lunedì 9 gennaio 2012

Le Anime di Eglon - Episodio 18 - Il Prigioniero

Quella notte, particolarmente densa e scura, non era uguale a tutte le altre. Le nuvole che nascondevano la città di Eglon dagli sguardi indiscreti e a tratti maliziosi della luna erano fitte come una vallata di neve al buio. Ci si sarebbe potuto sciare piuttosto piacevolmente, se soltanto il cielo e la terra si fossero capovolti, scambiandosi di posto. Ma le nubi rimanevano sempre lassù, spostandosi pigramente da una parte all’altra come una mandria intenta a brucare, mentre quaggiù restavano immobili gli edifici e i palazzi, le strade e le vie, le auto spente e i lampioni accesi.
Ciò che rendeva diversa quella specifica notte rispetto a tutte le altre era il profondo silenzio che ammantava la città, intimo e intenso come un segreto sussurrato in un orecchio. Nelle zone prossime alle rive del fiume Arkansas, l’unico rumore che infrangeva quella barriera di silenzio era il lento mormorio dell’acqua che scorreva senza fretta, trascinando con sé minuti, foglie secche, vite e ricordi.
Per impedire che qualcuno si potesse arrampicare lungo le sponde del fiume, risalendo con un’imbarcazione il corso d’acqua e penetrando in città, erano state innalzate numerose torrette di controllo e la riva era stata bloccata da un reticolato di filo spinato alto almeno due metri. Ciononostante, lo sciacquio lento del fiume passava lo stesso, camminando adagio sulle strade dei quartieri circostanti e procedendo tranquillo oltre le soglie delle abitazioni più vicine.
Ma uno dei vicoli era dominato da un rumore isolato, che da solo spezzava il ritmo uniforme e impalpabile dello sciabordio del fiume Arkansas.
Era un rapido scalpiccio, un tamburellare di passi che si rincorrevano veloci sull’asfalto freddo. E il respiro corto di due persone, rimaste quasi senza fiato.
Una ragazza di una ventina d’anni sbucò fuori dall’angolo formato da due case vicine, affaticata e con il viso arrossato. Indossava jeans stretti e un maglioncino leggero e correva rapida lungo il marciapiede che costeggiava il vicolo, gettandosi un’occhiata ansiosa alle spalle di quando in quando.
Dietro di lei apparve uno dei rivoluzionari, con una maschera completamente nera sul viso che lasciava trapelare soltanto gli occhi e la bocca attraverso sottili fori bordati da cuciture grigie. Inseguiva la ragazza che cercava di sfuggirgli, guardandole il sedere e la coda di capelli castani che si muovevano a destra e a sinistra seguendo lo stesso ritmo.
Era un vicolo cieco, e quando la ragazza realizzò di non poter proseguire oltre il suo viso si drappeggiò di un’espressione d’orrore. Era in trappola. Rallentò e le salirono le lacrime agli occhi. Il ribelle le fu dietro in meno di un secondo, la afferrò con entrambe le mani e le si premette contro, immobilizzandola.
«No, ti prego!» strillò la giovane tentando di divincolarsi, singhiozzando e piangendo. L’uomo la spinse in malo modo contro una porta a lato della strada e le infilò fulmineamente una mano sotto il maglioncino, prendendole un seno e stringendolo con forza, senza curarsi del male che le fece. Lei ansimò sconsolata, il petto scosso dai singulti e il volto inondato di lacrime.
Il rivoluzionario le premette la maschera sul collo e riuscì a sfiorarle la pelle con la lingua, mentre con la mano rimasta libera armeggiava con il bottone dei jeans della ragazza. Riuscì ad averla vinta e le tirò giù i jeans e le mutandine con un unico strattone, obbligandola a piegarsi in avanti e accarezzandole le natiche lisce e sode, tremanti.
Si abbassò i pantaloni frettolosamente, allargando le gambe alla ragazza con una mano mentre con l’altra continuava a schiacciarle brutalmente un seno, e di colpo la giovane sentì allentarsi la pressione esercitata dalle mani dell’aggressore e percepì il corpo dell’uomo crollare a terra alle sue spalle, finendo disteso sull’asfalto con la testa sfondata su di una pozzanghera di sangue in espansione.
Si voltò e tutto ciò che vide fu una maschera blu con una ragnatela rossa sulla sinistra e una croce avvolta dalle fiamme sulla destra, sovrastata da un elmetto da soldato color verde militare.
Poi mise a fuoco, e si rese conto che quell’uomo impugnava una pistola munita di silenziatore con la quale aveva appena sparato in testa al ribelle che aveva cercato di stuprarla.

LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 18
IL PRIGIONIERO

Bruce Rodgers, la notte del bombardamento perpetrato ai danni della città di Eglon dall’Esercito degli Stati Uniti d’America, si trovava sul balcone di casa sua a fumare, nei pressi della zona industriale. La stecca di sigarette Camel senza filtro che conservava nella cassaforte del salotto era una delle ultime rimaste ad Eglon, l’unica della sua scorta sopravvissuta fino a quella sera. I tabaccai avevano esaurito tutte le riserve, e i distributori erano stati pazientemente svuotati. Adesso, l’unico modo per procurarsi una sigaretta ad Eglon era chiedere ai fumatori se ne avessero ancora qualcuna. E lui aveva deciso che non ne avrebbe data via nemmeno una, e che quelle che gli rimanevano se le sarebbe godute con parsimonia, finché non fosse rimasto a secco.
Chissà, magari grazie a quell’esperienza avrebbe persino smesso di fumare, quando avesse consumato tutta la stecca chiusa nella sua cassaforte.
Aveva molte preoccupazioni per la testa, e la Camel ammiccante che pendeva dalle sue labbra in quel momento gli era davvero servita a riordinare un pochino tutto quel caos. Non aveva potuto farne a meno. Si era detto che avrebbe aspettato qualche giorno prima di aprire la stecca, e invece…
Be’, in mia difesa posso dire che debole è il corpo, ma forte è la volontà…
Che gran cazzata. Se ne rese conto appena formulò questo pensiero. In fin dei conti, non era affatto così. Proprio perché la sua volontà era troppo debole aveva ceduto. Il corpo, al contrario, era più forte, poteva sopportare l’assenza di cibo per giorni senza crollare. Bella stronzata i modi di dire, si redarguì Bruce Rodgers fumando via residui di tabacco e nicotina dalle labbra secche.
Il suo distributore di benzina era stato l’ultimo della città a sventolare bandiera bianca, ed era per questo motivo che quella sigaretta gli era risultata assolutamente indispensabile. Quella sera aveva dovuto chiudere i battenti e appendere fuori un cartello con su scritto FUORI SERVIZIO – CARBURANTE ESAURITO. Aveva scarabocchiato quelle quattro parole con un indelebile nero e aveva appiccicato il foglio di carta di fianco alle pompe della benzina, con un sospiro.
Anche gli altri distributori di benzina della città avevano chiuso, tutti quanti. I primi avevano ceduto la sera precedente. L’ultimo aveva mollato la presa quella mattina, lasciandolo solo. E quando si era ritrovato a dover fare i conti con tutti i clienti di Eglon in un solo pomeriggio, aveva aumentato un po’ i prezzi finché alla fine non si era ritrovato con le riserve prosciugate.
Per tutta la settimana c’era stata un’interminabile processione di gente, non solo in auto, ma persino a piedi con enormi taniche da riempire. Avevano fatto scorta, quelli più lungimiranti. Nel giro di un paio di giorni si erano portati a casa un centinaio di litri a furia di taniche da cinque. Poi c’erano gli stronzi come Chuck Werdenbruck, che erano venuti al distributore i primissimi giorni con le cisterne del latte e le avevano riempite di carburante, portando il carico a casa per rivenderlo ad un prezzo gonfiato non appena le scorte dei distributori ufficiali si fossero consumate. Bella trovata, bisognava ammetterlo. Ma da veri pezzi di merda, giudicò severamente Bruce.
Schiacciò il mozzicone di Camel sul bordo del corrimano prima che gli si bruciassero i polpastrelli e ammirò l’orizzonte cupo. Prima di scrivere quel cartello, quello stramaledetto FUORI SERVIZIO – CARBURANTE ESAURITO, Bruce aveva pensato che avrebbe potuto riacquistare la benzina a Chuck Werdenbruck e agli altri pezzi di merda suoi simili, ma poi ci aveva riflettuto su e aveva deciso che il suo orgoglio gli impediva di farlo. Non si sarebbe abbassato ad andare a chiedere la carità a quei rifiuti della società, a mercanteggiare con quelle teste di cazzo sul prezzo di duecento litri di benzina per poi doverli rivendere al distributore a quattro dollari per litro pur di ricavarci qualcosa. Era meglio chiudere la baracca e lasciare che i burattini prendessero un po’ di polvere.
Tanto, ormai, stava andando tutto quanto in malora.
Per un momento aveva anche subito il fascino della tentazione di svuotare il serbatoio del proprio furgoncino dentro una delle pompe del distributore, ma pochi istanti prima di sfilare il tappo al serbatoio si era bloccato e si era rimangiato i propri propositi. Era meglio tenere un po’ di benzina da parte per spostarsi. Non si poteva mai sapere, in fondo, che cosa sarebbe capitato. E se ci fosse stato da fuggire in fretta dalle strade di Eglon, beh, era preferibile tenersi pronti.
Che schifo di casino. Ora, tutta la gente che avrebbe avuto bisogno di fare rifornimento sarebbe andata a riempire le tasche a quel porco di Chuck Werdenbruck, gonfiandogli il portafoglio di verdoni invece di gonfiargli il muso di botte, come si sarebbe di gran lunga meritato.
Ma lui non poteva farci niente.
Scorse dei puntini luminosi in lontananza che sembravano muoversi. Concentrò l’attenzione su quei pallini luccicanti. Sembravano delle stelle cadenti… Li ignorò e tornò a guardare i profili silenziosi delle fabbriche, tratteggiando nel buio sagome indistinte di complessi industriali dai tetti piatti e squadrati. Più avanti, lo sapeva, c’era lo spiazzo dal quale pochi giorni prima era stato cancellato il terminal aeroportuale di Eglon, e più in là ancora si trovavano le rive del fiume Arkansas, sorvegliate a dovere da torrette e rotoli arrugginiti di filo spinato. Un bell’affare davvero, valutò Bruce Rodgers pensando che forse, in fin dei conti, un’altra sigaretta non lo avrebbe mica mandato sul lastrico, né gli avrebbe ostruito i polmoni in maniera irreparabile.
Una fila di furgoncini blindati sfrecciò sulla strada sotto il balcone di casa sua. Ne contò una mezza dozzina, diretti senza ombra di dubbio verso le fabbriche, quando una serie terrificante di potenti esplosioni afferrò di soppiatto il silenzio, giungendogli alle spalle con passo felpato, gli prese la testa tra le mani e gli ruppe senza esitazione l’osso del collo, lasciando che si accasciasse inerme sul vecchio asfalto di Eglon.
Bruce Rodgers sobbalzò e fece cadere a terra l’accendino e il pacchetto di sigarette che teneva in mano, girandosi di scatto verso la fonte di quei botti assordanti.
Un Black Hawk sorvolò la sua abitazione, propagando nell’aria un rumore infernale. Il suo ronzio passò oltre e sfumò, mentre altre esplosioni si susseguivano attorno al quartiere. L’elicottero che aveva appena superato il terrazzo di Bruce venne colpito da un missile improvviso sulla fiancata, e lo scoppio gli fece perdere quota.
La notte si illuminò di fuoco, mentre i velivoli militari proseguivano oltre senza fermarsi, e dall’unico Black Hawk colpito Bruce vide precipitare un uomo, un uomo che volò in direzione delle fabbriche con le braccia spalancate e, un attimo prima di schiantarsi, aprì il paracadute e si librò leggero al di sopra dei tetti della zona industriale, atterrando tranquillamente su uno degli edifici.
Bruce puntò lo sguardo in quella direzione, scordandosi delle esplosioni, delle urla e delle fiamme che si innalzavano dalla parte opposta, verso Main Street. Si concentrò sul tetto di quella fabbrica non molto lontana su cui il paracadute si arenò, e distinse chiaramente la figura del pilota dell’elicottero rialzarsi in piedi e muovere qualche passo.
Non sapeva dove fosse precipitato il Black Hawk colpito, né si preoccupò di scoprirlo. Osservava rapito quell’uomo che se ne stava fermo in cima alla fabbrica, immobile, come se stesse aspettando qualcosa. Ma cosa? Bruce non riusciva a capire. Perché non scappava, quel tipo? Che cosa stava lì a fare? Lo avrebbero catturato e lo avrebbero ammazzato di sicuro.
Una botola sul tetto della fabbrica si spalancò, vomitando fuori una mezza dozzina di tizi vestiti di nero con le maschere indistinguibili nelle tenebre notturne. I nuovi arrivati circondarono il pilota, che nel frattempo si era sganciato dal paracadute, e lo immobilizzarono. Uno gli infilò un cappuccio sulla testa, una specie di sacco nero, e le braccia gli furono rapidamente legate dietro la schiena. Li vide scomparire tutti quanti giù nella botola, velocemente, e dopo pochi minuti i furgoncini blindati che erano passati sotto il suo terrazzo poco fa riattraversarono la strada nel senso contrario, sgommando alla prima curva e dileguandosi nelle strazianti grida della città bombardata.

Qualcuno rimosse il tappo che bloccava lo scarico della grande vasca da bagno nella quale si trovava immersa Melanie Winget, e tutto lo yogurt nero fu risucchiato con un sommesso gorgoglio e defluì lontano, lasciando il corpo della donna esposto all’aria e alle intemperie.
Melanie aprì gli occhi piano, senza sforzarli troppo, e la luce la accecò. Per un attimo pensò che forse era meglio stare in quell’immensa bolla di yogurt nero: l’oscurità e il tepore che regnavano nello yogurt erano perfetti per lasciare che la mente vagasse indisturbata nel sonno. Ma, tutto sommato, non poteva di certo dormire in eterno, giusto?
Aprì gli occhi del tutto e focalizzò l’attenzione sul soffitto bianco che la sovrastava. Le bastò un istante di disorientamento per rendersi conto che non era precipitata in un vasetto di yogurt bianco, e quasi immediatamente realizzò di trovarsi in una stanza ampia e luminosa, arieggiata di recente, che profumava vagamente di… di cosa?
(yogurt)
No, non yogurt! Doveva togliersi dalla testa quello yogurt, iniziava veramente a darle sui nervi. No, la stanza profumava di ammorbidente. Ma forse erano le coperte e il cuscino a profumare da ammorbidente, e la stanza sapeva più che altro da rose. Da rose, sì, sapeva da rose!
Girò la testa e lo sguardo le cadde sopra il ripiano del comodino accanto al letto sul quale stava sdraiata. C’era un altissimo vaso di vetro, sul comodino, riempito d’acqua per metà. All’interno del recipiente dei lunghi gambi verdi parevano galleggiare nel vuoto, sebbene in realtà fossero fermi. Risalì quei gambi verdi con gli occhi, sfiorando spine e foglie fino ad arrivare ai petali, chiusi in un abbraccio che componeva i boccioli di tre splendide rose rosse.
Sorrise involontariamente, lasciandosi scivolare nel sogno. Chi le aveva portato quelle rose? Chi era stato tanto premuroso da farle trovare quei tre fiori meravigliosi sul comodino, appena risvegliata sul letto d’ospedale? Suo fratello? Nick, il suo ex fidanzato? Stuart, il barman muscoloso che le faceva la corte quando andava a bersi il suo goccetto con le amiche appena staccavano dall’ufficio prima di cena?
Un attimo. Frena. Retromarcia. Ospedale? No, non era in ospedale. Ma aveva avuto un incidente, giusto? Sì, un terribile incidente. E Jackie Chan c’entrava qualcosa… Eh già, c’entrava eccome, perché se non avesse tenuto acceso quel dannatissimo palmare l’incidente non ci sarebbe stato, il pilota non avrebbe avuto difficoltà ad atterrare all’aeroporto di Eglon e niente si sarebbe schiantato contro l’ala sinistra dell’aereo, facendoli precipitare… O si sbagliava?
No, aveva voglia di yogurt, e questo significava che non riusciva ancora a formulare una linea di pensiero che potesse definirsi coerente. Ma forse era per via di quello yogurt nero defluito dallo scarico della vasca da bagno, lei si era svegliata su quel letto con le rose sul comodino e…
No, fermi tutti. Stava deragliando ancora.
Deragliando? Ma che cosa c’entrava il treno, adesso? Non era in treno e non era in auto, si trovava su un aereo in volo verso Eglon e stava pensando a quello stupido di Jackie Chan che li avrebbe fatti quasi sicuramente precipitare prima di raggiungere la pista d’atterraggio.
Riordiniamo i pensieri. Non stava deragliando. Stava fuorviando, era questa la parola giusta. Okay, fin qui tutto bene. E dopo?
Dopo era tutto un miscuglio di robaccia densa e disgustosa, che odorava di fritto e di muffa. Però doveva liberarsene, altrimenti non ne sarebbe più uscita. E uscirne era la cosa più importante da fare, ora come ora.
D’accordo, ricapitoliamo. Bene, così andava un po’ meglio. Già si sentiva tranquilla. L’aereo, il palmare di Jackie Chan, l’ala che esplodeva, la caduta perpendicolare, il terminal di Eglon… Si erano schiantati contro l’aeroporto! Quindi, se non l’avevano trasferita da qualche altra parte, in quel momento doveva trovarsi ad Eglon, giusto? Sì, filava. Aveva un senso. E allora quelle rose chi gliele poteva aver portate? O erano il dono di qualche simpatica infermiera, oppure dovevano essere state spedite da suo fratello. Suo fratello non sarebbe mai venuto di persona fino ad Eglon, non si sarebbe mai preso la briga di perdersi una giornata di lavoro per far visita alla sorellina in ospedale. Oh no, non era da Jim. E nemmeno da Nick, se era per questo. Nemmeno Nick si sarebbe preso una giornata libera per venire a vedere se stava bene. In fondo, il loro rapporto si era chiuso da ormai quattro mesi, in maniera alquanto spiacevole per entrambi, e le acque non parevano essersi ancora del tutto acquietate. Non dopo quello che era successo. D’altronde…
Ma no, stava fuorviando di nuovo. Deragliando. Le piaceva questa parola. Deragliare. Non era un esatto sinonimo, ma perlomeno rendeva l’idea. Non era così incoerente quanto poteva sembrare.
Scostò di lato le coperte che le avvolgevano il corpo. Indossava una specie di camicia da notte a fiori, registrò con la coda dell’occhio. Un abbigliamento che non si poteva definire propriamente ospedaliero. E, in effetti, la camera nella quale si trovava era una comune camera da letto di una villetta qualunque.
Tentò di muoversi, ma le sue gambe non risposero ai comandi. Le facevano un male d’inferno, ma per adesso preferiva non stilare un bilancio affrettato delle proprie condizioni. Sicuramente, dopo l’incidente che aveva avuto, non doveva sprizzare salute da tutti i pori.
Sogguardò la portafinestra che trovava posto sulla parete alla sua destra, notò le tende bianche e andò oltre, per quanto la sua posizione le consentisse di proseguire. Al di là del vetro c’era un giardino triste sdraiato sotto un cielo grigio che prometteva pioggia, ma che allo stesso tempo dava l’impressione di non voler mantenere l’impegno. Più avanti, un tratto d’asfalto e la facciata di un’altra villetta separata dalla strada da una strisciolina d’erba giallognola.
Squadrò rapidamente la stanzetta quadrata nella quale aveva appena riaperto gli occhi dopo un’imprecisabile dormita durata probabilmente mezza eternità. Niente calendari, niente orologi. Niente mobili o soprammobili, eccetto il comodino con il vaso di vetro e le tre rose rosse. Era un ambiente spoglio, ampio e aerato, senza troppe pretese. Semplice.
La porta, incassata nella parete di sinistra, si aprì cigolando debolmente e un uomo con una maschera sul viso fece capolino nella stanza. Dapprincipio, Melanie pensò di stare ancora sognando. Poi si chiese se fosse uno scherzo. Infine, quando l’uomo iniziò a parlare, si domandò se fosse impazzita di colpo.
«Buongiorno, signorina Winget. Come si sente questa mattina?» le domandò affabilmente l’uomo mascherato. Indossava un camice bianco da dottore, ma quegli occhi nascosti dietro la plastica le facevano venire i brividi. Non si sarebbe mai affidata spontaneamente alle cure di un medico con simili occhi. Ma, in fin dei conti, se era stato lui a salvarla voleva dire che era bravo.
Annuì perplessa, limitando i movimenti del capo a causa del dolore che avvertiva in sottofondo ad ogni altra percezione, e rimase a bocca aperta a fissare quella maschera da teschio con profonde occhiaie nere. Pareva una maschera da Halloween, di quelle che si mettevano i bambini per uscire in gruppo a fare dolcetto o scherzetto.
«Bene, sono felice di sentirlo. Le sue condizioni sono state a dir poco pessime, nelle ultime quarantotto ore. Non che prima fosse ridotta granché meglio, certo, ma da quando è entrata in coma non era mai stata così… spenta, ecco, come negli ultimi due giorni. Il fatto che si sia svegliata mi rincuora molto. Si vede che abbiamo fatto entrambi bene il nostro lavoro. Io e lei, s’intende» spiegò il dottore mascherato. Probabilmente stava sorridendo, valutò Melanie, ma lei non lo poteva vedere. Aveva una voce lievemente arrochita, doveva essere un fumatore e quasi sicuramente aveva passato la soglia dei cinquanta. Anche se non ci avrebbe scommesso senza prendere le dovute precauzioni.
«Dunque, sono sicuro che sarà piena di domande, signorina Winget. Mi hanno messo a sua completa disposizione anche per questo. Da dove vuole cominciare?»
Melanie si bloccò, come interdetta. Domande? Sì, era vero, ne aveva una marea in testa. Ma prima doveva essere del tutto certa che quell’uomo non avesse un numero limitato di risposte. Se gli avesse fatto quattro domande, avrebbe ribattuto spiegandole che le sue tre risposte erano già state bruciate e sarebbe scomparso in una nuvola blu all’interno di una lampada ammaccata?
«Dove mi trovo?» volle sapere come prima cosa Melanie, e di nuovo le parve che il volto occultato dietro la maschera le sorridesse.
«Ad Eglon, signorina Winget» rispose in tono pacato.
«All’ospedale?»
«No, non siamo nell’ospedale della città. Ci troviamo in una struttura poco distante, però. Un luogo più sicuro.»
«Sicuro?»
«Sì, esatto. Proprio così. Vede, ci sono stati un po’ di disordini in città, di questi tempi. È iniziata una grossa Rivoluzione, e le parti coinvolte sono molte. Preferiamo saperla in un luogo protetto, almeno finché non si rimetterà in sesto.»
«Ma… una rivoluzione? Di che cosa si tratta, esattamente?»
«Preferisco parlargliene con più calma, quando si sentirà davvero meglio. Sempre che per lei non sia un problema» replicò con fare vago il dottore, stringendosi nelle spalle.
«No» approvò Melanie titubante. Avrebbe voluto capire adesso di che cosa si trattasse, ma non voleva mettere fretta al suo interlocutore. Se voleva saperne di più, era meglio pazientare, rifletté, e così passò ad un’altra domanda: «All’aereo nel quale mi trovavo… Cos’è successo esattamente? Ci siamo salvati in molti?»
«Vede, signorina Winget, l’aereo nel quale si trovava prima dell’incidente è stato colpito da un oggetto non identificato, probabilmente un missile. E lei, per quanto ne so, sembra essere l’unica sopravvissuta.»
A queste parole, Melanie trasalì. I suoi occhi sprofondarono in una sottile pellicola di lacrime.

Gerald McGale, nascosto dietro la sua maschera da ribelle, osservava irrequieto la stanza scura nella quale si trovavano, picchiettando con le dita sul ripiano del tavolo.
«Non vuoi proprio capire, eh?» domandò in tono inflessibile il rivoluzionario che gli stava accanto, con la maschera blu e l’elmetto da soldato in testa.
L’uomo che stava seduto davanti a loro, ammanettato ad una seggiola di metallo imbullonata al pavimento, sogghignò. Aveva il labbro spaccato e una cicatrice sanguigna sulla guancia, la fronte sudata e i capelli castani arruffati. Stava visibilmente male, ma cercava di mostrarsi forte e resistente. Dopo le torture che aveva subito, considerò Gerald, se aveva ancora voglia di fare l’eroe doveva essere davvero un osso duro. D’altro canto, era un pilota dell’Esercito degli Stati Uniti.
«Che cosa dovrei capire?» ribatté tranquillamente il militare, lasciandosi scappare una smorfia che represse immediatamente dietro la sua espressione strafottente.
«Ti abbiamo imprigionato, pestato, torturato, e ancora non ci vuoi dire chi ha ordinato l’attacco. Voglio il nome del mandante, okay? Voglio nome e cognome del bastardo che ha confezionato per Eglon quelle belle caramelle alla menta che tu e i tuoi amici avete sganciato sulla città la scorsa notte. E lo voglio adesso» scandì Maschera Blu senza perdere il controllo.
«D’accordo. Vuoi nome e cognome? Natale. Signor Babbo Natale. Sei contento di sapere chi ti ha mandato le caramelle, ragazzino?» ridacchiò il soldato sputando per terra un grumo di sangue.
Maschera Blu si alzò dalla sedia senza scomporsi. Gerald lo guardò avvicinarsi al prigioniero, sollevare il braccio e sferrargli un ceffone in pieno viso. La seggiola imbullonata al pavimento cigolò, e il soldato piegò il collo dall’altra parte per assorbire parte del colpo. Il taglio che aveva sulla guancia si riaprì e il sangue ricominciò a colare.
«Sono stanco di perdere tempo con te» sibilò Maschera Blu, ergendosi minaccioso sul prigioniero. «Stanotte ho ammazzato uno dei miei uomini, a sangue freddo, lasciandogli soltanto il tempo di rendersi conto di chi gli stava puntando in faccia la pistola. L’ho ucciso perché stava per violentare una ragazza. Una ragazza di Eglon, mi segui? Qui non intendo tollerare chi fa del male a civili innocenti e collaborativi. Togliamo di mezzo solo chi si oppone alla nostra linea d’azione, tutti gli altri sono elementi preziosi. E voi avete fatto una strage la scorsa notte, sganciando bombe da quei maledettissimi Black Hawk. Ora voglio sapere chi ha autorizzato l’attacco, di modo da punire severamente l’autore della carneficina. E se tu non collaborerai, ti prometto che non farai la stessa fine indolore del ribelle che ho freddato un paio d’ore fa: ti farò soffrire, figlio d’un cane, e ti torturerò finché non ci sarà più sangue nelle tue vene e non rimarrà più pelle da scuoiare. E registrerò le tue urla di dolore e te le farò ascoltare ogni giorno e ogni notte, ventiquattro ore su ventiquattro, e non dormirai, non mangerai abbastanza, e ti farò bere acqua e veleno per farti vomitare anche l’anima. Voglio quel nome, intesi?»
Il prigioniero inghiottì a vuoto, svelando per la prima volta la propria inquietudine. Sogguardò Gerald con fare supplice, ma la sua richiesta d’aiuto rimbalzò sul ribelle come un pallone contro il muro. «Se parlo, che ne sarà di me?»
«Non ti prometto che non morirai, pezzente. Ma se toccherà a me decidere come farti morire, posso assicurarti che sarà una cosa veloce, a patto che quel nome salti fuori» mormorò Maschera Blu.
Il prigioniero annuì soddisfatto, fissò il soffitto con un’occhiata tremendamente spaventata e farfugliò, sconnessamente: «F-fanculo…»
    Poi morì.

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