in maniera grezza dal soffitto per mezzo di semplici cavi elettrici scoperti. Il tizio che aveva loro aperto, Dave, non li seguì.
Il corridoio si snodava nella penombra apparentemente all’infinito, senza porte né finestre. Daniel si chiese dove si trovassero, esattamente, in quel momento. Erano sotto la città o si stavano muovendo all’interno del pianterreno di un grandissimo edificio? Rispondere a questa domanda era molto più difficile di quello che poteva sembrare, perché non gli pareva di essersi abbassato rispetto a quando si trovava fuori sulla strada, ma ogni tanto aveva come l’impressione che la pendenza del corridoio subisse lievi variazioni.
In fondo, dopo qualche minuto di silenziosa camminata, apparve il profilo di una stanza più ampia e illuminata.
«Come fanno ad esserci tutte queste luci, qui dentro? Mi pareva che la corrente fosse saltata in tutta la città…» osservò Daniel, leggermente perplesso.
«Questo posto ha un suo generatore autonomo alimentato a gasolio. Finché continua ad esserci carburante, possiamo tenere illuminati tutti gli ambienti che ci servono» spiegò il vicesceriffo con un pizzico di indifferenza, quasi che la faccenda non lo riguardasse affatto.
«Vi siete rifugiati qui, allora, voi poliziotti?» volle sapere Daniel, mentre il salone al termine del corridoio si faceva sempre più vasto e più vicino.
«Sì, proprio così. Siamo entrati da quella stessa porta che ci siamo appena lasciati alle spalle, e i nostri inseguitori hanno perso le nostre tracce. Se non fosse stato per il proprietario di questo posto, non saremmo riusciti a cavarcela.»
Un altro passo e il corridoio stretto e basso si tramutò in un ampio salone illuminato, all’interno del quale prendevano posto lunghissimi tavoli sgombri e voluminosi bancali sui quali erano accatastate pile di scatoloni chiusi.
«Che cos’è questo posto, esattamente?» domandò Daniel Green, esterrefatto.
«Il mio garage, ragazzo» rispose una voce lontana, seguita da un sonoro scalpiccio in avvicinamento. Daniel mise a fuoco la figura distante che veniva verso di lui e intravide un sorriso famigliare, che era certo di aver già incontrato prima di allora da qualche altra parte. «È qui che tengo la mia roba, per evitare che gli sbirri me la soffino da sotto il naso. Non è vero, vicesceriffo?»
Steve Corall rispose con un grugnito e un cenno d’assenso. Dietro di lui, a poco a poco, si radunò un gruppetto di poliziotti dall’aria fiera ma stanca. Era il suo gruppetto di sopravvissuti, intuì Daniel. Contando lo stesso vicesceriffo erano esattamente dodici.
«Quindi tu sei il figlio di quel bastardo del nuovo sindaco, eh?» riprese l’altro uomo, che ormai gli era arrivato davanti e gli stava già porgendo la mano. «Daniel Green, giusto? Io mi chiamo Joey Goode, molto piacere.»

«Dove andiamo, amico?» s’informò Phil, guardandosi furtivamente attorno.
«Ve l’ho detto: vi devo portare dal vicesceriffo Corall» ripeté tranquillamente Gregory Donington, controllando che il ribelle all’angolo della strada fosse girato dall’altra parte e facendo segno ai quattro agenti che lo seguivano di attraversare.
«È stato lui a chiedere quest’incontro?» domandò Patrick Wieler, felice di sentire che il suo collega stava bene. Il vecchio Steve, alla fine, se l’era cavata. Chissà quanti dei suoi uomini era riuscito a salvare…
«Sì. Ma ci troveremo con altre due persone, prima di raggiungerlo. Due amici del vicesceriffo che si sono offerti di darci una mano.»
Jeremy rimase in silenzio. La faccenda non gli piaceva troppo. Erano in cinque, e pareva inutile dire che davano decisamente nell’occhio. Cinque uomini in giro per strada attiravano l’attenzione. Erano tutti armati, perciò se fossero stati fermati da qualche rivoluzionario non avrebbero avuto scampo. Non si sentiva a suo agio, in quella situazione. Davvero per niente.
«Come li hai contattati?» s’informò Brian Jones, interessato.
«Anche questo ve l’ho già detto: ho incontrato il vicesceriffo mentre venivo verso la piazza. L’ho riconosciuto subito, perché qualche anno fa era venuto ad interrogare mia moglie dopo che aveva assistito ad una rissa in un supermercato. Mentre procedevamo assieme, due personaggi singolari gli si sono avvicinati e hanno confabulato un po’ con lui. Dopodiché mi hanno chiesto di trovarvi e mi hanno detto che ci saremmo rincontrati nel parco, stamattina alle sette e un quarto.»
«Capisco. Allora, che cosa hai in mente? Pensi che i poliziotti di Corall abbiano armi a sufficienza per organizzare una qualche sorta di controffensiva?»
«Francamente non lo so ancora. Non so nemmeno in quanti siano. So solo che ci sono, e che stanno cercando di mettere in piedi un piano d’attacco. Non vogliono starsene con le mani in mano ad aspettare che intervenga l’esercito: hanno intenzione di dare del filo da torcere ai ribelli e di aiutare i soldati ad entrare in città.»
«Dobbiamo trovare un modo per contattare i militari, insomma» riassunse Brian Jones con fare pensieroso. Jeremy lesse nella sua voce un pizzico di ironia, ma Gregory parve non coglierlo.
«L’idea è quella. Dobbiamo innanzitutto capire se qualcuno ha in mente un modo per riuscirci. Una volta intuito come fare, le armi ci aiuteranno ad agire.»
Il gruppetto si inoltrò nel vialetto di terra battuta che serpeggiava tra gli alberi del parco, zigzagando tra panchine dal legno marcio e cartelli che esprimevano divieto di accesso ai veicoli a motore, divieto di fumo, divieto di accendere fuochi e divieto di campeggio.
«Eccoli là, i nostri uomini» annunciò a bassa voce Greg dopo che ebbero superato l’ennesimo cestino della spazzatura rovesciato.
«Sono loro?»
«Sì. Jeff e Frank, hanno detto di chiamarsi. Ma i due tizi alle loro spalle non li conosco» confermò Greg, esitante.
Jeremy si fermò di fronte agli sconosciuti, di fianco ai propri compagni, e istintivamente portò la mano a posarsi in corrispondenza del calcio della pistola.

«State aspettando qualcosa?» chiese una voce impastata riecheggiando nella plastica della maschera.
Stan si sforzò di rimanere impassibile, ma il cuore gli batteva paurosamente forte. Era un ritmo concitato, come quello di una grossa campana in cima al più grande campanile del mondo in un giorno di festa. Solo che non c’era niente di cui rallegrarsi, in quel momento. Perché quel ribelle non voleva semplicemente sapere se stessero aspettando qualcosa: esigeva di saperlo, e il suo tono non lo nascondeva affatto.
«Aspettiamo due amici» spiegò Stan, cercando di mantenere il tono di voce più normale possibile. Temeva che il battito accelerato del suo cuore lo tradisse. Gli rimbombava nelle tempie talmente forte da dargli l’impressione di essere udibile in tutta la piazza. Come poteva non sentirlo, quell’uomo mascherato che gli stava davanti?
«A quest’ora della mattina?» indagò il ribelle, poco convinto.
Ecco, è finita. Se mi perquisisce trova subito la pistola, e io e Robert finiamo impiccati lungo lo stesso lampione di Main Street a cui hanno appeso quel poliziotto.
«Siamo tipi mattinieri. Ci piace andare a camminare quando il sole è ancora basso e non fa troppo caldo» mentì abilmente Stan, mantenendo un invidiabile controllo. Lanciò un mezzo sorriso al rivoluzionario, proibendosi di gettare un’occhiata alla mitraglietta che portava a tracolla. L’uomo annuì e si allontanò senza aggiungere altro, lasciandolo lì con il suo sospiro di sollievo trattenuto.
«Stan?» lo chiamò Jeff Turner, raggiungendolo trafelato. «Tutto bene?»
«Sì, diciamo che me la sono cavata» lo rassicurò, sentendosi di colpo più tranquillo.
«Andiamo: arriveranno fra qualche minuto nel parco» concluse Jeff, e i tre partirono e abbandonarono dietro di sé la piazza deserta.

«Joey Goode? Il contrabbandiere? Quello che gestisce l’intero giro d’affari della malavita di Eglon?» specificò Daniel Green, lievemente scosso. Doveva ammettere di essere stato preso in contropiede: non si aspettava che il vicesceriffo Corall collaborasse con un uomo che aveva una fama come quella di Goode. Era come vedere un lupo e un agnello gironzolare uno in groppa all’altro.
«In carne ed ossa, mio caro. E sono qui per inginocchiarmi con tutti i miei crimini e le mie ricchezze di fronte a te, l’unico ragazzo in grado di aiutarmi. Ho bisogno di te, Daniel. La città di Eglon ha bisogno di te» scandì Joey Goode con fare cerimonioso, simulando un inchino.
«Che cosa potresti mai volere da me?»
Goode si rialzò e lo squadrò con estrema freddezza, producendo un sogghigno che gli fece venire i brividi. Socchiuse le labbra e bisbigliò: «La testa di tuo padre, per esempio.»

«Signor Donington. Ha trovato le persone che cercavamo, a quanto vedo» esordì Jeff Turner, spezzando il silenzio calato sul parco.
«Credo che impiegheremmo più tempo di quello che abbiamo a fare le dovute presentazioni, dunque ci conviene muoverci. Questo non è un posto troppo sicuro» intervenne Brian Jones, accennando ai due ribelli posizionati un paio di alberi più in là.
«Nove uomini armati che si incontrano in mezzo ad un parco. Che cosa c’è di più sicuro, amico?» replicò Frank, accompagnando le parole con una fugace strizzatina d’occhio.
«Credo che il mio collega abbia ragione» sentenziò Gregory Donington, appoggiando l’affermazione di Brian.
«Non c’è nessun problema. Possiamo parlare anche qui» insistette Frank, girandosi a guardare i due rivoluzionari che nel frattempo li stavano osservando con circospezione.
«Se vengono qui e ci controllano è finita!» ribatté Phil, distogliendo lo sguardo dalle maschere ora in rapido avvicinamento.
«Non vedo l’ora, cazzo! Dai, venite, datevi una mossa!» berciò Frank, voltandosi verso i ribelli e vociando al loro indirizzo.
I due affrettarono il passo e sollevarono i fucili automatici che avevano con sé, mettendosi quasi a correre nella loro direzione. «Ehi, voi!» sbraitò uno, rimuovendo in un lampo la sicura.
«Ma sei pazzo?!» gridò Patrick Wieler, portandosi la mano alla fondina.
Frank estrasse dalla cintura una grossa pistola di metallo cromato con un silenziatore all’estremità della canna e la spianò senza tanti complimenti, premendo il grilletto quattro volte in una successione spaventosamente veloce. I due rivoluzionari non ebbero nemmeno il tempo di prendere la mira: crollarono a terra inermi sul vialetto di terra battuta e non si mossero più, inchiodati al suolo come oggetti d’arredamento sfasciati.
«Adesso possiamo parlare in tutta tranquillità» asserì serenamente Jeff, e sorrise agli agenti rimasti imbambolati davanti a lui.

Le sigarette che le aveva regalato quel Joey, stava pensando Emily Cooper mentre attraversava la strada davanti alla stazione ferroviaria di Eglon, erano davvero buone. Forse perché erano le uniche rimaste in tutta la città, rifletté. Ma anche perché le erano state donate con tanta gentilezza da arrivare quasi a commuoverla. Quel Joey Goode era stato infinitamente elegante con lei, e dopo che l’aveva portata nel suo “garage” pieno di tavoli e bancali di scatoloni chiusi Emily era arrivata a capire che in fondo in fondo non era davvero male. Nessun fidanzato era mai stato cortese con lei quanto Joey Goode quella notte, e stava iniziando a pensare che sarebbe andata ad incontrarlo ancora. Chissà, magari le sigarette potevano essere un’ottima scusa…
Quella che le penzolava dalle labbra era quasi finita. Era dovuta uscire dall’hotel per prendere una boccata d’aria, perché là dentro rischiava di soffocare. Una bella passeggiata mattutina poteva essere davvero salutare. Visto che non aveva niente di meglio da fare, tanto valeva approfittarne.
Uno sfrigolio la distolse dai propri pensieri. Uno sciacquio distante, remoto, che sembrava avvicinarsi rapidamente e crescere d’intensità. Era lo sferragliare di un animale quanto mai improbabile, una gigantesca bestia di ferro che avanzava a folle velocità.
Rischiando di farsi investire da un’auto che si bloccò a pochi centimetri dalle strisce pedonali, Emily Cooper restò paralizzata in mezzo alla strada a guardare l’immenso treno che stava frenando in prossimità della stazione di Eglon, arrestandosi con un acre stridio metallico.

Nessun commento:

Posta un commento