sabato 10 dicembre 2011

Ali Nere - Prologo

   La donna sollevò la testa di scatto dal cuscino, ansimante, e si mise a sedere scostando le coperte che si erano incollate al suo corpo.
Era madida di sudore. Persino i capelli che le ricadevano sul viso, lunghi, mossi e neri, erano completamente bagnati. Leggere e silenziose gocce le percorrevano le guance scendendo dalla fronte, dove qualche ciocca si era appiccicata alla pelle. Respirava a fatica, come se la presa troppo stretta di una mano sul suo collo si fosse appena allentata e le avesse così permesso di riprendere a riempire d’aria i polmoni. Il petto si alzava e si abbassava velocissimo e in maniera irregolare per seguire quel respiro ansante al quale non era abituata, e le ci vollero alcuni minuti per riuscire a calmarsi.
Alla fine, non senza difficoltà, si tranquillizzò, ma non si sdraiò nuovamente per tentare di riaddormentarsi. Sapeva che non ci sarebbe comunque riuscita, perché ormai era da qualche anno che quella cosa le capitava ogni notte, e ancora non aveva trovato il modo di porvi fine.
Osservò con una punta d’ansia le tenebre che la abbracciavano assieme alle coperte. Un perfetto contrasto tra freddo e caldo, pensò. Tra smarrimento e protezione. Ma neanche sotto le coperte riusciva a sentirsi pienamente al sicuro. Specialmente perché non si trovava a casa sua. E perché suo marito non era lì con lei.
Già. Dov’era Michael?
Quando fu arrivata a stabilizzare completamente il respiro, ecco che una serie di tremiti incontrollati fece da preludio all’arrivo di una lenta scarica di singhiozzi. E con essi, allo stesso momento, giunsero le lacrime, che iniziarono a colarle lungo tutto il viso, bollenti e in un certo senso rassicuranti, a testimoniarle che era ancora viva, e lei permise loro di scendere dolcemente a seguire gli zigomi del suo volto, a calcare i segni di quelle che già erano cadute sul cuscino, mentre il suo corpo veniva scosso dai singulti.
Concesse al pianto soltanto cinque minuti, quindi lo soffocò con fermezza, dimostrando a se stessa di avere ancora il controllo, per ora, e scostò del tutto le coperte. Appoggiò i piedi per terra, saggiando il gelido pavimento, finché non trovò le pantofole e non ve li infilò dentro per poi alzarsi faticosamente e accendere la luce.
La stanza le si rivelò sconosciuta di primo acchito, ma, non appena la vista annebbiata dalle lacrime e dal sonno si mise abbastanza a fuoco, capì dove si trovava: quella era la spoglia e anonima camera da letto di un albergo da pochi soldi. Il letto matrimoniale, dal quale si era appena alzata, si presentava come un comune materasso, non troppo comodo, posizionato su di una vecchia struttura di legno, le coperte pesanti di lana e i cuscini troppo duri. Si vedeva chiaramente che quella notte era stato usato solo per metà, dalla parte in cui aveva dormito lei.
Il resto della stanza era poco arredato: un lampadario a sfera appeso al soffitto, che pendeva giusto verso il centro della camera, due comodini, ai lati del letto, completamente sgombri, e un armadio aperto in cui aveva lasciato la sua unica valigia, ancora sigillata, in attesa di riprenderla in mano per abbandonare il rifugio l’indomani mattina.
Guardò l’ora sull’orologio da polso che suo marito Michael le aveva regalato per il loro quinto anniversario. Era un orologio d’oro bianco. Era costato un occhio della testa, quella volta, a Michael. Ma lui si era limitato a sorriderle amorevolmente, dicendole che avrebbe meritato molto di più, e che molto di più le avrebbe dato se soltanto ne avesse avuta la possibilità. In ogni caso, al di là dei ricordi che l’oggetto le fece balenare alla mente, diede un’occhiata alle lancette: segnavano le due e trenta del mattino.
Bene, si disse, almeno quella notte era successo più tardi del solito. Ma si costrinse a cambiare immediatamente pensieri, perché subito sentì stringersi un nodo alla gola e avvertì le lacrime premere ancora una volta agli angoli degli occhi con insistenza.
Sogguardò con scarso interesse le persiane alle finestre, dietro le tende bianche di poco gusto che ammantavano i vetri opachi. La notte, fuori, stava percorrendo ancora giovane il cielo con i propri neri cavalli alati, seguendo le strade polverose che le aveva creato il vento e gettando fuggevoli sprazzi di luce lunare attraverso la cortina di nuvole che la nascondeva in lunghi tratti del suo apparentemente interminabile viaggio. L’oscurità sembrava essersi seduta comodamente sul trono dal quale poteva osservare con attenzione l’immensità di quel regno che il sole le avrebbe concesso ancora per poche ore soltanto.
La donna si asciugò gli occhi con le maniche del pigiama rosa che indossava, anche quello un regalo di suo marito, e si decise a muovere qualche passo incerto in direzione della porta.
Nel momento stesso in cui posò la mano sulla gelida maniglia, un brivido attraversò il suo corpo come il passaggio inatteso di uno spettro evanescente, facendola sussultare e oscurandole il volto. Un’intensa sensazione di terrore invase la sua mente e assunse il controllo del battito del suo cuore, facendolo accelerare all’impazzata.
Una flebile voce la raggiunse, toccandola, carezzandola, raggelandola, e lei subito spalancò la porta e si precipitò nella stanza delle sue bambine, accanto alla camera da letto appena lasciata.
Debora stava dormendo, agitandosi freneticamente tra le lenzuola, come in preda ad un incubo incontrollabile e impossibile da allontanare. Decise subito di lasciarla perdere per il momento, perché il problema principale era un altro: Sharon non si trovava nel suo letto.
Scrutò le coperte scostate, il materasso vuoto, il cuscino che recava ancora l’impronta della testa di sua figlia, la quale doveva essersi alzata da poco. Si guardò attorno spaventata, in ansia, e la cercò all’interno della stanza con lo sguardo: l’armadio era aperto, e anche lì le due valigie delle bambine apparivano ancora chiuse, proprio come la sua nell’altra camera. Tuttavia, non c’era traccia della sua piccola Sharon da nessuna parte.
«Nella dolce casetta nel bosco…»
La voce della bambina la raggiunse e le penetrò i timpani facendola trasalire all’improvviso. Era Sharon. Si era chiusa in bagno, in fondo al corridoio.
Uscì dalla camera delle sue figlie e si avviò lungo il corridoio per raggiungere la sua piccola di soli cinque anni, che non sapeva perché si fosse recata al bagno da sola, quella notte, visto che di solito quando ci doveva andare correva sempre in fretta a chiamarla. Sperò con tutto il proprio cuore che non stesse succedendo niente di brutto. Si augurò che la bambina fosse in bagno semplicemente perché ci era dovuta andare.
Ma sapeva bene, dentro di sé, che non era così. Da troppo tempo avevano abbandonato per sempre la normalità. Da troppo tempo, ormai, era abituata a dover lottare ogni giorno e ogni notte contro la paura che potesse succedere qualcosa alle sue piccole. Tutto ciò che le rimaneva della sua vita passata.
Si bloccò di fronte alla porta scorrevole del bagno con il cuore in gola, lo sguardo tinto dei colori dell’angoscia e gli occhi ancora parzialmente offuscati dalle lacrime che difficilmente, nelle prossime ore, sarebbe stata in grado di scacciare.
«…all’improvviso la mia bella cantò:
vieni bel cavaliere, e cedimi un bacio…»
La voce di Sharon continuava ad invadere debolmente il corridoio. Stava canticchiando una canzoncina per bambini imparata all’asilo, pensò in un primo momento, ma immediatamente fu costretta a correggersi: quale asilo, se non avevano una casa e non stavano fermi nella stessa città da almeno sei mesi?
«…la notte è ancora lunga; vieni e balliamo…»
«Sharon, sei lì?» domandò con voce strozzata appoggiando l’orecchio alla porta scorrevole. Da sotto, un filo di pallida luce cercava di defluire all’interno del corridoio, ostacolato all’istante dall’oscurità che lo permeava.
«…la luna non scende, vieni e balliamo…»
La voce della piccola era diventata acuta all’improvviso, terribilmente stridente, come graffi di artigli contro una lavagna. Più che una canzoncina, quella che stava articolando Sharon assomigliava ad una lenta e ritmata nenia, una cantilena che le fece ricordare in maniera dolorosa gli ultimi funerali ai quali aveva dovuto assistere, le morti che avevano sconvolto la sua vita negli ultimi periodi, e le fece allo stesso tempo riaffiorare le lacrime in viso.
«Sharon, per favore, rispondimi. Va tutto bene?» chiese ancora, preoccupata. Che cosa accidenti stava succedendo in quel bagno? Perché tutta questa paura che sembrava mormorarle di non aprire assolutamente quella porta, di non attraversare quella soglia a meno che non fosse stato strettamente necessario farlo?
«…non temere, il tuo sangue sarà per noi gioia…»
Cominciava ad avere davvero paura. Anzi no, quel terrore profondo e primitivo che le stava annebbiando lentamente ogni percezione si stava tramutando in qualcosa di molto più concreto e tangibile. Stava iniziando a percepire come una mano fredda e cadaverica posarsi adagio sulla sua spalla, e sapeva che da lì non sarebbe mai più riuscita a farla andar via.
«Sharon… Smettila, ti prego, esci di lì…» chiamò, questa volta con voce più tenue e soffusa, quasi sussurrando al legno di qualche albero ormai sradicato, tagliato e lucidato da anni che costituiva il solido blocco della porta scorrevole del bagno.
«…e i morti che si avvicinano a Te altro non sono
che anime martoriate dalle nere catene del tempo!»
Spalancò la porta scorrevole con tutta la propria forza, in preda al terrore, temendo di poter scorgere all’interno del bagno l’immagine più raccapricciante che le si potesse presentare, nonostante negli ultimi anni ne avesse viste davvero a montagne, di immagini macabre e spaventose.
Inghiottì a vuoto, e il suo cuore cominciò pian piano ad acquietarsi: la sua Sharon era lì in piedi di fronte a lei, e aveva gli occhi aperti, ma pareva che le sue pupille fossero spente, due biglie che la osservavano da dietro un insondabile velo di caligine densa e profonda. La bambina smise di cantare nel momento stesso in cui sua madre ebbe varcato la soglia del bagno, e così quel lamento funebre che aveva udito fino a pochi istanti prima si spense nelle labbra pallide e nel volto cereo della sua piccola Sharon.
La bambina chiuse gli occhi e cadde improvvisamente in avanti, ma la mamma fu abbastanza veloce da afferrarla prima che battesse la testa contro il pavimento del bagno, e la sorresse tra le braccia.
«Mamma..?» domandò la piccola Sharon, schiudendo una fessura attraverso le palpebre, scrutandola con occhi assonnati e chiamandola con voce impastata e flebile. Sembrava non si fosse accorta di nulla.
«Sono qui piccola mia» rispose prontamente, cercando di mantenere il controllo della tonalità di voce per non tradire i singhiozzi che le stavano per arrivare e non permettere alla figlia di avvertire il pianto e le lacrime imminenti.
«Perché siamo in bagno?» volle sapere la bambina, lievemente agitata. La madre la strinse a sé, nascondendo il viso tra il suo collo e la sua piccola spalla, continuando a reggerla tra le braccia come se si stesse aggrappando disperatamente alla vita.
«Non ti preoccupare bambina mia, va tutto bene. Adesso ti riporto a letto e sto lì con te» la tranquillizzò la mamma, ma questa volta tradì l’arrivo del pianto. E le lacrime non si fecero attendere, perché non tardarono un solo istante a sgorgarle dagli occhi e ad inondarle lentamente le guance. Ma lei non se ne curò, e lasciò che scorressero abbondanti, mentre sollevava la sua bambina e la riportava nella stanza da letto destinata alle due figlie, pensando nel profondo che quello che stava capitando loro, quello che erano costrette a vivere, piccole e ignare vittime innocenti di un gioco del destino, lo stavano passando solo ed esclusivamente per colpa sua.

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