lunedì 12 settembre 2011

Le Anime di Eglon - Episodio 2 - Codice Rivoluzione

La facciata di una piccola villetta a schiera prefabbricata, placidamente distesa sotto un sole cocente, biancheggiava lungo la via principale di una qualunque sonnolenta cittadina americana. In alto, al centro del cielo, lo spettro della luna si spostava pigramente, senza troppa fretta, con la sua candida trasparenza che lo faceva apparire morto, rischiarato com’era dalla luce del giorno.
L’inizio di una mattinata qualunque di un qualunque sabato di agosto. Davanti alla facciata della villetta a schiera prefabbricata transitò lentamente una ragazza in bicicletta, con addosso degli shorts in jeans e una maglietta verde della tonalità che quell’anno andava tanto di moda. Si dileguò transitando da sinistra verso destra, e uscì dall’inquadratura.
Un venticello leggero scuoteva fiaccamente le foglie e i rami del grosso albero che si innalzava a lato del modesto rettangolo di prato ben curato antistante la villetta a schiera prefabbricata. Era uno di quei venti inconsistenti che tentano di rendere più sopportabile l’afa delle mattinate d’agosto, senza tuttavia esserne capaci. Ad ogni modo, bisognava pure riconoscergli un qualche merito: stava a poco a poco sospingendo via l’umidità, e i meteorologi avevano previsto che per quella sera avrebbe portato con sé in zona un temporale di proporzioni ragguardevoli che avrebbe in qualche modo lenito le pene dei cittadini americani sprovvisti di climatizzatore in casa.
Un ragazzo che non poteva avere più di una ventina d’anni percorse tranquillamente il vialetto d’ingresso che si inoltrava nel rettangolo di prato ben curato, lo imboccò e proseguì fino a scomparire, pochi istanti dopo, oltre la soglia.
L’interno della villetta era avvolto in una gradevole penombra. Il ragazzo dovette impiegare qualche secondo per abituare la vista a quella differente qualità di luce, dopodiché si avviò in direzione delle scale e salì al primo piano, entrando nel fresco chiaroscuro di una camera da letto e gettando sopra le coperte disfatte lo zainetto che portava sulle spalle.
Si sedette sulla poltrona accanto alla scrivania, afferrò senza indugio il computer portatile che giaceva abbandonato sul ripiano di legno e sollevò lo schermo. Inserì la password per avere accesso al sistema operativo, quindi cercò una connessione wireless alla quale aggrapparsi. La trovò immediatamente disponibile ed effettuò la connessione digitando il proprio codice personale. Avviò il browser di navigazione internet Firefox ed entrò nel suo profilo Facebook.
Scrisse rapidamente il testo del messaggio sul quale aveva rimuginato per un’intera settimana. Esitò ancora per qualche istante, prima di inviarlo, e sospirò con aria meditabonda. Il suo viso era nascosto dall’ombra delle tapparelle. Soltanto le sue mani erano illuminate dal bagliore digitale dello schermo del portatile. Ma se la sua espressione fosse stata visibile, si sarebbe dimostrata ansiosa.
Alla fine pigiò su INVIA MESSAGGIO, e il testo che aveva appena scritto partì.
Fece per richiudere il computer, abbassando semplicemente lo schermo sulla tastiera, quando un trillo richiamò la sua attenzione sulla pagina Facebook aperta: un contatto. Il cuore cominciò a battergli forte. Spostò la freccetta sul nome del contatto per accedere alle sue informazioni personali, quando lo stesso scampanellio di poco prima segnalò l’aggiunta di un secondo contatto. Poi ne arrivò un terzo. Un quarto. Un quinto, assieme al sesto e al settimo. E, tutto ad un tratto, le casse incorporate del computer portatile iniziarono a vomitare squilli e brontolii, e il numero dei contatti prese a salire vertiginosamente, lievitando ed espandendosi più velocemente dello scorrere dei secondi.
La bocca del ragazzo, l’unica parte del suo volto fiocamente rischiarata dal bagliore dello schermo, si distese in un sorriso gelido che più che un moto di soddisfazione sembrava un freddo ghigno calcolatore.
Rilesse il titolo del suo breve messaggio di testo. A grandi lettere, in grassetto, riportava semplicemente due parole: CODICE RIVOLUZIONE.

LE ANIME DI EGLON
PRIMA STAGIONE
EPISODIO 2
CODICE RIVOLUZIONE

Daniel Green, figlio del vicesindaco Thomas Green della città di Eglon, la sera del dieci settembre 2011 se ne stava tranquillamente spaparanzato sul divano a guardare la televisione. Era sabato sera, certo, ma non aveva una gran voglia di uscire. E poi, a casa con lui c’era la sua ragazza, Betty, che adesso se ne stava di là in bagno e con la quale aveva in programma di scopare per tutta la notte e forse, se lei ci fosse stata, anche oltre.
Per essere completamente onesto, la discoteca non gli andava più poi così tanto. Aveva venticinque anni, sicuro, l’età perfetta per uscire a far baldoria, solo che da quando aveva cominciato a lavorare alla centrale elettrica non era più arzillo come prima e il sabato sera si sentiva sempre tremendamente stanco. Non troppo stanco per scopare, sia chiaro. Questo mai. Solo che andare a ballare era sfiancante, e a una certa ora gli dolevano i timpani per via della musica alta. E poi, stare in casa con Betty era mille volte meglio. Specialmente quando mamma era fuori città per uno dei suoi rilievi fiscali e papà doveva restare in municipio fino a tarda ora a lavorare.
Quella era una giornata particolare, questo lo sapeva. Papà non era ancora tornato per un motivo alquanto insolito, uno di quelli che capita una volta sola in tutta una vita: il sindaco Donaldston era stato assassinato. Gli avevano fatto esplodere l’ufficio con una bomba, e c’era mancato un pelo che morisse anche papà. Ma non era successo, e ora papà si trovava al lavoro e lui era lì a guardarsi la tele e di là c’era Betty in bagno che si stava preparando e quando sarebbe tornata in salotto l’avrebbe presa in braccio, l’avrebbe portata in camera da letto e…
Le immagini svanirono di colpo dal televisore, e fecero capolino sullo schermo le classiche bande nere e grigie delle interferenze, quelle che si captavano quando la parabola non prendeva o non era stata collegata bene all’apparecchio. In parole povere, nessun segnale. Sbuffò e cambiò canale, una, due, tre volte. Si tirò su e si mise a sedere, proteso in avanti, schiacciando rapidamente i tasti sul telecomando. Nada, non si prende un accidente. Questo affare si deve essere rotto. Meglio, così papà si deciderà a prendere una di quelle nuove tivù HD Ready che fanno vedere anche il 3D.
«La tv è morta, Betty» annunciò tristemente. «Credo che…»
«Oddio! Oh mio Diooo!» strillò Betty dal bagno, e per poco Daniel non si sentì mancare.
«Che c’è? Che succede?» s’informò, agitato, lanciandosi verso di lei. Che Betty si fosse fatta male? No, Dio, fa’ che non sia così… Aveva voglia di scopare, e se Betty si era fatta male voleva dire che per quella sera…
«Daniel, corri, vieni a vedere! Dio santo, muoviti!» gridò Betty, ancora chiusa nel bagno, e Daniel spalancò la porta, bianco in volto come uno convinto di avere appena incontrato un fantasma, e la vide affacciata alla finestra con la fronte e le mani premute contro il vetro.
Che accidenti sta…
La raggiunse e si mise di fianco a lei. Guardò giù, sulla strada a stento illuminata dai lampioni, e non riuscì ad impedirsi di cacciare un urlo nervoso.
Sulla strada c’erano almeno una cinquantina di persone, tutte serrate l’una all’altra in ranghi compatti, ognuna con una fiaccola accesa tra le mani. Indossavano delle maschere, una miriade di orrende maschere da macabra parata di Halloween nel giorno sbagliato, e sembravano muoversi in una lenta e orripilante marcia funeraria. Solo che davanti a loro, al posto dell’auto funebre, arrancava un grosso e inquietante carro armato.

Katie Simons, la ragazza che solitamente si occupava di dare ripetizioni di matematica ad un terzo dei ragazzini delle scuole elementari di Eglon, la sera di sabato dieci settembre era a casa con l’influenza, stretta sotto le coperte nel proprio pigiama, ed era intenta a messaggiare con il suo ragazzo intorno alle undici e quaranta (il quale invece, pensa un po’, era andato alla festa di Tila senza di lei!) quando all’improvviso fece per inviare un sms denso di allusioni ad un possibile omicidio da parte sua (e d’altro canto chi poteva affermare che quella sgualdrina di Tila Berkovich non se la sarebbe meritata, visto che ci provava con tutti i ragazzi già impegnati della città?) e scoprì con un certo fastidio che non c’era più campo.
Si alzò e, nonostante i brividi di freddo, si avventurò in direzione della finestra a vedere se per caso lì il cellulare riuscisse a ritrovare qualche tacca di segnale.
Si arrese quasi subito, perché tanto non serviva a nulla. Si trascinò stancamente in sala, dove le luci erano state spente perché mamma e papà erano usciti a prendersi un gelato, e sollevò la cornetta del telefono, componendo a memoria il numero del telefonino del suo ragazzo Chris.
Si rese conto soltanto quando ebbe finito di digitare i minuscoli pulsanti sul ricevitore e si fu avvicinata la cornetta all’orecchio che il telefono produceva un suono quanto mai sinistro: il silenzio assoluto, più drammatico e preoccupante di qualsiasi altro rumore potesse esserci sulla faccia della Terra. Katie rabbrividì, più per via della febbre che non per la paura. Poteva capitare che la linea si guastasse. Il fatto che il cellulare non prendesse, poi, non significava niente: magari uno dei ripetitori non funzionava bene, oppure semplicemente era colpa di tutto quel cemento armato che costituiva le pareti dell’immenso edificio nel quale si trovava il suo appartamento.
Ritornò a letto trascinandosi dietro le pantofole rosa pelose, sospirando abbattuta e sconsolata. Non aveva più modo di comunicare con Chris, ma questo in fin dei conti andava bene: avrebbe pensato che se la fosse presa con lui tanto da smettere di parlargli, e un pizzico di ansia avrebbe fatto senz’altro bene a quel ragazzo, sicuro com’era che tra loro due ogni coccola e ogni favore fosse cosa del tutto scontata e dovuta. Eh no bello mio, so io come rimetterti in riga, sogghignò Katie tra sé e sé, intanto che si rituffava tra le coperte calde.
Era quasi mezzanotte, e l’indomani in centro ci sarebbero state le celebrazioni in memoria dell’undici settembre, per il decimo anniversario dagli attacchi. Il che toglieva a Chris ogni possibilità di andarla a trovare, perché le strade sarebbero state chiuse e lui non avrebbe di certo fatto il giro lungo solamente per romperle le scatole finché era ammalata. O, perlomeno, così sperava.
Si raggomitolò nel tepore della trapunta e chiuse gli occhi, pronta a lasciare che il sonno la cogliesse come un fiore da un campo e la portasse via con sé, tra le sue tiepide mani delicate.
Si risvegliò di soprassalto quando il campanile di Eglon scandì il primo dei dodici rintocchi della mezzanotte, e in quel preciso istante una violenta esplosione le sconvolse i timpani, facendola scivolare per terra a rannicchiarsi sotto il letto.

Mezzanotte. Il grande schermo che troneggiava su Main Street dalla facciata della Eglon Tower, la mastodontica torre eretta dieci anni prima da un importante ingegnere di fama internazionale in onore della sua città natale, si oscurò all’improvviso, inghiottendo nel buio i numeri rossi bordati di verde che segnavano digitalmente l’ora, la data e la temperatura correnti dal giorno stesso in cui la massiccia opera architettonica era stata inaugurata.
Una scarica di interferenze transitò fuggevolmente sul gigantesco schermo, e la gente che si era radunata lungo Main Street per vedere quale fosse l’origine di tutto quel trambusto si lasciò sfuggire un sospiro collettivo, resa nervosa dagli sconosciuti eventi che si stavano verificando.
La maggior parte dei cittadini aveva già scorto i carri armati e le file di uomini in maschera che camminavano muniti di fiaccole accese. Sembrava un corteo di demoni in procinto di annunciare la fine del mondo. Allo stesso modo quasi tutti, ad Eglon, si erano resi conto che i cellulari non prendevano, che televisioni e telefoni fissi non funzionavano e che tutte le radio erano sostanzialmente defunte, perché non si riusciva a captare neppure uno straccio di frequenza a corto raggio. C’era una tenue sensazione di timore, che serpeggiava tra gli edifici illuminati di Eglon, accarezzando le persone e mostrando loro la propria cruda realtà presente.
Il campanile della chiesa di Eglon batté il primo lugubre rintocco, che riecheggiò per tutti i quartieri e spazzolò via la polvere dalle strade, scuotendo nel profondo la città con la propria nota grave.
Tutto avvenne molto rapidamente, tanto che fu questione di poco più di un attimo. Una grossa nube di pulviscolo si alzò dal tratto iniziale di Main Street, e il fragore dei vetri infranti, assieme all’odore acre e fragrante della polvere da sparo, accompagnò l’urlo della detonazione che fece tremare i palazzi circostanti. Un enorme edificio in fondo alla carreggiata principale, nel punto in cui le due linee di abitazioni si interrompevano bruscamente per lasciare spazio agli ultimi lampioni prima del buio atono della campagna, esplose, lanciando blocchi di cemento armato, scaglie di vetro luccicanti e grossi brani di asfalto inaridito dal sole estivo in ogni direzione.
La gente si voltò dalla parte del botto, ma tutto fu presto invaso dal fumo che, come una nebbia particolarmente fitta, oscurò ogni immagine avvolgendo Main Street lampione dopo lampione.

Jeremy Barton, poliziotto in servizio a Eglon da ventidue anni, cinque rapine a mano armata sventate negli ultimi dieci inverni e sette
(e dico sette)
risse sedate dall’inizio della sua carriera, prese la mira con accuratezza, sporgendo lievemente la punta della lingua tra le labbra screpolate come era solito fare quando doveva concentrarsi e centrare al primo colpo il bersaglio.
Lanciò, e i calzini umidi di sudore che aveva portato per tutta la giornata, ora minuziosamente appallottolati, finirono in pieno all’interno del cesto della biancheria sporca.
Jeremy si girò dall’altra parte, scandagliò con lo sguardo il corridoio immerso nella semioscurità ed esultò, sollevando i pugni al cielo in segno di vittoria e gridando a squarciagola: «Chi è il Campione, eh? Si può sapere qui chi è il Campione?!»
L’aveva preso al primo tentativo. Proprio così, signore e signori, al primo tentativo, ed era un risultato niente male visto e considerato che il Campione era in piedi dalle cinque di quella mattina e si era dovuto sorbire in tacita sopportazione ben quattro ore di straordinari. E adesso chi è il Campione, eh, si può sapere?
Sghignazzò beato e uscì nel terrazzo, giusto in tempo per sentir suonare la mezzanotte e scorgere in lontananza una reboante esplosione da far rabbrividire le viscere. Istintivamente si abbassò tappandosi le orecchie con le mani, chiuse gli occhi e si sdraiò a terra aspettando che lo spostamento d’aria generato dallo scoppio lo oltrepassasse. Avvertì i capelli rizzarsi sulla nuca. Si rialzò e ammirò con crescente terrore la sfilata di uomini mascherati che passavano lungo la via sotto casa sua, le fiaccole accese che rimandavano barbagli fiammeggianti sulle pareti degli edifici e sui vetri dei negozi, fondine che sporgevano dai fianchi e lasciavano intravedere impugnature di pistole.
Ma che cazzo sta succedendo? si domandò inquieto Jeremy, con un’atavica sensazione di smarrimento che sembrava avergli costruito in meno di mezzo secondo un’impenetrabile barriera nella testa, impermeabile persino ai pensieri.
Si precipitò nuovamente in casa, afferrò la sua pistola d’ordinanza e la strinse a sé. Quindi ci ripensò, prese la cintura e se la passò attorno alla vita, la allacciò e nascose alla bell’e meglio fondina e impugnatura sotto una piega della camicia. Tornò di corsa in terrazza e si rimise ad osservare quella gente laggiù. Li vide dividersi in gruppetti. Fu lanciato un ordine, un segnale incomprensibile come un grido di battaglia, e le fiaccole si spensero tutte d’un colpo, insieme, come divorate dall’oscurità della notte.
Per un attimo non vide più nulla. Poi la luce flebile dei lampioni incominciò a fargli scorgere di nuovo le ombre di quegli uomini mascherati. Partirono di corsa, in piccoli manipoli, diramandosi per le vie laterali che si snodavano a partire da quella strada lì sotto.
Doveva fare qualcosa, e alla svelta.
Afferrò senza esitazioni la radio a corto raggio che aveva abbandonato in cucina prima di andare a farsi la doccia, quella che la polizia di Eglon dava in dotazione a tutti i suoi agenti per potersi tenere in costante contatto, la sintonizzò sulla frequenza della centrale e mitragliò rapidamente: «Polizia di Eglon, qui è l’agente Jeremy Barton. C’è un problema. Dal terrazzo di casa mia ho visto uomini armati correre per le strade, e non sento ancora nessuna sirena, segno che non vi è stato alcun intervento. Dovete mandare delle volanti immediatamente, si stanno dividendo e bisogna fermarli. C’è stata un’esplosione, dall’altra parte della città. Credo ci possano essere dei feriti.»
Nessuno rispose. La radio sembrava morta. Tentò su un’altra delle frequenze delle quali si serviva solitamente la polizia di Eglon, e dopo aver ripetuto il messaggio trovò il medesimo, inscindibile silenzio. Niente comunicazioni radio. Lasciò cadere sul tavolo la ricetrasmittente e si proiettò in direzione del telefono fisso. Sollevò la cornetta, e subito capì che non sarebbe servito a niente. Neanche il telefono funzionava. La linea era stata in qualche modo scollegata.
D’accordo. Tutto ciò che gli rimaneva da fare, a questo punto, era uscire e recarsi di persona alla centrale di polizia. Se davvero le comunicazioni erano state interrotte in tutta la città, come presumeva, sarebbe stato impossibile contattare gli altri agenti e coordinarsi in un’azione difensiva. La città di Eglon era in stato di allerta. Doveva parlare immediatamente con il capo della polizia ed escogitare una soluzione rapida ed efficace. C’erano uomini armati a piede libero, e c’era stata anche un’esplosione. Bisognava tranquillizzare i cittadini al più presto e fermare chiunque avesse commesso quell’atrocità.
Toccava a lui, adesso, attraversare la città in mezzo a tutto quel caos. E non lo avrebbe fatto con indosso la divisa da poliziotto. Nossignore. Se non voleva morire prima ancora di cominciare, era meglio uscire in borghese e darsi una mossa.
Si scagliò fuori dalla porta del suo appartamento in jeans e camicia, la pistola nascosta sul fianco, e se ne andò, senza chiudere a chiave.

La folla che si era radunata a Main Street era immensa, una fiumana di persone che sciamavano agitate per ogni dove, urlando e chiamandosi a vicenda, correndo di qua e di là senza una meta ben precisa. Tutte le strade della città di Eglon, ormai, a cinque minuti dall’esplosione, erano ridotte in quello stato, avvolte dalla calca e percorse da grida disperate e invocazioni dettate dal panico.
Il grosso edificio esploso sul margine della città, l’ultimo lungo Main Street prima che la carreggiata si inoltrasse nei campi in direzione della Interstate 530, non aveva retto ed era crollato lateralmente, invadendo la strada e bloccandola con una specie di argine artificiale fatto di macerie e detriti. L’asfalto era saltato in aria per un buon centinaio di metri, come raschiato via da una grossa ruspa, ed era stata la detonazione a causare quello sfacelo.
Il fumo lentamente si diradò e permise alla terrorizzata popolazione di Eglon di assistere a questo spettacolo. Un lampione, poco più in là, era stato piegato dall’impatto con lo spostamento d’aria generato dal botto. Era ancora acceso, e la luce che emanava appariva a dir poco spettrale. Andava e veniva, salterellando come una fiammella su di una candela. Ma perlopiù funzionava, per metà dritto e per metà piegato in orizzontale con la lanterna posizionata in direzione del centro della città.
Un drappello di uomini si posizionò attorno alle macerie del palazzo crollato. Uomini che portavano strane maschere di plastica che lasciavano intravedere soltanto gli occhi e le labbra. Alcuni indossavano semplicemente delle bandane che coprivano il volto fino al naso e tenevano il cappuccio calato sulla fronte e un paio di occhiali da sole.
Tutti erano armati. Imbracciavano mitragliatrici, impugnavano pistole, stringevano spranghe di ferro tra le dita. Si radunarono attorno all’edificio crollato, si sparpagliarono lungo la strada e i marciapiedi, si diffusero a macchia d’olio tra i cittadini, mescolandosi a loro e integrandosi nella folla come se essa li avesse all’improvviso ingurgitati.
Lo schermo gigante che come un occhio onniveggente osservava l’intera città dall’alto della Eglon Tower mandò un paio di scariche luminose, quindi ritornò buio e dopo alcuni secondi fece comparire un’immagine, quasi che in quattro e quattr’otto fosse stato convertito in un enorme televisore sospeso. C’era uno strano simbolo, ora, colorato di rosso e bordato di verde come i numeri che di solito segnavano ora, data e temperatura sul pannello ciclopico. Un simbolo incomprensibile, che presto si smaterializzò per lasciare spazio al volto di un uomo coperto da una maschera.
La gente si volse a guardare quell’uomo sul grande schermo, e il silenzio calò nuovamente su Main Street. L’immagine era fissa, come una fotografia. La maschera che l’uomo indossava era completamente blu, con una ragnatela rossa sul lato sinistro della faccia e una grossa croce di fuoco a destra, la fronte nascosta da un elmetto color verde militare di quelli che indossavano i soldati prima di scendere sul campo di battaglia.
Quello stesso uomo si arrampicò su un carro armato fermo al centro di Main Street. Il mezzo corazzato fu circondato da una trentina di altri uomini con addosso maschere diverse, i quali spianarono le proprie mitragliatrici verso la folla che si stava avvicinando. La gente indietreggiò. Alcune donne urlarono. Molti rientrarono velocemente in casa, ma i più rimasero lì ad aspettare.
All’uomo mascherato salito sul carro armato fu passato un megafono. Lo accese e se lo avvicinò alla fessura in corrispondenza della bocca, attraverso la quale poteva parlare e respirare. Con una voce atona ed eccezionalmente metallica, sintetizzata dal megafono e priva di qualsiasi accento o inflessione particolare, mormorò: «Buonasera, Eglon, e benvenuta in questa nuova rivoluzione

Stan uscì in giardino e attraversò rapidamente la strada, infilandosi tra la gente e avvicinandosi a quel grosso carro armato che se ne stava fermo laggiù, poco distante da dove aveva dovuto lasciare la sua automobile.
Sarah e Robert si erano barricati in casa, avevano svegliato i bambini e si erano radunati tutti assieme in salotto, seduti sui divani con espressioni stralunate. Quando aveva detto loro che intendeva uscire per andare a vedere che cosa stesse accadendo, lo avevano squadrato con le stesse occhiate di circostanza che abitualmente si rivolgono ad un pazzo e non avevano ribattuto, permettendogli di andare fuori ma impedendogli di prendere con sé un mazzo di chiavi, sostenendo che gli avrebbero aperto loro non appena fosse tornato.
Sarah era sconvolta, e Robert non era da meno. Avevano assistito all’esplosione, o per meglio dire l’avevano intravista da lontano, perché il loro quartiere si trovava parecchio distante dal punto in cui il palazzo era stato fatto crollare. Avevano comunque potuto scorgere il flash di luce e il fumo, e bastava fare due più due per capire di che cosa si fosse trattato.
Robert aveva preso a tremare. Lanciava spropositi a destra e a manca, dicendo che lui doveva andare in banca a prelevare il suo denaro prima che lo sportello chiudesse e che l’indomani mattina ci sarebbe andato, anche se fosse venuto lì il fantasma di Hitler a dirgli che era scoppiata una nuova guerra mondiale e che non poteva uscire di casa se ci teneva alla pelle.
Stan se n’era andato prima di dover sentire altre cavolate del genere. I bambini erano spaventati, e Sarah li stringeva a sé. La detonazione era avvenuta da un paio di minuti quando Stan aveva superato la soglia di casa e si era richiuso la porta alle spalle, fiondandosi su Main Street e percorrendola di corsa in direzione del punto in cui era si era verificata l’esplosione, facendosi guidare da quella spessa colonna di fumo che ancora si innalzava all’orizzonte.
C’erano persone ovunque. La gente si muoveva di qua e di là, provava a chiamare con il cellulare, si interrogava a vicenda per capire se qualcuno avesse una vaga idea intorno a quello che stava capitando in città. Qualche uomo in maschera transitava adagio lungo le vie. Stan vide un tizio avvicinarsi ad uno di quegli uomini mascherati e quest’ultimo puntargli addosso una pistola e fargli segno di allontanarsi. Il tizio ubbidì, tenendo le mani alzate sopra la testa per dichiarare che non intendeva creare problemi.
Una voce sintetizzata scaturì da un punto indistinto di Main Street, fioca ma udibile, amplificata da un megafono. Stan alzò gli occhi sulla Eglon Tower e vide l’immagine di quella maschera immobile. Le parole pronunciate da quella voce senza accento gli fecero venire la pelle d’oca.
«Buonasera, Eglon, e benvenuta in questa nuova rivoluzione
Una breve pausa d’effetto. La folla si era ammutolita, e mentre il fumo dell’esplosione attraversava le strade della città Stan percepì chiaramente che quello era soltanto l’inizio.
«Siamo sicuri che vi arrenderete facilmente, cittadini di Eglon, e che non opporrete alcuna resistenza. La città è tagliata fuori dal resto del mondo: niente radio, niente televisione, niente telefoni o cellulari, niente connessione internet. I nostri uomini hanno occupato le strade, e presto ogni via di collegamento tra Eglon e l’esterno verrà definitivamente bloccata. Nessuno uscirà più dalla città, e nessuno entrerà, a meno che non siamo noi a volerlo.
«È l’undici settembre, signore e signori. Dieci anni fa gli Stati Uniti d’America hanno subito il più terribile attentato terroristico che sia mai stato concepito dalla nascita dell’uomo. Oggi, noi avvieremo qualcosa di altrettanto magnifico. Da oggi ha inizio la rivolta più grande che la storia abbia mai visto: la Rivoluzione di Eglon, e tutti voi siete fin da ora chiamati a farne parte.»

Nessun commento:

Posta un commento