lunedì 12 dicembre 2011

Le Anime di Eglon - Episodio 15 - La Missione

   «Bobby, puoi darmi una mano per piacere?» borbottò senza fiato Fred, comparendo nella penombra della stalla con un grosso sacco di fertilizzante tra le braccia. Aveva il viso arrossato e sudato. Lo sforzo che stava compiendo, abbracciato a quell’enorme carico, era visibilmente troppo per il suo fisico.
   La malattia lo aveva debilitato, e questa fu probabilmente la prima volta che suo figlio Bobby se ne rese davvero conto. Eh già, perché fino a due anni prima papà portava quei sacchi di fertilizzante con un solo braccio, senza troppa fatica, invece adesso... «Eccomi papà» intervenne prontamente, afferrando il sacco e levandolo dalle braccia esauste del genitore. Fred tirò un sospiro di sollievo e si asciugò la fronte passandoci sopra la manica del maglione a scacchi imbrattato di sporcizia, lasciandosi sulla pelle un leggero striscio di terriccio.
«Grazie. Non ce la facevo più…» confessò pensosamente Fred guardando il figlio che si allontanava con il suo carico, riflettendo assai probabilmente sulla stessa cosa che era appena venuta in mente a Bobby riguardo gli effetti che la malattia aveva abbandonato nel suo corpo.
«Non ti preoccupare, papà» cercò di rasserenarlo Bobby con un sorriso, ma il padre non rispose e restò a fissare il pavimento con aria abbattuta.
Bobby uscì nel cortile e si avviò di buon passo verso casa. Un bicchiere di vino era quello che ci voleva per tirare un po’ su il morale. Era lunedì pomeriggio, e la settimana appena iniziata si prospettava molto più ardua del previsto. C’erano parecchi lavori da fare, e ad essere del tutto sincero temeva che papà non avrebbe retto. Era a casa da un mese soltanto, e finora aveva sempre evitato di fare lavori pesanti. Ma adesso Bobby aveva bisogno di lui, e se Fred non fosse stato in grado di aiutarlo si sarebbe ritrovato nei pasticci. Quel cancro al fegato lo aveva consumato più di quanto i dottori avessero osato ammettere, e anche la cura non era stata da meno…
Sospirò mentre metteva piede sulla soglia di casa, e il sussurro del suo sospiro venne sovrastato dal ronzio cupo di un motore. Anzi, no, di due motori. Forse anche tre.
Bobby si fermò con la mano a mezz’aria davanti alla maniglia della porta d’ingresso e lentamente si volse in direzione della strada. Più avanti, ad un mezzo chilometro di distanza, un nuvolone di sabbia e polvere sollevate dall’asfalto asciutto si stava muovendo rapidamente in mezzo ai suoi terreni, avanzando verso la sua fattoria.
Fred uscì dalla stalla e si fermò in mezzo al cortile, schermandosi gli occhi con una mano sulla fronte sebbene il cielo fosse nuvoloso e non lasciasse trapelare nemmeno un raggio di sole. Padre e figlio si avvicinarono senza nemmeno rendersene conto di fronte alla stradicciola che sbucava dai campi e si allargava per dare forma al cortile della loro fattoria. Involontariamente assunsero la stessa identica espressione accorta.
Tre fuoristrada color verde militare entrarono a tutta velocità nel cortile impolverato uno dopo l’altro, frenando a pochi passi dai due proprietari e allineandosi con i motori ancora accesi.
Un finestrino oscurato si abbassò e una mano comparve dall’interno, sbucando all’improvviso e puntando senza indugio una pistola munita di silenziatore all’indirizzo di Bobby e Fred.
Il primo colpo fece stramazzare al suolo Fred prima ancora che la polvere sollevata dalle jeep terminasse di posarsi sulla strada e sul cortile. Bobby cercò di buttarsi a terra per evitare di fare la stessa fine del genitore, e fu così veloce da scansare ben due proiettili… ma non il terzo, che lo prese alla spalla e lo inchiodò al suolo.
Rapidamente una dozzina di uomini armati scese dai fuoristrada e si lanciò verso la porta d’entrata della fattoria, calpestando con noncuranza il sangue che si stendeva sul cortile.

LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 15
LA MISSIONE

«Ventiquattro carri armati usciti dal nulla. Adesso voglio che qualcuno me la spieghi, questa!» borbottò il comandante Smith. L’interno della sua tenda era avvolto da un chiaroscuro di ombre a malapena fugate da una grossa lampada posizionata sul ripiano del tavolo da campo, attorno al quale sedevano lo stesso comandante Smith, il suo vice, Gray, e l’addetto alle comunicazioni che tormentava senza remore le grosse cuffie collegate all’apparecchio per le trasmissioni collocato su un secondo tavolino portatile.
«Le immagini prese dal satellite ci dicono soltanto questo, comandante» ripeté impassibile Gray, consapevole dell’ira che stava lievitando sempre di più nella mente di Craig Smith.
L’accampamento era piuttosto silenzioso, e nella tenda del comandante regnava una totale assenza di rumori. L’ambiente era greve e pressante, ma tutti e tre gli uomini che vi si trovavano immersi parevano sentirsi a proprio agio; persino l’addetto alle comunicazioni, nonostante continuasse a torturare le cuffie che teneva tra le mani in attesa di captare qualche nuova trasmissione in arrivo.
L’attacco della sera precedente aveva scosso tutti quanti, generando scompiglio tra i soldati. Cinque morti e una quindicina di feriti, sei dei quali si erano già quasi del tutto ripresi. Lo choc era stato inimmaginabile. Erano giunti sul posto pensando di dover sedare una scaramuccia di poco conto: si erano ritrovati a dover fuggire di fronte ad una barricata dalla quale erano piovuti inaspettati colpi di mortaio. Non erano preparati ad uno scontro aperto. Non lì, non in suolo statunitense, che diamine! Erano a due passi da casa, mica dall’altra parte del mondo!
Alcuni soldati erano venuti di persona a lamentarsi con il comandante Smith, nel corso della notte e per tutta la mattinata. Esigevano delle risposte che nemmeno Smith poteva avere. Su, dalle alte sfere, nessuna notizia utile. Si sapeva soltanto che Eglon era stata attaccata da ignoti e che apparentemente non c’erano stati grossi danni in città.
L’aeroporto era stato distrutto, perciò tutti i voli in partenza verso Eglon erano stati soppressi e quelli già in viaggio erano stati dirottati verso altre destinazioni. La stazione ferroviaria era stata bloccata e, a quanto pareva, in alcuni tratti i binari erano stati smontati. Anche le corse dei treni nella zona, di conseguenza, erano state fermate o annullate. Per quanto riguardava il resto, non si sapeva pressoché nulla di utile. L’unica informazione ricavata dal satellite era la presenza di ben ventiquattro carri armati in città, ma questi dati erano stati raccolti durante la mattinata in un’ora in cui le nuvole si erano squarciate; adesso, invece, la spessa coltre di nubi impediva di vedere di più.
«Dove accidenti possono aver preso ventiquattro carri armati!?» gridò infuriato il comandante Smith, facendo sobbalzare l’addetto alle comunicazioni.
«Li avranno fatti arrivare da fuori… Avranno corrotto un po’ di personale in qualche aeroporto…» ipotizzò Gray, mantenendosi sul vago.
«Nessuna mazzetta è abbastanza persuasiva da permettere di contrabbandare ventiquattro mezzi corazzati in pieno territorio statunitense senza che nessuno sappia alcunché! Non si possono introdurre illegalmente cose del genere in America, nemmeno attraverso la migliore rete di corruzione mafiosa!» sbraitò Smith alzandosi in piedi e misurando a passi veloci il perimetro della sua tenda, tenendo le mani congiunte dietro la schiena.
«Forse sono nostri…» buttò lì Gray.
Il comandante Smith si girò a guardarlo con fare incredulo e batté i pugni sul tavolo, facendo sobbalzare per la seconda volta il tipo con le cuffie in mano. «Non possono essere nostri!» sibilò infuriato, come un prete che avesse appena udito una bestemmia all’interno della propria chiesa. «I carri armati dell’Esercito degli Stati Uniti sono rigorosamente controllati e contrassegnati da un numero di serie che li rende identificabili in qualunque parte del mondo si trovino. Nessuno oserebbe fornire dei carri armati ad una cellula terroristica, perché risalire al responsabile sarebbe un gioco da ragazzi!»
«Resta una sola possibilità…» replicò Gray con calma, studiando attentamente l’espressione alterata del suo comandante.
«Vale a dire?»
«Devono esserseli costruiti loro» spiegò Gray in tono grave, e il comandante Smith si lasciò ricadere pesantemente sulla propria sedia e annuì gravemente.

L’incarico da portare a termine era sostanzialmente semplice. Per questo il vicecomandante Gray si sentiva alquanto fiducioso, quel martedì mattina. La sfuriata di ieri del comandante Smith lo aveva indotto a riflettere sulla missione che si erano prefissati, e per un attimo si era ritrovato a dubitare dell’efficacia del piano formulato. Ma poi ci aveva pensato e aveva deciso che, tutto sommato, l’idea era buona. E l’ira del comandante Smith, in fondo, era più che giustificabile. Perdere undici uomini in combattimento era terribile. Vederli morire , in Arkansas, Stati Uniti, praticamente a casa, non era semplicemente terribile: era assurdo.
Undici uomini, ripeté Gray dentro di sé. Sei uomini nei Black Hawk abbattuti e altri cinque ammazzati dai mortai. Il comandante Smith non aveva mai perso un solo uomo. Doveva essere stato un duro colpo, per lui. Più duro di quanto si potesse immaginare…
Adesso, dunque, dovevano rispondere. E la risposta doveva essere pronta e decisa, di modo da far capire a quei terroristi che non avrebbero loro permesso di portare liberamente a compimento ciò che avevano in proposito di fare.
La camionetta sulla quale sfrecciavano sopra quella strada malandata in mezzo ai campi continuava a sussultare ad ogni buca, ringhiando e sbuffando come un cavallo lanciato in una serie interminabile di saliscendi. Le vie di campagna erano tutte uguali, considerò Gray. Anche in Arkansas, così come in ogni altra parte del mondo. E la campagna attorno ad Eglon non faceva eccezione.
C’erano ventiquattro fattorie sotto la giurisdizione di Eglon.
Ventiquattro, come i carri armati in città. Bella coincidenza…
Ventiquattro fattorie che si spartivano i terreni attorno al centro abitato, e la più grande era quella della famiglia Gallagher, verso la quale erano diretti in quel momento.
Il piano architettato dal comandante Smith era buono, ma Gray aveva deciso di attendere gli esiti prima di lodarlo. Voleva innanzitutto vedere se fosse attuabile e calcolare quante possibilità c’erano che andasse in porto. Il primo passo era scoprire se la famiglia Gallagher li avrebbe appoggiati.
«Siamo quasi arrivati a destinazione, signore» lo avvertì il soldato alla guida. C’erano altri sei militari seduti dietro assieme al vicecomandante Gray. Otto uomini in tutto.
L’operazione da svolgere era semplice: andare alla fattoria dei Gallagher, chiacchierare con i proprietari, ritornare prima che facesse buio. Dai piani alti era stato dato l’okay, e loro immediatamente si erano mossi senza perdere altro tempo per mettere in atto la fase preparatoria della missione.
Un altro sobbalzo a causa di una grossa buca in mezzo alla sgangherata stradina di campagna e l’autista imprecò sottovoce.
Gray passò in rassegna con lo sguardo i sei soldati seduti al suo fianco. Conosceva i loro nomi, rammentava pregi e difetti di ciascuno. Li aveva formati lui, e sapeva di poter contare su ognuno di loro. Li aveva scelti tra tutti gli altri per quell’operazione perché era certo di poter fare pieno affidamento sulla loro fedeltà. Quel piccolo gruppo, adesso, era il perno centrale attorno al quale si sarebbe innestata l’intera missione segreta.
«Per qualsiasi problema, la prima cosa che dovrete fare sarà contattare il campo» ricordò loro Gray mentre la camionetta svoltava e oltrepassava l’ultima curva prima del cortile della fattoria dei Gallagher. «Soldato Davis: tu rimarrai qui nella camionetta, in caso succeda qualcosa di imprevisto.» La prudenza non era mai troppa, giudicò Gray fra sé e sé.
Tom Davis annuì. Gli ordini andavano rispettati, per cui non oppose alcuna protesta. Anche se dal suo viso Gray capì che non era molto felice di non poter prendere parte all’operazione assieme agli altri. Dopotutto, valutò, non sarebbe stato niente di che: avrebbero parlato con un paio di contadini e se ne sarebbero andati subito dopo, quindi Tom non si sarebbe perso nulla.
La camionetta si fermò in mezzo al cortile deserto della fattoria. Gray scese assieme a cinque soldati, facendo loro segno di tenere basse le armi. Tom li guardò smontare e restò immobile, scrutando l’esterno attraverso il finestrino. Anche l’autista rimase a bordo, spense il motore e aspettò.
«Famiglia Gallagher, siamo qui in rappresentanza dell’Esercito degli Stati Uniti d’America. Il vostro Paese ha bisogno di voi, per questo vi chiediamo di aprirci le porte e venirci incontro» scandì ad alta voce Gray, ascoltando il silenzio che come risposta sostituì la sua voce.
L’aria era ferma, come se il vento si stesse prendendo un attimo di riposo. Le nuvole in cielo si erano paralizzate, impedendo ancora alla luce solare di diffondersi appieno. Tom colse con uno sguardo d’insieme la facciata della fattoria dei Gallagher, un semplice edificio con annessi stalla e fienile, e intravide la porta d’ingresso aprirsi e due uomini uscire con aria disorientata.
«L’esercito? Cosa ci fate qui, nelle campagne dell’Arkansas? È in corso qualche esercitazione?» s’informò il più vecchio. Indossava i tipici abiti da lavoro dello stereotipo del contadino, tanto da dare quasi l’impressione a Tom di essere fasullo. Pareva spaesato e scioccato dalla presenza e dalla vista di tutti quegli uomini armati in uniforme, e si bloccò di fronte a Gray assieme all’altro tizio, più giovane di una buona ventina d’anni.
«A dire il vero si tratta di una questione ben più grave, temo. Siamo stati attaccati da una cellula terroristica non meglio identificata. Abbiamo bisogno della vostra fattoria per condurre un’azione militare importantissima per la sicurezza nazionale» spiegò Gray con fare accattivante, porgendo la mano al più vecchio tra i due interlocutori. «Sono il vicecomandante Gray, e vi ringrazio anticipatamente a nome dell’Esercito e del nostro beneamato Paese per la vostra disponibilità a collaborare.»
«Si figuri, si figuri. Mi chiamo Fred Gallagher, e questo è mio figlio Bobby. La nostra fattoria è a vostra completa disposizione, ci mancherebbe!» esclamò l’uomo sempre più confuso, stringendo vigorosamente la mano al vicecomandante e salutando con un cenno del capo uno ad uno i cinque militari schierati accanto.
«Grazie davvero» ripeté Gray con sorriso diplomatico, quindi si volse a guardare i suoi soldati. «Ragazzi, voglio un rilievo preciso della struttura. Ho bisogno di sapere con esattezza coordinate, spazio disponibile, visibilità in direzione del centro cittadino, distanza dalla barricata più vicina in linea d’aria, pendenza e consistenza del terreno circostante. Tra venti minuti si levano le tende!»
I soldati risposero con uno sbrigativo signorsì e partirono, dividendosi in più direzioni, ognuno pronto a portare a termine l’incarico affidatogli. Gray rimase lì con Gallagher padre e Gallagher figlio a contemplare l’orizzonte, mentre in lontananza si udiva una rapida raffica di spari.
«Che cosa sta succedendo in città, signor Gray?» volle sapere Fred, visibilmente preoccupato. Tom si pose in ascolto: erano abbastanza vicini alla camionetta perché potesse sentirli parlare, e in fondo non era proprio come origliare, perché Gray sapeva benissimo che lui era lì e che c’era anche l’autista.
«Una brutta faccenda. Non siamo ancora certi di quello che abbiamo per le mani, sappiamo soltanto che non sarà facile. Eglon è stata chiusa da una muraglia impenetrabile di barricate. Le difese sono consistenti, e noi non siamo autorizzati ad aprire il fuoco nemmeno per difenderci perché ci sono troppi civili in gioco. In situazioni come questa, la vita di un civile vale più di quella di dieci soldati, per le alte sfere…» commentò Gray scrutando torvamente l’orizzonte bigio.
«Ma sono terroristi? Rivoluzionari? Anarchici? Che altro?» intervenne Bobby Gallagher, stupito e turbato.
«Un po’ di tutto, per quello che ci risulta attualmente. Forse ne sapremo di più nei prossimi giorni, ma per adesso non possiamo fare altro che stare ad aspettare e sperare che la cosa si risolva in fretta. Non abbiamo modo di vedere che cosa stia capitando dentro le barricate che circondano la città, e non sappiamo se ci siano morti o feriti, o se addirittura della cittadinanza non sia rimasto più nessuno. Situazione tremenda da gestire e da affrontare, ma forse abbiamo un piano. Per questo ci serve la vostra fattoria, assieme a quelle di alcuni vostri vicini…» illustrò Gray squadrandoli attentamente per cercare di vedere se potessero essergli utili anche in altro modo.
«Beh, i Johnson saranno senz’altro ben disposti a darvi una mano, e penso che anche i McField non solleveranno alcuna obiezione. Per quanto riguarda Carrie Mason, invece… ecco, con lei forse incontrerete qualche problema» disse Fred Gallagher fissando Gray come se gli potesse leggere i pensieri.
«Questa signora Mason è una testa calda?»
«Oh, più di quanto possiate immaginare. Ci ha creato parecchi fastidi, ultimamente. Specie stamattina, quando siamo entrati in casa sua e ce la siamo ritrovata seduta sul divano con una doppietta carica puntata verso la porta. Andatevene via dalla mia proprietà, ha sibilato, e uno dei nostri l’ha inchiodata per sempre a quel divano unto e bisunto con un bel proiettile dritto in testa…» narrò Fred, e mentre pronunciava queste parole una strana luce si impadronì dei suoi occhi e Gray realizzò che quello che aveva davanti non era un normale contadino: era un impostore.
«Cazz…» fece in tempo a sbraitare il vicecomandante Gray, prima che uno sparo coprisse il resto dell’imprecazione accompagnato dallo scroscio dei vetri infranti.
Tom si abbassò all’interno della camionetta, coprendosi la testa. Subito dopo cercò di sporgersi quanto bastava per riuscire a scorgere una parte del cortile della fattoria e vide Gray rotolare su se stesso e rialzarsi poco più in là, iniziando a correre a perdifiato in direzione dei campi, scaricando la pistola d’ordinanza alle proprie spalle e facendo cilecca ad ogni colpo.
Una raffica di mitragliatrice si fece sentire più alta e imperiosa al di sopra degli altri spari, e le grida di un soldato colto di sorpresa fecero accapponare la pelle a Tom.
Il parabrezza della camionetta saltò e il soldato seduto dietro il volante si accasciò per metà sul sedile del passeggero con la testa sfondata che colava sangue e materia cerebrale. Tom trattenne l’urlo di terrore che gli si raggrumò in gola a quella visione. Si riavvicinò al finestrino mantenendosi il più possibile al riparo e gettò un’altra occhiata all’esterno. Vide Stevenson, uno dei suoi compagni, correre fuori dalla porta d’entrata della fattoria e finire disteso a terra con tre buchi sanguinanti sulla schiena grossi come palline da golf. Loghan, dall’altra parte, corse disperatamente in direzione della stalla, scomparendo nell’interno avvolto dalla penombra un istante prima che un uomo mascherato si appostasse di fronte alla soglia e desse sfogo alla sua mitraglietta dietro al povero soldato in fuga.
«No, no, noooo!!» strillò Danny Stewberg venendo trascinato da due uomini fino al centro del cortile, davanti a quello che si era spacciato per Fred Gallagher.
«Crepa, bastardo!» berciò l’uomo puntandogli un revolver in faccia e spappolando per l’eternità i suoi lineamenti in un ghigno malefico e incomprensibile.
L’ultimo sparo strappò l’aria con un netto rimbombo di lacerazione, quindi il massacro si spense e Tom Davis inciampò e cadde sull’erba alta del campo nel quale si era appena addentrato dopo essere saltato giù dalla camionetta, un istante prima che Stewberg esalasse il suo ultimo respiro.

Era tarda sera quando il comandante Smith uscì dalla sua tenda richiamato da un vocio sconnesso e disarticolato. La prima cosa che vide fu il soldato Tom Davis, sudato e sporco di fango, che avanzava barcollando in mezzo alle espressioni attonite degli altri militari.
«Davis… che è successo?» pigolò sconcertato, lanciandosi incontro al giovane e ordinando che gli fosse portata immediatamente dell’acqua. Tom bevve avidamente dalla borraccia che il comandante gli porse, quindi ringraziò con un cenno del capo e aprì la bocca per parlare. Le parole non gli vennero, e le labbra screpolate si richiusero.
«Vieni, discutiamone nella mia tenda…» lo invitò il comandante Smith avviandosi in direzione del proprio alloggio al centro del campo. Tom lo seguì senza fiatare, entrò e prese posto sulla sedia che gli era stata indicata. Craig Smith si sedette di fronte a lui e lo analizzò con espressione amara e meditabonda, già pregustando le tremende rivelazioni che gli stavano per essere sparate a bruciapelo su tutta la pelle del viso.
«La missione è fallita, comandante» esordì Tom Davis con fare incerto, visibilmente scosso e palesemente traumatizzato. Si passò distrattamente una mano fra i capelli e se la portò subito dopo davanti agli occhi, tutta imbrattata di sabbia e di polvere. «Dovrei farmi una doccia…» considerò a voce alta, quasi che quella fosse l’ovvia conseguenza derivata dalla precedente affermazione.
«Non prima di aver fatto rapporto!» troncò la questione il comandante Smith, risoluto.
«Già, rapporto…» biascicò il soldato, quasi che il significato di quella parola gli fosse ritornato in mente soltanto adesso dopo un lungo, lunghissimo periodo di amnesia parziale. «Non c’è molto da dire, riguardo la missione. Era una trappola. Una trappola organizzata in ogni dettaglio. La fattoria dei Gallagher era piena di uomini. Hanno aspettato che ci dividessimo per iniziare a setacciare la zona, poi hanno aperto il fuoco. Li hanno spazzati via tutti quanti, in meno di cinque minuti.»
«Tutti i soldati?»
«Tutti» confermò Tom. «Mi sono salvato solamente perché il vicecomandante Gray mi aveva detto di restare a bordo della camionetta, nel caso in cui qualcosa andasse storto. Vista in quest’ottica, sembra quasi che avesse avuto una qualche sorta di oscura premonizione…»
«Anche Gray è morto?» volle sapere il comandante, e nel pronunciare il nome del suo vice svelò il profondo rammarico che gli stava addentando il cuore a quelle notizie.
«Credo di sì. L’ho visto fuggire verso i campi, ma erano in molti e devono averlo seguito. Gli altri li hanno inseguiti, sa, quando hanno tentato di scappare. Li hanno inseguiti e li hanno presi alle spalle, di sorpresa, senza lasciare loro nemmeno il tempo di difendersi. Li hanno stesi a terra come capi di bestiame condannati al macello» barbugliò tristemente Tom Davis, sentendo riecheggiare nella testa le urla dei suoi compagni e gli spari che spezzavano le loro vite, rumori che non sarebbero mai più usciti dalla sua scatola cranica ben sigillata.
«È possibile che vi abbiano seguiti? Che vi abbiano visti arrivare e abbiano preparato su due piedi l’imboscata prima che riusciste a scoprirli?» s’informò il comandante Smith, sempre più abbattuto.
«No. È impossibile, comandante. Quegli uomini sapevano che stavamo arrivando. Già lo sapevano prima ancora che ci mettessimo in movimento e abbandonassimo il campo. Sapevano e hanno agito di conseguenza» concluse gelidamente Tom Davis, udendo nella propria testa un grido spietato che diceva: Crepa, bastardo!

«Seppelliamoli dietro la stalla e sistemiamo quel vetro. Voi due, pulite a fondo il pavimento del cortile. Voialtri, invece, sbrigatevi a scavare la fossa sul retro» ordinò rapidamente uno dei sei uomini in piedi attorno all’ingresso della fattoria dei Gallagher. Si era spacciato per Fred Gallagher, quando i soldati erano arrivati, ma adesso indossava di nuovo la sua maschera verde fosforescente con i tentacoli arancioni di un polpo dipinti su tre quarti del viso. Avere di nuovo il volto coperto era immensamente rassicurante, valutò mentre impartiva i suoi comandi.
I cinque uomini che gli stavano accanto si dileguarono nel nulla, ognuno diretto a svolgere il proprio compito, e lui spostò lo sguardo sul grosso albero che si ergeva in fondo al cortile e vide emergere dall’erba alta del campo una figura scura e dinoccolata che avanzava senza apparente fatica.
«Dove ti eri cacciato? Ce ne hai messo di tempo, a tornare indietro! Per quanto hai corso?» domandò il ribelle con la maschera verde fosforescente, con fare ironico.
«Abbastanza. Dovevo assicurarmi che il soldato a bordo della camionetta non mi vedesse tornare per di qua. Ho corso dalla parte opposta, mi sono nascosto un po’ e ho aspettato…»
«E intanto è venuta sera. È già buio, e abbiamo un casino di roba da fare prima che arrivi l’alba. Non deve rimanere alcun segno dello scontro di questo pomeriggio, e i fuoristrada nella stalla vanno fatti sparire assieme alla camionetta. Te ne occupi tu del cadavere dell’autista ancora disteso sul volante?» domandò il finto Fred Gallagher sghignazzando.
«Lascia che se ne occupi uno dei tuoi. Non mi sembra il caso di ritornare al campo con il sangue di uno dei miei uomini addosso, non credi anche tu?» replicò la silhouette in avvicinamento, raggiungendo l’interlocutore e piazzandosi assieme a lui sotto la pozza di luce emanata dalla grossa lampada appesa sulla porta d’entrata della fattoria.
«Saggio ragionamento. Ma d’altro canto sei tu la mente, qui. Tanto di cappello: la missione è andata a buon fine» mormorò allegramente il rivoluzionario simulando un inchino ossequioso all’indirizzo dell’uomo con il quale stava parlando.
«Si tratta di un’altra minuscola vittoria inconsistente» ribatté freddamente il vicecomandante William Gray, rivolgendo lo sguardo in direzione delle lontane e soffuse luci della città di Eglon, piccole e fumose sull’orizzonte scuro. «È là che si sta combattendo la vera guerra. Là dentro, e quello che noi possiamo fare da qui è semplicemente sperare che presto arrivino altri soldati ad assediare la città. Più siamo e meglio è. La vittoria sarà senz’altro più altisonante, se i morti non si potranno più contare. E il messaggio che lanceremo esploderà dirompente nelle case dei cittadini del mondo, solleverà le nazioni e farà battere i cuori di miliardi di uomini, donne e bambini. Quello che stiamo facendo qui fuori è piccola cosa, in confronto a ciò che succede oltre quelle barricate. È proprio là dentro che il mondo sta scoprendo che cos’è il vero terrore.»Che cosa sta succedendo in cittò, signor Grau?»

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