lunedì 13 febbraio 2012

Le Anime di Eglon - Episodio 23 - Amanti Segrete

Sabato mattina, finalmente. Quant’è bello il sabato mattina, quando si porta dietro la consapevolezza che un’altra settimana è finita? Impossibile rispondere a questa domanda. Impossibile quantificare la bellezza assoluta del sabato mattina. Specie di quel sabato mattina in particolare, che si prospettava sereno e invitante.
«Erika! Come stai, amore?» la riscosse la voce di Brittany, delineandosi nell’aria come il tocco magico di un angelo sospeso. Erika si voltò e vide l’amica venire avanti con un ampio sorriso. Si fermò ad aspettare che la raggiungesse e si scambiarono un bacio sulle guance, abbracciandosi.
«Tesoro, sono felice di rivederti. Oggi è proprio una bella giornata, vero?» disse Erika, inalando il profumo della compagna di classe e lasciando che per qualche istante le coccolasse i sensi, abbandonandosi nella sua fragranza inconsistente.
«Sì, sono d’accordo» approvò Brittany, separandosi dall’abbraccio e studiando la migliore amica con i suoi occhi espressivi. Aveva gli occhi azzurri, Brittany. Di quella particolare tonalità di azzurro che il cielo assume soltanto quando è completamente sgombro. I capelli, biondo chiaro, le ricadevano sciolti sulle spalle e la pelle perfetta, liscia come la superficie di un foglio di carta appena pressato, si distendeva in un sorriso assolutamente disarmante, attraente.
Brittany squadrò l’amica, che aveva una lunga chioma bruna e occhi di un marrone incredibilmente profondo, quasi surreale. Anche la pelle di Erika era perfetta, valutò mentre la esaminava da vicino, e il suo corpo era snello e slanciato.
«Niente compiti e niente interrogazioni stamattina, giusto?» domandò ancora Erika, affiancandosi all’amica e avviandosi con lei in direzione del liceo, che si trovava lungo Main Street a circa due isolati di distanza dal municipio di Eglon.
«No, teoricamente no» confermò Brittany, sempre raggiante. Si volse a guardare in viso l’amica e i loro occhi si scambiarono sussurri di una complicità inestimabile, che nessun altro al di fuori di loro sarebbe riuscito a cogliere. Si misero entrambe a ridacchiare e si tennero giocosamente per mano, andando avanti per il marciapiede con estrema calma.
«Stasera che si fa?» riprese Brittany, mentre facevano il loro ingresso nel corridoio centrale del liceo, lasciandosi circondare da una fiumana di studenti in movimento.
«Devo fare da autista a mia sorella. Vuole andare alla festa di Tila Berkovich, e io la devo per forza accompagnare fino a là. Poi però sono libera» illustrò Erika.
«Beh, direi che uscire è escluso: sono troppo stanca, per questa settimana è meglio fare una cosa tranquilla… Vieni da me dopo aver mollato giù tua sorella e ci spariamo un film?» propose Brittany, lanciando una strizzatina d’occhio all’amica.
«Se è un horror ci sto!» approvò felice Erika, rispondendo con un sorriso d’intesa.
«Oro! Direi che siamo d’accordo, allora. Ti aspetto per le nove, nove e mezza al massimo. Ci buttiamo a letto in camera mia e ci guardiamo l’horror» concluse Brittany, scuotendo la cascata di capelli biondi e puntando i suoi occhi – scorci di cielo sgombro – in quelli marroni della compagna di classe. «Una serata tranquilla, come piace a noi.»
«Esatto» confermò Erika, ed entrarono assieme in classe.
Ancora non lo potevano sapere, naturalmente, ma non sarebbe stata affatto una serata tranquilla. Anzi.

LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 23
AMANTI SEGRETE

«Tesoro, ci sei?»
«Sono sotto casa tua, piccola» rispose Erika ridacchiando, infilandosi in tasca il telefonino e parcheggiando nel vialetto d’ingresso dell’abitazione di Brittany. Sua sorella era alla festa di Tila, che con ogni probabilità non si sarebbe conclusa prima delle due. Questo le garantiva almeno cinque ore di relax assieme alla sua migliore amica, prima di doverla andare a riprendere al campo da baseball facendosi strada tra automobili parcheggiate in doppia fila e ragazzini sbronzi intenti a vomitare dietro le siepi o, in alcuni casi, direttamente sul marciapiede.
Spense la macchina e rimase un minuto seduta dietro il volante per radunare i pensieri e risistemarli nel primo cassetto della sua scrivania mentale. Li avrebbe ripresi in esame più tardi, quando fosse tornata a casa. Niente pensieri, quella sera: erano lei e Brittany, inseparabili amiche fin dai tempi delle elementari, e voleva solo trascorrere qualche ora piacevole assieme prima di andare a dormire.
La giornata, alla fine, era stata molto più stressante del previsto. Quella mattina era scoppiata una bomba in municipio, o almeno così aveva sentito dire. Le pareva di aver udito l’esplosione, durante la lezione di storia, ma non ne era del tutto sicura. Era talmente concentrata nel prendere appunti che quasi non ci aveva fatto caso. Si mormorava che il sindaco fosse morto, e questo spiegava la presenza di dozzine e dozzine di poliziotti lungo Main Street intorno all’una, quando era uscita da scuola. L’evento non l’aveva toccata più di tanto: si era limitato a sfiorarla, passando oltre. Suo padre era amico del sindaco Donaldston, che era venuto qualche volta a cena a casa loro con la moglie e il figlio. Nulla di particolare. Era una persona che Erika giudicava okay, ma ad essere del tutto sincera non le era mai stato troppo simpatico.
Una luce si accese sulla facciata dell’abitazione di Brittany e il volto della ragazza comparve oltre il vetro della finestra incriminata, soffiando un sorriso limpido in direzione della vettura parcheggiata. Erika si decise a scendere e salutò l’amica con un cenno della mano, richiudendo pesantemente la portiera dietro di sé.
Non era troppo freddo. Tutto sommato, si stava bene. Si posizionò di fronte alla porta e attese che la compagna di classe arrivasse ad aprirle. Brittany spalancò l’entrata pochi secondi dopo, in vestitino e pantofole, e la accolse in casa con un ampio sorriso, precedendola in direzione della camera da letto.
«Che cosa guardiamo stasera, Britt?»
«Roba nuova, amore. Ancora horror, ma stavolta cambiamo» restò sul vago la giovane, introducendosi con Erika nella stanzetta spaziosa ma intima nella quale prendeva posto il suo letto a una piazza e mezza già spostato davanti allo schermo al plasma.
«Di che cosa si tratta?»
«Invece del solito film, ho pensato di iniziare a guardare una serie televisiva. Ben fatta, naturalmente. Ti piacerà, piccola, ne sono convinta. Si chiama The Walking Dead
«Zombie?» azzardò Erika, intuendo l’argomento dal titolo.
«Esatto: zombie. Ma come non li hai mai visti prima» rettificò Brittany, facendole l’occhiolino e accendendo il lettore DVD collegato al televisore.
«Mi hai incuriosita abbastanza» ammise Erika ridacchiando, togliendosi le scarpe e buttandosi sul letto. Brittany la raggiunse e sistemò i cuscini per poter tenere la testa sollevata in direzione dello schermo, quindi si sdraiò accanto all’amica, facendo partire il video.
«Tua sorella?» domandò Brittany, mentre osservavano il protagonista camminare con aria spaesata in mezzo ad una strada affollata di automobili semidistrutte.
«È alla festa della Berkovich. Dovrò andarla a prendere verso le due, credo…»
«Perfetto: così abbiamo il tempo di guardarci i primi tre episodi» commentò Brittany, stringendosi attorno al braccio della compagna di classe che rise sommessamente.
Il protagonista richiamò l’attenzione di una bambina bionda che si allontanava tra i rottami delle automobili piene di cadaveri. Le promise che non le avrebbe fatto del male. La ragazzina si voltò lentamente, mostrando una faccia pallida e spruzzata di sangue, in parte devastata da un morso. Erika afferrò istintivamente la mano dell’amica e la strinse nella propria.
Brittany sorrise in silenzio. La mano di Erika appariva fredda, nel tepore della sua. Piegò leggermente la testa di lato sul cuscino per osservare l’espressione tesa e spaventata dell’amica, e nel guardarla i capelli dorati le ricaddero in parte sul viso.
Iniziò la sigla di apertura ed Erika si voltò verso la compagna, trovando i suoi occhi, azzurri come un cielo eccezionalmente sgombro, già puntati nei propri.
Si chiese perché Brittany la stesse guardando. Nello stesso momento in cui si poneva questa domanda, si accorse che il cuore le batteva forte. Era strano. Una sensazione strana, che non le sembrava di aver mai provato prima. Anzi no, non era del tutto vero: non si trattava di una sensazione completamente sconosciuta, realizzò dopo qualche istante di riflessione. L’aveva già provata altre volte. E tutti i ricordi che in qualche modo contenessero quella sensazione erano legati direttamente a Brittany, ai suoi occhi e ai suoi sorrisi.
Ma che cosa significa?
«Sai, sono felice di passare il sabato sera con te. Sei la mia migliore amica, piccola» sussurrò Brittany, mentre al di là del letto si consumava la sigla di apertura del primo episodio di The Walking Dead. Ormai non erano più interessate alle immagini che scorrevano sullo schermo, né tantomeno ai suoni e ai dialoghi che permeavano la stanza. L’esistenza, in quei minuti di statica contemplazione, si limitò ai loro sguardi intessuti e alle loro parole mute, al loro abbraccio di sensi che ben presto si tramutò in un abbraccio fisico.
Fu Erika la prima a spostarsi. Lasciò andare la mano di Brittany, si girò sul letto verso l’amica e la abbracciò, stringendola a sé con forza. Le bisbigliò nell’orecchio: «Anche tu sei la mia migliore amica, Britt. E anch’io sono felice di essere qui con te.»
E perché adesso il cuore le batteva così all’impazzata? Che cosa significava? Sentiva anche i battiti del cuore dell’amica, che le martellavano il petto attraverso la maglietta. Sentiva il calore e il profumo di Brittany addosso, il loro corpi che lentamente si intrecciavano in quell’abbraccio di affetto infinito che stava a poco a poco fondendo i loro respiri e i loro sentimenti.
(perché fai così, Britt?)
Erika sentiva il seno di Brittany premere contro il proprio, nonostante le rispettive magliette opponessero strenua resistenza. Percepì chiaramente una delle gambe dell’amica circondarle il fianco nell’abbraccio, e si lasciò stringere con più energia.
Non ce la faceva più. Si sentiva scoppiare, e non sapeva perché. Era come se un’improvvisa onda d’urto stesse per irrompere dal suo petto, potente e magica come un fuoco che scaturiva direttamente da una distesa di ghiaccio perenne. Si lasciò inebriare da quell’inedita sensazione di abbandono e finalmente ogni barriera si sciolse. Come un via libero improvviso, qualcosa nella sua anima si frantumò. Dai cocci di quell’essenza distrutta, Erika aspirò tutta l’emozione repressa che fino ad allora aveva tenuto celata e posò un bacio sulla pelle sottile e delicata del collo di Brittany, scostandole i bei capelli biondi con le dita.
Un altro bacio sul collo, salendo verso il mento. Un altro, e poi un altro ancora, come una serie inesauribile di passi che conducevano verso una meta tanto sconosciuta quanto profondamente desiderata.
Brittany rimase immobile ad aspettarla, con gli occhi azzurri spalancati e puntati su di lei, mentre Erika con i suoi baci risaliva il profilo del viso della compagna abbandonando il collo e raggiungendo pian piano il mento, spostandosi furtiva sull’orlo delle labbra, soffermandosi presso di esse, scambiando il suo respiro con quello della migliore amica e… le loro bocche si ritrovarono ad essere incollate, come per incanto, e a scambiarsi calore di una qualità decisamente diversa.
La lingua di Brittany sfiorò le labbra di Erika e trovò un varco per poter passare oltre. Nell’abbraccio senza tempo che si stava consumando su quel letto illuminato dalle immagini dello schermo televisivo, Erika e Brittany continuarono a baciarsi prolungando la sensazione all’infinito, a poco a poco svestendosi e sperimentando l’una il sapore dell’altra.

Quando si svegliò di soprassalto, Brittany si rese conto che l’aria era cambiata. Aveva la testa appoggiata sul petto di Erika, nell’incavo tra i suoi seni per metà scoperti, e i capelli distesi a raggiera sulla pelle liscia e profumata della migliore amica. Il respiro di Erika, sommesso e regolare, la faceva sollevare e abbassare ad un ritmo lento e suadente, quasi ipnotico.
C’era odore di bruciato nella stanza, e il fioco bagliore proveniente dallo schermo televisivo si adagiava sui loro corpi seminudi come un impalpabile velo di polvere sui mobili di una casa abbandonata da poco.
Brittany tirò su la testa adagio, cercando di focalizzarsi sulla sveglia posizionata sul comodino accanto al braccio di Erika, ma non riuscì a leggere l’ora. Uno sbadiglio salì impellente e fu obbligata a spalancare la bocca per farlo uscire, liberandolo. La vista le si appannò leggermente. Con gli occhi umidi andò nuovamente alla ricerca della sveglia e riuscì a mettere a fuoco non senza una certa difficoltà: le dieci e mezza. No, un attimo… L’una e mezza!
Oh Cristo, ci siamo addormentate!
«Erika! Erika, svegliati tesoro!» chiamò sottovoce, scuotendo dolcemente la compagna di classe addormentata lì accanto. Erika aprì gli occhi esitante, sbadigliando sonoramente, e le sorrise con fare dolce e accomodante.
«Che cosa c’è?»
«Ci siamo addormentate! È l’una e mezza!»
«Non importa. Non è un problema. Mia sorella non uscirà dalla festa prima delle due, piccola…» la tranquillizzò la ragazza, mettendosi a sedere con la schiena appoggiata ai cuscini. Si guardò un seno scoperto e parve rimanere un attimo a pensarci su, come se non ricordasse. Quindi sollevò la testa e sorrise maliziosamente all’amica, sistemandosi il reggiseno e recuperando la maglietta dal pavimento.
«Controlla lo stesso, amore. Non vorrei farti prendere parole dai tuoi» insistette Brittany, preoccupata.
Erika ridacchiò e la guardò con amorevole divertimento, mormorando: «Se sapessero com’è andata la serata, non prenderei soltanto parole…»
Brittany sorrise. Era vero. I genitori di Erika erano molto religiosi, e lei lo sapeva. L’ultima volta che era stata a cena da loro si era vista costretta ad improvvisare una preghiera assolutamente sconosciuta, prima di poter infilare la forchetta nelle lasagne fumanti, e si era sentita lievemente fuori posto. Fortunatamente, Erika le era venuta incontro recitando a voce più alta per coprire i suoi borbottii sconnessi. La vicenda era stata fonte di risate e occhiate d’intesa tra loro due per almeno un paio di settimane.
Erika si sporse in direzione del comodino e afferrò il cellulare, portandoselo davanti agli occhi per verificare che la sorella non le avesse inviato qualche messaggio. Ne trovò uno in memoria, uno soltanto, inviato pochi minuti dopo che l’aveva lasciata nel parcheggio sovraffollato del campo da baseball: “Vienimi pure a prendere verso le tre, se per te non è un problema.” Scrisse rapidamente “Ok” e inviò, lasciando ricadere il telefonino tra le pieghe delle coperte. «Tutto a posto» confermò. «La sorellina ci lascia un’ora in più.»
«Forse allora ci conviene ritentare di guardare quell’episodio…» propose Brittany, accennando al lettore DVD ancora acceso.
Il cellulare di Erika produsse un trillo inaspettato, che fece sobbalzare tutt’e due. La ragazza lo recuperò sbuffando e controllò lo schermo, che la avvisava semplicemente del fatto che il messaggio non era stato inviato.
«Messaggio non inviato. Non c’è campo» spiegò, rivolgendosi all’amica con fare interrogativo.
«Niente campo? Strano, qui il mio prende sempre bene» alzò le spalle Brittany.
«Eppure… Aspetta, vado a vedere se avvicinandomi alla finestra cambia qualcosa.» Si alzò e si incamminò scalza in direzione dello scorcio di vetro che dava sull’esterno, mentre Brittany rinveniva il suo cellulare accanto al televisore e lo riaccendeva.
«Ehi, neanche il mio prende. Mi sa che c’è qualche problema di segnale, non mi era mai successo in camera mia prima d’ora…»
«Britt… Vieni qui a vedere…» gloglottò Erika in tono funereo. Sembrava decisamente angosciata, e la sua voce fece preoccupare Brittany che mollò subito il telefonino e si fiondò davanti alla finestra accanto all’amica.
«Che cosa…?»
Le parole si sciolsero nell’aria, rimanendo presenti ma perdendo consistenza, come una singola goccia di latte precipitata in una modesta tazzina di caffè. D’altronde, di fronte ad uno spettacolo simile qualsiasi parola avrebbe immediatamente perso ogni significato. Non aveva senso parlare, quando le immagini stesse erano sufficienti a generare il più forte effetto possibile. Non aveva proprio senso. E, infatti, Erika e Brittany rimasero in silenzio, accostate al vetro, e inconsapevolmente si cercarono e si afferrarono, prendendosi per mano e stringendo quanto più possibile.
L’oscurità, lambita dal fuoco da ogni parte, non era che una vuota cornice di fronte allo scenario che si offriva ai loro occhi inorriditi.

«Devo assolutamente recuperare mia sorella, Britt!» strillò Erika, finendo di rivestirsi rapidamente e intascando le chiavi della macchina.
«Vengo con te» decise Brittany, inappellabile. Erika la squadrò malamente e quando l’amica le sorrise non poté fare altro che cedere, accettando la condizione.
Due minuti e mezzo più tardi si trovavano in auto. Erika girò la chiave e avviò il motore, Brittany chiuse la portiera e seguì la manovra di retromarcia dallo specchietto centrale. Rimpianse il calore delle coperte e del corpo nudo di Erika premuto contro il suo. Questo le rendeva molto più di semplici amiche, ragionò Brittany mentre la compagna di classe si immetteva nella via laterale, accelerando paurosamente. Questo le rendeva amanti. Amanti segrete, si corresse Brittany tra sé e sé. L’idea non le dispiaceva, solo che suonava così strana…
Non ricordava di aver mai provato nulla di particolarmente intenso per Erika. Allo stesso tempo, però, sapeva anche di amarla da sempre. Era come se fossero state amanti fin dal loro primo incontro, senza nemmeno rendersene conto. La verità era che ogni minuto era stato intenso, nel loro fitto e univoco rapporto di amicizia, per questo motivo nessun istante si era configurato come più speciale degli altri. Ecco perché non ricordava nulla di intenso: perché tutto, dall’inizio alla fine, era stato amore intenso.
«Britt, se è successo qualcosa a mia sorella i miei non me lo perdoneranno mai…» farfugliò Erika, visibilmente scossa ed evidentemente impaurita. C’era un’ansia corposa, definita nella voce di Erika, ed era rappresentata dal timore che i suoi genitori la odiassero per quello che aveva fatto. Che stesse provando del rimorso? Brittany se lo chiese, ma liquidò la domanda con un invisibile cenno di diniego: no, era solo spaventata. D’altro canto, non era l’unica.
«Non ti preoccupare, piccola. Pensa a guidare.»
Guardò fuori dal finestrino e notò alcune persone che correvano lungo un marciapiede. Decine di visi erano affacciati alle finestre delle abitazioni che sfilavano di lato. Passando di fianco ad uno svincolo intravide un furgone blindato parcheggiato in mezzo alla carreggiata e circondato da uomini incappucciati che parevano imbracciare delle armi.
Ma che cosa sta succedendo? È scoppiata la guerra? Siamo sotto attacco?
Non osava parlare, per paura di deconcentrare l’amica
(amante)
alla guida. Ma una serie inarrestabile di domande le invase la testa con impeto sovrumano, cancellando ogni possibilità di razionalizzare ciò che vedeva e alimentando fiamme di pensieri sempre più cupi e sempre più pessimistici.
Dai, piccola. Manca poco. Prendiamo tua sorella e torniamo a casa. Non mi piace tutta questa gente per strada. Le auto ferme, le persone che corrono, le urla, gli spari in lontananza…
Erika frenò bruscamente e svoltò a sinistra, infilandosi nel parcheggio gonfio di automobili spente del campo da baseball e bloccando la vettura a pochi passi dal cancello spalancato, lasciando il motore acceso e tirando il freno a mano.
«Che cosa vuoi fare?» volle sapere Brittany, agitata.
«Scendo e vado a vedere dov’è mia sorella» disse Erika con aria irrequieta, smontando dalla macchina e avviandosi in direzione del campo da baseball che già da lì si vedeva essere completamente deserto.
Povera piccola, pensò Brittany. Non c’è nessuno, qui. Sono spariti tutti.
Scese e raggiunse l’amica, che si era paralizzata sulla linea del cancello aperto. Il campo da baseball era illuminato da un chiarore debole e soffuso. C’erano rifiuti d’ogni genere sul tappeto erboso, e più in là trovava posto il tavolo sul quale erano stati piazzati il computer e la consolle del disc jockey della festa. Le casse, disposte attorno ad un consistente quadrato di terreno, erano immobili come vecchie reliquie di un passato cancellato. Una era stata capovolta e giaceva all’insù sull’erba calpestata, come un oggetto lasciato cadere nella foga di una fuga improvvisa.
«Che cosa è successo, qui?» biascicò Erika, rassegnata.
«Proprio non lo so» rispose Brittany, osservando con crescente inquietudine i segni di cingoli sull’erba del campo, che partivano dal parcheggio e si inoltravano per diversi metri. Sembravano essere stati lasciati da un carro armato. Ma non era logico pensare che un carro armato fosse entrato nel campo da baseball della città di Eglon, giusto? Non lo era per niente.
«State cercando i ragazzi che c’erano qui?» domandò loro una voce stridente, innalzandosi ad inquinare il silenzio da un angolo della siepe alle loro spalle. Erika e Brittany si voltarono di scatto, terrorizzate, e si presero per mano indietreggiando. Un uomo seduto a terra si alzò in piedi lentamente e le squadrò con un sorriso falso e deforme. Sembrava avere la faccia consumata da una malattia, forse da un cancro. Gli occhi, due minuscole fessure nere sul viso gonfio, sogghignavano alla pari delle labbra tese. «Non devono essere andati lontani. Se li sono portati via con i loro furgoni blindati, sapete? Sono partiti con i loro furgoncini e il loro carro armato, e credo che non faranno più ritorno.»
Fu in quel momento che Brittany lo riconobbe: non poteva che essere Jason Paintree, il senza tetto che spesso incrociavano al parco dopo essere uscite da scuola. Suo padre, un giorno, le aveva raccontato che per colpa del tumore che gli aveva rosicchiato la faccia quando era giovane non era mai riuscito ad inserirsi bene nella società. Abitava ai margini di Eglon, chiedendo l’elemosina per comprarsi da bere e facendosi ospitare dal parroco nelle serate d’inverno più rigide. D’estate dormiva sulle panchine del parco, in primavera e in autunno trovava posto in qualche vicolo, di fianco ai cassonetti. Non era mai riuscito a trovarsi un lavoro per ben due motivi, aveva spiegato il padre di Brittany alla figlia quella volta in cui il discorso era saltato fuori: per la sua bruttezza e per il suo carattere difficile.
«Lei come fa a saperlo?» singhiozzò Erika, allarmata.
«Perché li ho visti, ragazzina. Li ho visti arrivare con il loro carro armato e i loro furgoncini blindati, li ho visti puntare le armi sui ragazzi e farli salire con la forza. Li hanno portati via, vi dico. Via, verso Main Street. Verso una delle case fantasma» borbottò Jason Paintree, in tono malfermo e poco chiaro.
«Case fantasma?» ripeté Brittany, credendo di aver capito male.
«Sì, case fantasma. È quello che ho detto, mi pare» ribatté Jason con fare ostile, lasciando libero sfogo alla sua voce tremendamente stridente.
«Di che cosa si tratta? Dove sono?»
Jason Paintree ridacchiò sommessamente. Si interruppe e dopo pochi secondi riprese con maggiore enfasi, con più energia, iniziando a ridere a crepapelle e piegandosi in due.
«Questo qui è pazzo…» balbettò Erika, sconvolta.
«Andiamo via» concluse Brittany, riprendendo la mano della compagna e trascinandola con sé verso l’automobile ancora accesa.
Stavano per montare in macchina, quando la risata fragorosa di Jason Paintree fu troncata di netto da un accesso di tosse che parve essere sul punto di soffocarlo. L’uomo si calmò, piano piano, e si girò a guardarle con fare solenne, senza smettere di sogghignare con quella bocca storta e quegli occhietti infossati nella faccia deforme.
«Volete sapere dove sono le case fantasma, ragazzine? Sono sotto terra, ecco dove sono. Sotto terra! È là che tengono i carri armati! È là che tengono le bombe, le pistole, i fucili, le mitragliatrici! È da là che sono partiti, ed è là che hanno portato i ragazzi che c’erano qui! Tutti nelle case fantasma, signorine! Tutti giù nelle case fantasma!»
Ricominciò a ridere e a tossire concitatamente. Erika e Brittany salirono in auto e ripartirono, abbandonando volentieri il campo da baseball deserto. Nell’abitacolo, per tutto il viaggio di ritorno, la voce stridula di Jason Paintree continuò a riecheggiare lugubre: sotto terra…

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